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I Il Sud e l'unità d'Italia |
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Parte Terza
9. La Sicilia
10. L'invasione
delle Due Sicilie
10.1
L'interregno di Garibaldi
10.2 La
situazione militare
10.3 I
Plebisciti
10.4 Il sigillo
inglese
10.5 Le ultime
battaglie, la fine delle Due Sicilie
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(
Piano completo dell'opera)
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Brigantaggio
Parte Terza
9. La Sicilia
Dal punto di vista politico, la Sicilia rappresentava
il tallone d'Achille del regno del Sud, e le sue aspirazioni indipendentiste
furono strumentalizzate dai rivoluzionari liberali, dall'Inghilterra e dai loro
alleati piemontesi con l'intento di destabilizzare le intere Due Sicilie, e di
portarle al collasso istituzionale. Per secoli, sin dai tempi degli arabi, del
vicereame spagnolo, dei Borbone e perfino nell'ultimo dopoguerra col movimento
indipendentista di Finocchiaro, la Sicilia ha avanzato richieste autonomistiche
nei confronti dei governi continentali tanto che, alla nascita della attuale
Repubblica Italiana, la Sicilia fu dichiarata Regione a statuto autonomo. Nel
1812, durante il periodo napoleonico, nel quale il Borbone si era rifugiato
nell'Isola a causa dell'occupazione francese, era stata promulgata una
Costituzione sul modello inglese, con due camere, una di Pari, nominata
dal Re, ed una elettiva con sistema censuario. Gli Inglesi, intendevano
sfruttare i fermenti indipendentisti siciliani. Col pretesto di proteggere il
re, miravano in realtà a mettere le mani sull'isola più grande ed importante del
Mediterraneo. Nel gennaio 1814 si svolsero dei negoziati tra emissari di Murat e
del plenipotenziario inglese Lord Bentinck. La sede dei colloqui fu l'isola di
Ponza, che l'Inghilterra aveva occupato senza incontrare resistenza. Gli Inglesi
si impegnarono a salvare la vacillante corona del Francese nella parte
continentale del regno una volta che Napoleone fosse stato definitivamente
sconfitto. In cambio ottennero la definitiva rinuncia alla Sicilia. Le
trattative divennero presto di dominio pubblico e il Corso andò su
tutte le furie (1). Successivamente, al Congresso di
Vienna, fu l'austriaco Metternich a far naufragare le mire inglesi sulla
Sicilia, imponendo la restituzione a Ferdinando I di tutti i territori. Anche
l'Austria infatti mirava ad estendere la sua influenza sulle Due Sicilie.
Metternich ne ricavò anche vantaggi diretti: "per il suo impegno personale per
la restituzione della Sicilia al regno dei Borboni, pretese due milioni di
franchi. Ferdinando avrebbe voluto limitarsi a pagarne 1.200.000 ma lo statista
austriaco fece sapere di non potersi accontentare di questa cifra perché il suo
patrimonio familiare era stato dilapidato dal padre" (2).
In Sicilia "gli Inglesi non hanno lasciato alcun monumento
degno di un potere che meriti il nome di sovrano (...) e tuttavia non c'è classe
sociale che non li rimpianga, semplicemente perché, almeno per un certo tempo
hanno salvato i Siciliani da Napoli" (3).
L'11 dicembre 1816, appena tre giorni dopo la proclamazione del Regno delle Due
Sicilie, in ottemperanza ai desideri di autonomia isolana, fu approvata la legge
che riservava ai Siciliani la maggior parte delle cariche amministrative della
Sicilia. Affidava l'amministrazione della giustizia a magistrati locali. La
coscrizione obbligatoria non fu introdotta nell'Isola. Nel 1819 la legislazione
centralizzata ed antifeudale fu estesa anche alla Sicilia, dove trovò moltissime
resistenze tanto che solo nel 1838 si riuscì ad abolire la giurisdizione dei
baroni. Il feudalesimo si rivelò duro a morire, anche a causa dell'insufficiente
azione del governo nell'assicurare certezza nel diritto. Nel 1840 lo scrittore
Frederic von Raumer riferì che nell'Isola, su una popolazione di circa 2 milioni
di anime, si contavano 127 principi, 78 duchi, 130 marchesi, innumerevoli conti
(per tacere dei baroni), "molti i quali ben di rado hanno visto i loro
possedimenti e mai hanno posto mano alla loro amministrazione ed era questa
noncuranza da parte dei proprietari terrieri a costituire un'altra delle fonti
di inquietudine dell'isola"
(4)
Nel 1820 ci furono i moti indipendentisti, in concomitanza
della rivoluzione incruenta avvenuta a Napoli sotto la guida di Guglielmo Pepe.
I siciliani non si accontentarono della costituzione concessa da Ferdinando I ed
inalberarono la bandiera della Trinacria formando un governo provvisorio. La
rivolta fu repressa nel sangue dalle truppe napoletane di Florestano Pepe,
fratello di Gugliemo, su mandato del Parlamento liberale. Nel 1848 era stata
proprio l'Isola a manifestare i primi fermenti rivoluzionari: "in questa fase
nell'isola scarso era il seguito popolare (esso esisteva solo tra gli
intellettuali) per le idee mazziniane e il programma di unificazione
dell'Italia; l'unico obiettivo era la liberazione dal dominio
napoletano" (5). Si arrivò a proclamare, il 13
aprile, la decadenza di Ferdinando II e ad offrire la corona ad un principe di
casa Savoja, che però rifiutò, anche perché il re delle Due Sicilie, in una nota
diplomatica al Piemonte, fece intravedere la possibilità di un conflitto.
La perdita dell'indipendenza con l'unificazione del 1816, la
decadenza di Palermo dal ruolo di capitale, avevano giocato un ruolo
importantissimo nell'incrinare i rapporti con Napoli che, dal canto suo, non
percepì in tempo la portata del malessere siciliano. La Sicilia si vedeva
ridotta, dopo secoli di splendori, all'inaccettabile ruolo di colonia. Tali
risentimenti, come detto, vennero alimentati ideologicamente, finanziariamente
ed organizzativamente dall'Inghilterra (anche attraverso la ramificata
massoneria). La Sicilia veniva blandita dall'Inghilterra sia per la sua
posizione altamente strategica, sia perché quasi unica produttrice di zolfo, che
all'epoca aveva l'importanza che ha oggi il petrolio: serviva per realizzare gli
esplosivi, ed esserne privi significava restare in balia degli avversari. A poco
o nulla valsero gli ampi privilegi concessi all'Isola dal governo borbonico:
tassazione lieve e l'esenzione dalla coscrizione obbligatoria. La vita e la
proprietà erano sicure tanto che la famosa guida turistica del
Murray (6) affermava che i Borbone "ebbero
almeno il merito di rendere le strade della Sicilia sicure come quelle del Nord
Europa ". Nel decennio 1850-1860 si costruirono nuove arterie, si ampliarono i
porti, si eressero scuole ed ospedali. Nondimeno il malessere dei Siciliani
rimase intatto. La forte presenza commerciale e finanziaria inglese aveva
generato una diffusa anglofilia la quale andava di pari passo con la
convinzione che si potesse realizzare l'indipendenza sotto un protettorato
inglese, per fare della Sicilia un'altra Malta, protesa tra Europa e Africa.
Questa soluzione venne nuovamente incoraggiata da Londra ma, nella primavera del
1860, Napoleone III dichiarò che se l'Inghilterra avesse occupato anche solo in
parte la Sicilia ci sarebbe stata la guerra e la Francia si sarebbe annessa il
Belgio.
Dopo l'annessione al regno d'Italia i Siciliani stettero molto
peggio: Cavour non concedette nessuna forma di autogoverno, impose nuove e più
gravose tasse come pure la coscrizione obbligatoria. I nuovi funzionari
piemontesi, che si succedettero ad un ritmo serrato fallendo tutti nei loro
compiti, erano completamente insensibili nei confronti della Sicilia della quale
ignoravano usi e costumi per non parlare della lingua. L'ordine pubblico non
venne più garantito tanto che solo a Palermo si contarono millecinquecento
assassinii nei primi due anni dall'Unità. I latifondisti, che avevano
appoggiato i Piemontesi continuarono a perpetrare i loro soprusi. Bande di
malfattori si scontravano quotidianamente in tutta la regione. Nel 1862, nel
parlamento di Torino, si usò un neologismo: la parola, prima inesistente,
mafia.
Ricordiamo infine la brutale repressione che nel 1866
insanguinò Palermo: c'era stata una rivolta contro i nuovi padroni piemontesi e
nell'occasione la seconda capitale delle ex Due Sicilie fu bombardata dal mare
dalla flotta di Persano (fresco reduce della umiliante sconfitta di Lissa) e
devastata dalle truppe di Raffaele Cadorna. In un sol giorno si ebbero 2000
morti e 3600 prigionieri.
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Note al capitolo 9:
1. Silverio Corvisieri, "All'isola di Ponza", Il
Mare,1985 torna al
testo
2. Walter Maturi, La politica estera
napoletana dal 1815 al 1820, in Rivista storica italiana, serie V, 30.06.1939,
vol. IV, pag.247 (riportato da Silverio Corvisieri, op. cit.) torna al
testo
3. Simond, riportato da Raleigh Trevelyan,
"Principi sotto il vulcano", BUR, 2001 torna al testo
4.-5. Raleigh Trevelyan, op. cit.
torna al
testo
6. pseudonimo del console inglese George
Dennis torna al
testo
10.
L'invasione delle Due Sicilie
Sulla base di quanto descritto nei precedenti capitoli,
appare evidente che la ricerca storica non possa più accontentarsi di
accreditare la versione romantica dei fatti del 1860. La storiografia ufficiale
ha volutamente lasciata nell'ombra la mano della nazione che più d'ogni altra
intendeva beneficiare di una nuova realtà politica: l'Inghilterra; "Senza
l'aiuto di Palmerston, Napoli sarebbe ancora borbonica, e senza l'ammiraglio
Mundy non avrei giammai potuto passare lo stretto di Messina" questo dichiarò
Garibaldi in un discorso tenuto nel corso del viaggio in Inghilterra nell'aprile 1864 (1).
L'intervento politico inglese era finalizzato all'unità
politica della Penisola: le motivazioni ideali di facciata erano sbandierate per
coprire quelle vere, di natura economica e strategica: "l'Inghilterra non è
gelosa d'alcun impero già esistente; essa è pacifica ed ha bisogno d'amici, è
trafficante ed ha bisogno d'avventori. Ben vede qual vasto mercato (l'Italia,
n.d.a.) pei suoi prodotti che fornirebbero 25 milioni d'uomini, abitanti una
contrada prediletta dalla natura e correnti la via del progresso. Non ignora che
deplorabili barriere sono poste al commercio dal moltiplicarsi delle dogane,
conseguenza delle divisioni territoriali, e saluterebbe con gioia
un'unificazione che tutte le togliesse di mezzo. Sa che l'Austria,
signoreggiando in qualche parte d'Italia, non cesserà mai d'adoprarsi con ogni
studio per escludere i prodotti britannici quasi fossero britanniche idee,
affinché i prodotti austriaci e l'austriaca melensaggine abbiano campo di
penetrare senza competitori e senza ostacoli" (2).
Il braccio armato di Londra in Italia era da tempo unicamente il Piemonte, che
ne controllava casa regnante e classe dirigente. Il 15 giugno 1848 Lord
Palmerston (allora ministro degli Esteri britannico) scriveva a Re Leopoldo del
Belgio: "Io amerei di vedere tutta l'Italia Settentrionale unita e un solo reame
che comprendesse il Piemonte, Genova, Lombardia, Venezia, Parma e Modena (...)
Una tale sistemazione per l'Italia settentrionale sarebbe altamente favorevole
alla pace d'Europa con anteporre tra Francia e Austria uno Stato neutrale forte
abbastanza da farsi rispettare da solo" (3).
Il Piemonte ottenne anche l'aiuto francese nella guerra del 1859, e mirò a
completare l'opera con l'annientamento del florido Regno delle Due Sicilie che
aveva una politica autonoma, contraria agli interessi sardi e delle
superpotenze.
Intanto i rivoluzionari nostrani, finanziati ampiamente da
Inghilterra e Piemonte, soffiavano sul fuoco del malcontento siciliano. Il 27
novembre 1859 il capo della polizia siciliana, Salvatore Maniscalco, fu
pugnalato mentre stava entrando in chiesa con moglie e figli per assistere alla
messa, e rimase gravemente ferito (il sicario fu ricompensato da Garibaldi, mesi
dopo, con una pensione). Il 2 marzo 1860 Mazzini incitava alla ribellione i
Siciliani. Il 4 aprile i comitati rivoluzionari di Palermo, coordinati da Genova
da Francesco Crispi, accesero la miccia della rivolta che ebbe due protagonisti
principali: il barone Riso (4), a capo dell'ala aristocratica (formata
da uomini molto simili al Tancredi del romanzo il "Gattopardo" di Tomasi di Lampedusa) e un suo omonimo, l'idraulico Francesco Riso, che
guidava i popolani. Il 7 aprile 1860 un'assemblea degli esiliati napoletani a
Torino approvò una deliberazione in cui tutti, salvo quattro, votarono per
l'unione delle Due Sicilie al Piemonte (5).
Il 14 aprile tredici rivoluzionari furono fucilati a Palermo ma le sommosse
continuarono, nelle campagne di tutta la Sicilia, fino alla fine del mese. Il 18
aprile 1860, Cavour, nelle sue vesti di ministro della Marina inviò navi da
guerra in Sicilia, ufficialmente per proteggere i sudditi piemontesi presenti
nell'Isola, ma in realtà "per giudicare con perfetta conoscenza di causa delle
forze che si trovano nell'isola così dalla parte degli insorti come da quella
delle truppe reali (6)". Poco dopo lo stesso primo ministro,
anche a nome del ministro della Guerra Fanti, chiese all'ambasciatore piemontese
a Napoli l'invio di carte topografiche del regno delle Due Sicilie, che giungono
nel regno sabaudo con la nave Lombardo, utilizzata nove giorni dopo da
Garibaldi per la spedizione dei Mille. A fine aprile lo stesso Cavour si recò a
Genova, per controllare i preparativi dei garibaldini.
Partiti da Quarto, il 6 maggio, i vapori Lombardo e
Piemonte (acquistati con regolare atto notarile il 3 maggio dall'armatore
Rubattino da parte di agenti del Cavour, e non rubati come recita la
storiografia ufficiale) giungevano la mattina dell'11 presso le isole Egadi, a
bordo i famosi Mille. "Tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra;
e tranne poche eccezioni, con radici genealogiche nel letamaio della violenza e
del delitto" come affermò lo stesso Garibaldi il 5 dicembre 1861 in un discorso
nel Parlamento di Torino. I " Mille " non erano un gruppo di goliardi patrioti
ed improvvisati rivoluzionari ma, per la gran parte, veterani delle campagne del
1848-49 e del 1859, con folta la rappresentanza straniera di inglesi, ungheresi,
polacchi, turchi e tedeschi. È storicamente falsa l'aura romantica che, sui
libri di testo delle scuole, circonda la spedizione. L'invasione della Sicilia
riuscì grazie all'appoggio del Piemonte (apertamente spalleggiato da Inghilterra
e Francia), degli ufficiali borbonici "convertiti" alla causa e dei latifondisti
siciliani. Nulla avrebbero potuto 1000 uomini contro i 25 mila soldati
perfettamente equipaggiati dell'esercito meridionale stanziati in Sicilia, senza
considerare gli altri 75 mila presenti nel Sud continentale. Lo stesso
Garibaldi, che nessuno accredita di una intelligenza superiore, si rese conto
del problema ed esitò a lungo nell'accettare il comando della spedizione perché
temeva di far la fine dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane che avevano
tentato in passato (nel 1844 e nel 1857) delle sortite simili, fallite
miseramente e pagate col loro sangue. A fine aprile stava per rientrarsene a
Caprera, con Cavour ormai propenso a sostituirlo a capo della spedizione con il
generale Ribotti. Garibaldi poi si convinse perché "i capi militari della
spedizione, Garibaldi, Bixio, Cosenz , Medici, sapevano di poter soprattutto
contare sul supporto logistico del governo sardo, una volta effettuato il primo sbarco" (7). Tre fregate sarde erano state
inviate in Sardegna il 28 aprile per proteggere la spedizione. Inoltre il
vicecomandante della Mediterranean Fleet inglese, contrammiraglio Mundy, aveva
ricevuto ordini di pattugliare il Tirreno, il canale di Sicilia e soprattutto di
fare frequenti scali nei porti delle Due Sicilie a scopo intimidatorio. Il mare
di Marsala (il luogo dello sbarco) era pattugliato da alcune navi da guerra
borboniche: la pirocorvetta Stromboli, il brigantino Valoroso, la
fregata a vela Partenope ed il vapore armato Capri. Poche ore
prima dell'arrivo dei Mille, le navi avevano lasciato il porto della città, dove
erano all'ancora due cannoniere inglesi, l'Argus e l'Intrepid;
partite giorni prima da Messina. Avevano fatto scalo a Palermo il 9 maggio, dove
era stata data una festa a bordo per festeggiare la notizia dell'imminente
arrivo di Garibaldi, di dominio pubblico sia a Palermo che a Napoli. Il giorno
dopo salparono per Marsala per "proteggere le proprietà dei sudditi inglesi" (i
ricchi commercianti del vino Woodhouse, Ingham, Whitaker), dove giunsero alle
ore dieci del giorno 11 maggio 1860 (8). C'è da chiedersi come mai arrivassero proprio allora e non
all'inizio di aprile, quando era scoppiata un'insurrezione, poi domata il 6
maggio dal generale borbonico Letizia, subito dopo inopinatamente richiamato a
Palermo (pur essendo nota alle Autorità la notizia di un prossimo arrivo dei
garibaldini). "Era una bellissima giornata, il sole splendeva e il mare era
liscio come l'olio (...) due vapori a ruota [il Piemonte e il Lombardo], che
erano stati visti incrociare al largo durante gran parte della mattinata, alle
tredici mossero rapidamente verso la spiaggia e, giunti nei pressi di questa,
inalberarono i colori sardi"
(9). Lo sbarco delle "camicie rosse" era già
compiuto dal Piemonte e in parte dal Lombardo, quando arrivarono
le navi napoletane, prima la Stromboli, verso le 14 (comandata da
Guglielmo Acton, che sarà poi nominato ammiraglio, senatore e Ministro della
nuova Marina Italiana), poi la Capri (al comando di un altro
collaborazionista, Marino Caracciolo). Le navi inglesi si frapposero a quelle
garibaldine e il comandante dell'Argus comunicò all'Acton che lo avrebbe
ritenuto personalmente responsabile se qualche colpo di cannone avesse
danneggiato le proprietà britanniche di Marsala. Così fu aperto un fuoco
dimostrativo solo a sbarco effettuato, badando che i colpi non raggiungessero il
molo. Garibaldi ammise nelle sue memorie che fu decisivo il contributo dei
Britannici per la riuscita dello sbarco e che "quasi tutti a Palermo erano
convinti che l'Argus si fosse recata a Marsala con il preciso scopo di aiutare
Garibaldi, quando Winnington-Ingram [il comandante inglese dell'Argus] e i suoi
si mostrarono per le strade, furono accolti da grida "Viva
Arguse" (10). Contrariamente a quanto si
narra nelle agiografie risorgimentali, i Marsalesi accolsero i Mille con
diffidenza, tanto che il garibaldino Giuseppe Bandi scrisse: "Fummo accolti dai
marsalesi come cani in chiesa"
(11). La notizia suscitò
invece un vivo entusiasmo a Londra, dove si aprirono sottoscrizioni pubbliche in
favore dei garibaldini (la viscontessa Palmerston, moglie del Premier, aprì
quella del Morning Post). In molte città inglesi furono costituiti comitati "pro
Italia". Frotte di volontari corsero ad arruolarsi.
Negli atti del congresso massonico di Torino del settembre 1988
(12), vi è una relazione di Giulio De Vita
che parla di 3 milioni di franchi francesi versati dagli Inglesi a Garibaldi,
cioè molti milioni di Euro attuali. Capo dell'intendenza del Nizzardo, quindi
responsabile di tutti i fondi, era il poeta Ippolito Nievo, che perì
nell'esplosione del piroscafo Ercole, nella notte tra il 4 e 5 marzo 1861
mentre viaggiava da Palermo a Napoli. Con lui si inabissarono gli altri ottanta
passeggeri ed andarono persi molti documenti dei finanziamenti alla spedizione
dei Mille. Nell'occasione ci furono la misteriosa perdita di contatto con la
nave che precedeva ed il ritardo nei soccorsi. Si parlò di sabotaggio (fu
l'unico battello ad affondare tra tutti quelli che avevano solcato il Tirreno
per i ripetuti sbarchi in Sicilia), ma poi la cosa venne messa a tacere, secondo
il metodo massonico dell'epoca.
All'alba del 12 maggio 1860, i Mille iniziarono la marcia verso
l'interno, diretti a Salemi. Qui Garibaldi si autoproclamò dittatore della
Sicilia. Due schieramenti, per motivi opposti e certamente non patriottici, lo
appoggiarono nella campagna militare: il primo comprendeva i baroni,
ribattezzatisi "liberali ed unitaristi", i quali avevano come interesse a
spostare il centro del potere in una lontana capitale come Torino: in tal modo
avrebbero continuato a dettar legge sul territorio, conservando i latifondi.
Reclutarono numerosi "picciotti" che furono inquadrati in due compagnie col nome
di Cacciatori dell'Etna agli ordini di "Calibbardo" (13). Il secondo schieramento era quello dei contadini che guardavano
con fiducia e speranza il Nizzardo il quale "fece intravedere la possibilità di
un ordine nuovo in cui i contadini avrebbero avuto la terra e sarebbero stati
riconosciuti i diritti di libertà: tutti o quasi furono con lui. L'uomo dalla
camicia rossa mostrò [in questa prima fase, N.d.A.] di voler tener fede alle
promesse: con decreto dittatoriale 2 giugno 1860 n.16 si stabilì che le terre
dei demani comunali avrebbero dovuto essere divise senza sorteggio tra tutti
coloro "che si saranno battuti per la patria": per gli altri ci sarebbe stato il
sorteggio. Con un precedente decreto del 17 maggio erano stati aboliti i dazi
per il granone, i cereali, le patate ed i legumi, soppressa la tassa sul macinato" (14). L'illusione durò poco e, a Sicilia
conquistata, ci furono i fatti di Bronte, che descriveremo più avanti. Infine,
ci pensò Vittorio Emanuele II a cancellare tutti i sogni di liberazione.
A fronteggiare il Nizzardo c'era un'armata forte di ben
25mila uomini che il giornale satirico francese "Charivari", in una vignetta
intitolata "Voilà l'armée du roi de Naples in Sicile!", così raffigurava:
soldati con la testa di leone, ufficiali con la testa d'asino e generali senza
testa, i fatti dettero ragione a questa caricatura. Nel pomeriggio del giorno 15
maggio 1860, il corpo di spedizione lasciò Salemi diretto verso Calatafimi,
intanto il settantaduenne governatore della Sicilia, Paolo Ruffo di
Castelcicala, preso dal panico, telegrafò a Napoli chiedendo altre truppe ed
istruzioni sul da farsi, dopodiché ordinò al coetaneo generale Landi di portarsi
a Partinico per fronteggiare l'avanzata di Garibaldi. L'anziano ufficiale
borbonico seguiva le sue truppe rimanendo sempre in carrozza e aveva a
disposizione circa 2500 uomini, uno squadrone di cavalleria e quattro pezzi
d'artiglieria. Il giorno 14 inviò da Alcamo a Calatafimi un solo battaglione
agli ordini del maggiore Sforza, comandante dell'8 ° Cacciatori, che si scontrò
il giorno 15 con i garibaldini che erano diventati nel frattempo circa 2500. Il
terreno era in pendio con nove terrazze, i Napoletani erano sulla sommità e i
garibaldini dovevano avanzare in salita. Il combattimento, come era logico, si
stava risolvendo a favore dei Meridionali: Schiaffino, il portabandiera dei
garibaldini perse la vita e l'insegna, Menotti, il figlio del Nizzardo fu
ferito, lo stesso Garibaldi scampò alla morte per l'eroismo del volontario
Augusto Elia che fece scudo col proprio corpo ed ebbe la mascella fracassata. A
quel punto però partì dalle fila borboniche il segnale di ritirata! Il
luogotenente dei Mille, Francesco Grandi, scrisse nel suo diario "[i
garibaldini] si meravigliarono, non credendo ai loro occhi e orecchie, quando si
accorsero che il segnale di abbandonare la contesa non era lanciato dalla loro
tromba ma da quella borbonica"(15). Il generale Landi,
invece di inviare rinforzi e munizioni, aveva inopinatamente ordinato alle
truppe di abbandonare il campo. Nello scontro ci furono 32 morti e 182 feriti
tra i garibaldini e 36 morti e 150 feriti tra i meridionali. Il generale Landi,
all'alba del giorno 17, giungeva a Palermo, dopo essere stato assalito a
Partinico dalla popolazione fedele ai Borbone. Alcuni affermano che il suo
strano comportamento fu dovuto ad una fede di credito di quattordicimila ducati,
peraltro contraffatta, come prezzo del suo tradimento, altri che era solo un
incapace. È certo, però, che Cavour aveva provveduto a profondere oro a piene
mani per comprare i membri dei vertici militari e politici delle Due Sicilie in
modo da neutralizzare ogni capacità di reazione. Il tramite di questa operazione
fu il contrammiraglio sardo Carlo Pellion di Persano che "disponeva di un fondo
spese ammontante all'enorme somma di un milione di ducati, destinati alla
corruzione degli ufficiali borbonici"(16).
Il 17 maggio 1860 Cavour dichiara ufficialmente che "il
governo disapprova la spedizione del generale Garibaldi. Non appena fu informato
della partenza dei volontari, la flotta reale ha ricevuto l'ordine di inseguire
i due battelli a vapore e di opporsi a uno sbarco"; con la nota del 22 maggio al
ministro delle Due Sicilie a Torino, cav. Canòfari, affermava che: " Il
sottoscritto per ordine di Sua Maestà, non esita a dichiarare che il governo del
Re è completamente estraneo a ogni atto del generale Garibaldi, che il titolo da
lui assunto [la dittatura] è una vera usurpazione, e che il governo del Re non
può non disapprovarlo"
(17).
Garibaldi meditava di assalire Palermo ed a fornirgli preziose
informazioni sui dispositivi di difesa della capitale siciliana fu Ferdinand
Eber, accreditato come corrispondente inglese del Times a Palermo, in realtà un
rivoluzionario mercenario che aveva già prestato i suoi servigi in Ungheria
contro l'Austria. Il Nizzardo lo nominò colonnello brigadiere del suo esercito.
Il Landi e il luogotenente del re in Sicilia, Paolo Ruffo di Castelcicala,
furono rimossi e sostituiti nel comando dal generale Ferdinando Lanza, di
settantatré anni, che si rivelò del tutto inadeguato a fronteggiare la
situazione. L'ammiraglio inglese Mundy, vicecapo della Mediterranean Fleet, era
da dieci giorni a Palermo al comando del vascello ad elica Hannibal di 90
cannoni. Lanza si presentò più volte al Mundy, chiedendo una mediazione inglese
per un armistizio e per il ripristino della Costituzione del 1812 che a suo dire
avrebbe placato la rivolta. Questo atteggiamento "forniva ampia prova della sua
inadeguatezza per il posto che occupava in una crisi del genere. Un pugno di
avventurieri era alle porte della capitale, e un esercito ben equipaggiato di
25mila uomini era pronto a dar loro addosso" (18) ma
Lanza pensava all'armistizio prima ancora di combattere. "Garibaldi nella notte
tra il 26 e 27 maggio assalì Palermo. Il Lanza aveva lasciato solo 260 reclute a
protezione delle porte S.Antonino e Termini, e proprio dalla prima entrarono i
garibaldini mentre il generale teneva i suoi sedicimila uomini chiusi ed
inoperosi nei forti della città. All'alba del giorno 28 arrivarono nel porto i
rinforzi inviati da Napoli, che vennero fatti sbarcare solo il giorno successivo
rinserrandoli nel palazzo reale. Nella stessa giornata ci fu il bombardamento
della città da parte dei borbonici, effettuato sia dai forti che delle navi alla
fonda nel porto. A sera arrivarono altre truppe al comando di Von Meckel e di
Bosco. Erano ufficiali preparati e risoluti: all'alba del giorno 30 maggio 1860,
attaccarono i garibaldini, sfondarono con i cannoni Porta di Termini, eliminando
via via tutte le barricate che incontravano. Si avvicinarono al palazzo, nel
quartiere S.Anna, dove Garibaldi, rimasto a corto di munizioni, aveva il suo
quartiere generale. A quel punto arrivarono i capitani di Stato Maggiore
Bellucci e Nicoletti con l'ordine del comandante supremo Lanza di sospendere i
combattimenti: era stato firmato l'armistizio da lui sollecitato ed ottenuto
malgrado fosse al corrente della vittoriosa controffensiva dei suoi reparti. La
rabbia dei soldati fu tale che si registrarono episodi di disobbedienza"
(19). L'ammiraglio inglese Mundy, il 31
maggio 1860, facendosi da mediatore, aveva ottenuto la firma di un armistizio
favorevole al Nizzardo il quale, presente sulla nave inglese con divisa da
generale piemontese, pretese gli fosse consegnato anche il denaro del Banco
delle Due Sicilie di Palermo, oltre cinque milioni di ducati in oro e
argento: una cifra enorme, equivalente a circa 21 milioni di lire sarde,
ovvero quasi la metà delle spese per la guerra franco piemontese contro
l'Austria dell'anno precedente; era costituita in gran parte da depositi di
privati cittadini che si videro perciò privare dei loro risparmi che furono
distribuiti ai garibaldini, ai collaboratori del posto, ed agli ufficiali
borbonici che si "convertivano alla causa unitaria". Garibaldi "lasciò un pezzo
di carta con scritto per ricevute di spese di guerra e promise che il
nuovo stato avrebbe restituito tutto e rimesso i conti in ordine. Questo
foglietto restò negli archivi dell'Istituto: prima in quello contabile e poi in
quello storico. La promessa si perse fra le migliaia di assicurazioni di quel tempo" (20).
Firmata il 6 giugno la capitolazione di Palermo, il giorno 8
giugno 1860 le truppe meridionali lasciano la capitale siciliana: sono 24 mila
uomini, perfettamente equipaggiati, la cui rabbia è interpretata da un soldato
dell'8° di linea il quale, al passaggio a cavallo del Lanza, uscì dalle file e
gli disse: "Eccellè, òvii quante simme. E ce n'avimma ì accussì?", l'ineffabile
comandante gli rispose: "Va via, ubriaco!". Lo stesso ufficiale si imbarcò il 20
giugno con tutto lo Stato Maggiore alla volta di Napoli, ma per ordine di
Francesco II fu fatto fermare ad Ischia dove lo attendeva la Corte Marziale. Gli
avvenimenti successivi lo salvarono dall'inevitabile condanna. Il 7 settembre lo
ritroveremo intento ad omaggiare Garibaldi ed a dirigere l'organizzazione delle
luminarie per i festeggiamenti.
In Palermo cominciarono le vendette contro i poliziotti
borbonici, dispregiativamente soprannominati "sorci", e le loro famiglie. Il 16
giugno 1860 fu la giornata peggiore e nessuno ostacolò questi assassini, torture
e stupri. Precedentemente, il 31 maggio, anche Catania era stata attaccata dai
garibaldini ma in sette ore fu liberata dal colonnello Ruitz de Ballestreros. Il
giorno successivo il generale Clary, nuovo comandante supremo borbonico in
Sicilia, fece sgomberare senza motivo la città ritirando le truppe a Messina.
Nelle casse comunali c'erano 16.300 once d'oro, una vera fortuna che cadde in
mano degli uomini di Garibaldi. Nel frattempo cominciarono a sbarcare in Sicilia
numerose navi, in media una ogni tre giorni, provenienti da Genova e da
Livorno, cariche di armi e "volontari": erano in realtà soldati
dell'esercito regolare piemontese, ufficialmente fatti congedare o
disertare come si rileva nella circolare n. 40 del Giornale Militare del
Piemonte del 12.8.1861 (per i "volontari") e dalla Nota n.159 del 5.9.1861 (per
i "disertori") le quali prescrivevano per loro l'iscrizione a matricola della
"campagna dell'Italia meridionale 1860 in Sicilia e nel Napoletano". I
"disertori" vennero in seguito opportunamente amnistiati con decreto reale del
29.11.1860. Con questi rinforzi, ad agosto 1860, si era passati dai Mille ai
21.000 "volontari". Tutti gli sbarchi furono effettuati senza che la Marina
Borbonica effettuasse serie manovre di contrasto. Ricordiamo che "l'Armata di
Mare" meridionale era la più potente flotta da guerra del Mediterraneo,
comprendeva più di 100 unità tra cui: 2 vascelli da 84 e 86 cannoni, 18 fregate
(di cui 14 a vapore, tra cui la modernissima "Borbone" con propulsione ad elica
e artiglieria "rigata"), 2 corvette, 5 brigantini, 11 avvisi e molte altre unità
minori. [la Marina Italiana adottò da quella Borbonica le uniformi, il sistema
delle segnalazioni e delle manovre, le ordinanze e parte del gergo].
L'ammiraglio piemontese Persano, fornito da Cavour di appositi fondi di denaro
che elargiva a piene mani, in una lettera al suo primo ministro del 6 agosto 1860 (21) comunicava che: "Gli Stati Maggiori
di questa marina si possono dire tutti nostri, pochissime essendo le
eccezioni ". Il 13 giugno Garibaldi 1860 sciolse alcune squadre di volontari
siciliani che avevano iniziato a protestare, rendendosi conto di combattere per
l'annessione al Piemonte e non per l'indipendenza della Sicilia.
Su pressione dell'imperatore Napoleone III, a cui Francesco II
si era rivolto per un aiuto, nelle Due Sicilie rientrò in efficacia la
Costituzione del 1848 (mai formalmente abolita). La mossa si rivelò
controproducente. Infatti in quel momento, c'era bisogno della massima energia
per salvare lo Stato. La mattina del 25 giugno 1860 l'Atto sovrano era firmato,
con esso si indicevano i comizi elettorali per il 19 agosto e l'apertura del
parlamento il 10 settembre e si stabiliva l'immediata adozione, quale bandiera
nazionale, del tricolore con le armi dei Borbone nel campo bianco. L'Atto
conteneva la disposizione di intavolare immediate trattative con il Piemonte per
concordare l'intero assetto istituzionale italiano. Si dava inoltre vita ad un
nuovo governo presieduto dal liberale Spinelli, dei principi di Scalea. A tal
proposito il liberale Francesco De Sanctis scrisse (22):
"[...] queste concessioni precipiteranno la crisi, rilevando gli animi e dandoci
armi per render più pronta e più facile l'insurrezione. Il Governo si vuol
servire di noi per abbattere Garibaldi e la rivoluzione; e noi dobbiamo servirci
de' mezzi che ci dà per farlo cadere al più presto."; il capo riconosciuto della
casata Borbone, il duca di Chambord, aveva tentato di dissuadere Francesco
ricordandogli che "Nel momento in cui Catilina è alle porte, non c'è tempo per
le concessioni e le riforme. Il re deve montare a cavallo e condurre le sue
truppe contro il nemico"
(23). Il sovrano esitò sia
perché in quel momento non si sentiva pronto al ruolo di comandante in campo sia
perché i suoi ministri gli paventarono la possibilità di disordini
insurrezionali nella capitale lasciata sguarnita.
Questo in realtà non avvenne neanche quando Garibaldi era alle
porte della città sebbene la delegazione piemontese, con a capo il Villamarina,
approfittando della immunità diplomatica, fosse diventata il punto di
riferimento per tutti gli antiborbonici e complottasse in tal senso distribuendo
a piene mani denaro e promesse; lo scopo di Cavour era quello di togliere a
Garibaldi il controllo delle operazioni facendogli trovare una Capitale
"spontaneamente" insorta contro il Borbone. Il 3 luglio fu resa operante
un'amnistia politica. Il 5 luglio il capitano di fregata Amilcare Anguissola,
già gratificato dai Borbone con il conferimento del comando della nave
Veloce, in missione per il trasporto di 800 uomini del 1° reggimento da
Messina a Milazzo, invece di rientrare alla base, proseguì per Palermo dove
consegnò la nave all'ammiraglio piemontese Persano (che la cedette a Garibaldi).
Dei 144 uomini di equipaggio si aggregarono al Nizzardo in 41; Anguissola
divenne successivamente viceammiraglio della flotta del nuovo regno.
L'ufficialità delle forze armate duosiciliane è così descritta da uno storico
del tempo, il pugliese Michele Farnerari (24):
"Nell'armata navale un'accozzaglia di ufficiali, più bellimbusti che soldati,
dal fanciullone alfiere, di fresco uscito di collegio, al vecchio capitano
imbellettato ed armato, tu non vedevi che mozze effigie, nature incomplete di
uomini sol vaghi di splendere, la mercé di quei Principi che dovean più tardi
abbandonare e tradire (...) non dissimili le condizioni erano dell'esercito.
Traevasi l'ufficialato da Collegi aperti a privilegiati, zeppa di nobili
dissoluti (...) la striscia di sangue che dall'estrema Sicilia va segnata sin
dentro Gaeta, fu dei figliuoli del popolo. Veggosi tuttora uomini dalle braccia
o gambe monche, dagli occhi ciechi, immaturamente invecchiati, trascinarsi a
stento per le pubbliche vie in isperanza di generosi, che pagano loro
un'elemosina ". È da rilevare che mentre gli alti gradi si vendevano
all'invasore, furono pochissimi i soldati e marinai che aderirono all'appello di
Garibaldi di unirsi ai suoi, sia nella campagna di Sicilia che in quella della
parte continentale del regno. I vertici militari, invece, avevano in tasca,
oltre al denaro profuso a piene mani dai Piemontesi, la promessa di essere
inseriti nelle forze armate del costituendo nuovo regno italiano conservando il
loro grado e le pensioni, cosa avvenne per tutti i collaborazionisti fino ad
arrivare addirittura al ministro della Guerra delle Due Sicilie Giuseppe
Pianell. Alla cessazione delle ostilità "le posizioni e le richieste degli
ufficiali superiori ed inferiori furono valutate da una commissione mista
presieduta dal generale De Sauget, comandante generale della Guardia Nazionale;
dei 3600 di essi, transitarono nell'esercito italiano 2311: di questi ultimi 862
appartenevano ai servizi sedentari, altri 363 erano addetti ai servizi
religiosi, medici e veterinari, 159 erano ufficiali garibaldini già ex ufficiali
borbonici. In sostanza furono solo 927 gli ufficiali provenienti dall'armata
napoletana che andarono a rinforzare l'esercito combattente piemontese"
(24a).
Il 14 luglio l'avvocato Liborio Romano era nominato, da
Francesco II, Ministro dell'Interno e della Polizia delle Due Sicilie. Fu
contattato immediatamente da emissari del Cavour ai quali promise il suo pieno
appoggio alla causa sabauda, progettando di sollevare Napoli contro il suo Re
per costringerlo all'abdicazione ma l'impresa fallì. A quel punto ci si
accontentò di mantenere l'ordine arruolando nella guardia urbana i capi della
malavita locale (la camorra). Seguirono i fatti di Milazzo dove il combattivo
colonnello borbonico Beneventano del Bosco si apprestò a contrastare lo stesso
Garibaldi. Il comandante della piazza di Messina Clary, invece di mandargli
rinforzi lasciò inoperosi i suoi 22 mila uomini. Il 20 Luglio vi fu la cruenta
battaglia dove i Meridionali ebbero solo 120 morti contro i 780, tra morti e
feriti, dei nemici. Il mancato arrivo di rinforzi costrinse i Borbonici, che
stavano vincendo, a ritirarsi nel forte. Inutile aggiungere che se la marina
napoletana avesse protetto Milazzo dal mare sarebbe stato impossibile perdere la
cittadina. Il comandante Clary, il 24 luglio, incredibilmente dichiarò
impossibile la difesa di Messina e concordò la resa: le truppe avrebbero
lasciato la Sicilia tranne il presidio del forte. Nel suo diario così si
discolpò: "Il 21 luglio un ordine formale del ministro della Guerra Pianell mi
ingiungeva di ritirare le mie truppe in Calabria (...) attendendosi che a questo
prezzo le potenze dell'Europa consentissero a garantirci la pace nel continente
(...) sugli ordini reiterati del ministro Pianell [che poi servì con i gradi di
generale nell'esercito di Vittorio Emanuele II] io consentii di entrare in
rapporti con il signor Garibaldi (...) la Storia renderà, io spero, un conto
esatto della condotta del ministro in tutti i suoi affari disastrosi, essa dirà
come egli ha impedito che soccorressimo Milazzo, come per i suoi ordini io fui
costantemente forzato a rinunciare a tutti i piani di aggressione, per tenermi
in una ontosa e letargica aspettativa (...) io non dovevo combattere, quella era
la volontà del ministro"
(25). E arrivò il giorno del
"chiarimento" circa le promesse di Garibaldi sulla soluzione della questione
agraria in Sicilia: il Nizzardo con i suoi editti aveva promesso la terra ai
contadini siciliani ma bastarono pochi mesi e la campana d'allarme suonò a
Bronte dove il 1° agosto i contadini erano insorti contro i proprietari
terrieri, uccidendo una decina di "galantuomini". Il Nizzardo, sollecitato
dal console inglese che gli intimava di far rispettare le proprietà britanniche
lì presenti, e spinto anche dal verificarsi di rivolte simili a Linguaglossa,
Randazzo, Centuripe e Castiglione, inviò il 6 Agosto sei compagnie di soldati
piemontesi e due battaglioni di cacciatori al comando di Nino Bixio il quale,
arrivato a Bronte, uccise subito a freddo un contadino ed emise un
decreto con cui intimava la consegna delle armi, l'esautorazione
dell'amministrazione comunale e la condanna a morte dei responsabili, più una
tassa di guerra per ogni ora trascorsa fino alla "pacificazione" della
cittadina. Nei giorni successivi incriminò cinque persone, tra cui un insano di
mente, le quali dopo un processo farsa furono condannate a morte. Gli accusati,
che erano innocenti (i responsabili erano scappati prima dell'arrivo di Bixio),
furono fucilati il giorno successivo e i loro cadaveri esposti al pubblico
insepolti. Bixio ripartì con un centinaio di prigionieri presi
indiscriminatamente tra gli abitanti. In seguito fu celebrato un nuovo processo
presso la Corte di Assise di Catania che nel 1863 comminò altre 37 condanne, di
cui molte a vita. Le esecuzioni di Bronte, poi quelle di Racalbuto e di Niscemi,
tolsero quindi ogni illusione: i "galantuomini" avevano vinto su tutti i fronti
e Garibaldi si dimostrò, quindi, come dice Denis Mack Smith, "il più religioso
sostegno della proprietà". Il 4 agosto il Depretis, deputato al parlamento
sardo, Commissario di Cavour in Sicilia e Prodittatore dell'isola
per Garibaldi, pubblicò un bando con il quale lo Statuto del regno di Sardegna
fu esteso alla Sicilia: l'annessione dell'Isola era così compiuta. Già il
25 giugno il cinico Cavour aveva commentato: "Gli aranci [la Sicilia] sono già
in tavola, ma i maccheroni [Napoli] non sono ancora cotti!" [traduzione da una
sua lettera scritta, al solito, in francese e spedita a Costantino Nigra]
Il 6 agosto 1860 Garibaldi cominciò a prepararsi allo sbarco
nella Calabria, facendo approntare 200 barcacce dietro Capo di Milazzo. Il
generale napoletano Mendelez avvertì il ministro della guerra Pianell che non
prese alcun provvedimento. Le fregate Fulminante ed Ettore Fieramosca che
pattugliavano la costa "non videro" gli sbarchi che cominciavano a verificarsi
alla spicciolata. Il comportamento del capitano del Fieramosca, Guillamat,
indignò profondamente l'equipaggio che lo chiuse nella stiva insieme ad altri
ufficiali, dirigendo poi la nave verso Napoli, dove però gli ufficiali
"collaborazionisti" furono liberati e i fedeli marinai rinchiusi nel Castel S.
Elmo come insubordinati. La sera del 18 agosto Garibaldi e Bixio su due
piroscafi (Franklin e Torino) giunsero alla spiaggia di Rombolo, presso Melito
di Porto Salvo a sud est di Reggio. Dopo lo sbarco arrivarono le navi borboniche
Fulminante e l'Aquila comandate dal Capitano Salazar che incrociò la nave
Franklin (battente bandiera americana) la quale stava rientrando a Messina:
ritenendola vuota, la lasciò passare. In realtà a bordo c'era Garibaldi il quale
nelle sue Memorie rende omaggio alla Marina Borbonica, grazie alla cui "tacita
collaborazione" la marcia verso Napoli non fu ostacolata; lo sbarco in Calabria
"non si sarebbe potuto fare con una marina completamente ostile". Del resto già
il 1° luglio il comandante in capo della flotta, Luigi Borbone, fratello del
defunto Ferdinando II, aveva indirizzato al ministro della Marina Francesco
Saverio Garofalo una lettera nella quale usava espressioni molto ambigue come
quelle secondo cui l'Armata di Mare si sarebbe battuta "fino allo spargimento
dell'ultimo sangue" per difendere i princìpi "italiani e nazionali" e col suo
comportamento "contribuisca alla gloria ed al lustro di una marina vera italiana"
(26). In Calabria c'erano ben 17 mila
soldati ma si ripeterono altri stupefacenti esempi di comportamento degli
ufficiali superiori borbonici alcuni dei quali si arresero senza sparare un
colpo. La truppa, esasperata dal tradimento e dall'incapacità dei capi, fece
giustizia sommaria di uno di loro, il Generale Briganti, il cui corpo,
crivellato di colpi, fu fatto a pezzi. Alla fine, a Soveria Mannelli nel
catanzarese, il generale Ghio, arrendendosi senza combattere, sebbene fosse al
comando di ben 10 mila uomini perfettamente equipaggiati, fece sì che le
province meridionali rimanessero senza difesa fino a Salerno (lo ritroveremo
come comandante della piazza di Napoli su nomina di Garibaldi). Il 13 agosto era
stato espulso dal Regno Luigi Borbone, conte d'Aquila, zio del Re e
comandante della Armata di Mare, sospettato di aver ordito una congiura per
detronizzare Francesco II. Il 20 agosto il ministro dell'Interno e della Polizia
delle Due Sicilie Liborio Romano scrive un memorandum a re Francesco invitandolo
a lasciare la Capitale con il pretesto di evitare un grave spargimento di
sangue, ben consapevole della sensibilità del Re su questo punto. Il 24 anche un
fratello di Ferdinando II, Leopoldo, conte di Siracusa, gli invia un'epistola
con l'appello a rinunciare al trono delle Due Sicilie in favore di Vittorio
Emanuele II del quale addirittura "si professava suddito [perché] solo Re degno
di regnare sull'Italia"
(27). Il 30 agosto viene
affisso in tutta Napoli un Appello alla Salvezza Pubblica, redatto probabilmente
da un prete francese realista per conto di un altro zio del Re, il conte di
Trapani, che invita il sovrano a sciogliere il governo, la polizia (considerati
entrambi dei traditori della nazione) ed a scendere sul campo in sella al suo
cavallo e con la spada sguainata. Liborio Romano immediatamente informa il re
della "congiura" e Francesco II gli risponde ironicamente che è più bravo a
scoprire i complotti realisti che quelli delle sette segrete.
L'ardito generale Bosco, già combattente a Milazzo, esorta il
Re a tenere la linea difensiva posta tra Avellino e Salerno dove rimanevano 12
mila uomini ben equipaggiati, il piano viene approvato da Francesco II che ne
demanda l'attuazione al ministro della Guerra Pianell il quale, pur essendo
necessaria la massima tempestività vista la situazione militare, rimane
inoperoso per tre giorni e poi si dimette andandosene a Parigi. Subito dopo
tutti i ministri seguono il suo esempio e il 3 settembre il Re le accetta
invitandoli però a rimanere al loro posto per gli affari correnti in attesa di
nuove nomine.
A questo punto Francesco II si convince a mutar piano dando
ascolto agli esperti militari dello Stato Maggiore che lo invitano ad arretrare
la linea di difesa sul fiume Volturno, convinti di potersi "appoggiare" a nord
sullo Stato della Chiesa (da loro considerato sicuro ed inviolabile) e da lì
organizzare la controffensiva; in questo modo, abbandonando Napoli, si spianò la
strada a Garibaldi. Un severo giudizio sulla grandezza militare della
spedizione del Nizzardo fu espresso anche da uomini che avevano condiviso con
lui l'impresa come Maxime Du Camp che parlò (28) di
"passeggiata militare, stancante è vero, ma senza rischio alcuno" e di Agostino
Bertani che le definì "facili vittorie " causando l'ira di Garibaldi nelle sue
memorie
(29) . "Oggi va riconosciuto con Jaeger che
"(...) a Francesco II non mancavano argomenti per sostenere che il nemico
Garibaldi non era arrivato a Napoli con mezzi leali, spada contro spada, petto
contro petto, bensì soltanto grazie ad un'incredibile seri di voltafaccia, di
cambiamenti di campo, di vigliacche fughe dei capi militari, di vendita delle
proprie navi da parte di comandanti della marina, e ancora di abbandoni dei
soldati al loro destino e di inconcepibili dimostrazioni di incompetenza"(30). Il 5 settembre Francesco II emana un
proclama che annuncia al popolo il suo trasferimento a Gaeta per impedire che la
capitale possa subire vittime e danni materiali dall'avanzata nemica. Il giorno
prima era uscito in carrozza con la moglie Maria Sofia e due gentiluomini di
Corte; vicino la reggia c'era la farmacia reale del dottor Ignone, fino ad
allora devotissimo al Re, il quale aveva dato incarico ad alcuni operai di
staccare dall'insegna i gigli borbonici. I reali videro la scena "Tutto sarebbe
mutato perché nulla mutasse, con noi o senza di noi, contro di noi o contro i
Savoia che stavano per succedere a noi. Le vere dinastie erano quelle dei
farmacisti Ignone, dei don Liborio: le dinastie a due anime. Dinastie
immutabili, dinastie eterne" (31).
Da Napoli il Re portò via pochissime cose, lasciando tutti i
suoi averi personali in banca, nella Reggia rimangono perfino il guardaroba e i
gioielli della regina Maria Sofia. Nella città restarono 5 mila uomini a
presidio delle fortezze, al comando del generale Cataldo, con l'ordine di
difenderle senza però sparare per primi sul nemico (così nessun colpo fu
esploso contro Garibaldi e i suoi uomini). Il 6 pomeriggio il Re, salutati i
cortigiani venuti ad ossequiarlo assieme ai ministri e al corpo diplomatico al
completo, eccettuati i rappresentanti del Piemonte, della Francia e
dell'Inghilterra, partì con la nave a vapore Messaggero insieme a una
trentina di persone al seguito [per una sorta di nemesi storica il figlio di
Umberto II, Vittorio Emanuele di Savoia, rientrato ai nostri giorni in Italia,
lasciò la Penisola il 6 giugno 1946 dalla stessa scala d'imbarco del molo
Beverello usata da Francesco II]. Si fecero delle segnalazioni per ordinare alla
flotta, ormeggiata nel porto di Napoli, di seguire il Re ma si mosse solo la
fregata Partenope. Tutti gli altri comandanti erano passati al nemico. I marinai
non tradirono ed in tanti raggiunsero il re a Gaeta via terra. Altri si
tuffarono dalle navi lasciandole senza equipaggio e quindi non utilizzabili
tanto che successivamente l'ammiraglio piemontese Persano comunicava a Torino
che poteva contare solo su due "avvisi" [piccole navi] "nessun altro legno
essendo in pronto per seguirmi" e un altro capitano piemontese Piola Caselli
aggiungeva che "le ciurme, fuggite in gran parte, non offrono sicurtà alcuna
agli stati maggiori, che non osano partire dal porto temendo di essere portati a
Gaeta"
(32). Durante la traversata, rivolgendosi al
comandante del Messaggero, Vincenzo Criscuolo, Francesco II pronunciò una
frase profetica sul futuro del sud: "Vincenzino, i napoletani non hanno voluto
giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di avere fatto sempre il mio
dovere, ad essi rimarranno solo gli occhi per piangere".
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10.1 L'interregno di Garibaldi
Intanto il sindaco di Napoli e il comandante della Guardia
nazionale erano già a Salerno per omaggiare Garibaldi e si accorsero con stupore
che egli aveva solo pochissimi uomini al seguito. Da quella città il Nizzardo
telegrafò a Liborio Romano, che nel frattempo aveva assicurato l'ordine pubblico
nella capitale inserendo nella guardia cittadina i capi della camorra,
annunciandogli il suo arrivo ed egli così rispose: "All'invittissimo general
Garibaldi, dittatore delle Due Sicilie - Con maggiore impazienza Napoli attende
il suo arrivo per salutarla il redentore dell'Italia e deporre nelle sue mani il
potere dello stato e i propri destini. In questa aspettativa io starò saldo a
tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica. La sua voce, già da me resa
nota al popolo, è il più grande pegno del successo di tali assunti. Mi attendo
ulteriori ordini suoi e sono con illimitato rispetto, di lei, Dittatore
invittissimo - Liborio Romano". Il rappresentante inglese Elliot attese
Garibaldi che il 7 settembre entrò a Napoli, senza sparare un colpo, seduto
comodamente in treno. Le accoglienze furono festose; secondo alcuni questo
non dovrebbe far pensare ad un appoggio incondizionato per due motivi: la regia
occulta degli agenti piemontesi che da mesi si erano infiltrati a Napoli e la
coincidenza con la tradizionale grandiosa festa di Piedigrotta del giorno
successivo. Qualche altro osservatore fa invece notare che il popolo della
Capitale aveva nei secoli accolto festosamente i più disparati conquistatori e
nei tempi più recenti in successione: gli Austriaci che avevano cacciato gli
Spagnoli, i Borbone spagnoli che cacciarono gli Austriaci, Giuseppe Buonaparte e
Murat che avevano costretto alla fuga Ferdinando IV, e quest'ultimo quando
rientrò in Napoli dopo la cacciata dei Francesi. Garibaldi formò immediatamente
un suo governo dittatoriale con a capo proprio Liborio Romano. Come primo atto
cedette la poderosa flotta meridionale al Piemonte; il giorno seguente il
ministro della guerra Cosenz telegrafò le seguenti disposizioni: " Il ministro
della guerra Cosenz a tutti i comandanti le armi nelle province ed a tutti i
comandanti, o governatori delle piazze - Questo ministero di guerra manifesta
agli ufficiali di ogni grado ed ai militari dell'esercito napoletano, essere
volere del signor generale dittatore, che tutti siano conservati nelle loro
integrità, sì nei gradi, che negli averi, però si avranno le seguenti norme:
tutti i militari dell'esercito che bramano servire, si presenteranno ai
comandanti, o governatori delle piazze dei luoghi più prossimi al loro
domicilio, rilasciando ad essi debito atto di adesione all'attuale governo ed il
loro recapito. Gli ufficiali che si presenteranno con le truppe saranno
conservati nella loro posizione con gli averi di piena attività , ma quelli
che si presenteranno isolatamente, saranno segnati alla seconda classe, per
essere poscia opportunamente impiegati nella imminente composizione dell'armata.
Quegli ufficiali militari, che non si affrettino di presentarsi al servizio
della patria, resteranno di fatto esclusi e destituiti, se non faranno atto
di adesione nella maniera indicata, tra dieci giorni, a contare dalla
pubblicazione della presente disposizione - Tanto le comunico per lo esatto
adempimento di sua parte - Napoli 8 settembre 1860 - Firmato Cosenz " (33).
Il 9 settembre il generale Cataldo si affrettò a cedere i forti
della città a Garibaldi. Le truppe di Castel Nuovo, del Castel dell'Ovo e del
Carmine uscirono a passo cadenzato con le bandiere spiegate e, senza essere
disturbate, si diressero verso il Volturno per raggiungere Re Francesco che,
oramai libero dagli ufficiali che gli avevano voltato le spalle, riorganizzò
l'esercito che era ancora composto da 40 mila soldati ben equipaggiati, molti
dei quali lo avevano raggiunto dalla Calabria e dalla Puglia con mezzi di
fortuna ed erano ansiosi di vendicare i tradimenti dei loro superiori.
Chiedevano prima il fucile e poi il pane. Si rimise in piedi anche
l'organizzazione civile, pur essendo il regno in "stato di guerra", come era
stato proclamato l'11 settembre. Le elezioni furono rimandate per causa di
forza maggiore, ma la Costituzione non fu mai né abrogata né sospesa. Dal 14
settembre cominciò ad uscire il giornale ufficiale "Gazzetta di Gaeta" che fu
stampato fino agli ultimi giorni dell'assedio della città. Primo ministro e
titolare anche degli Esteri e della Guerra fu Francesco Casella, che iniziò
un'offensiva diplomatica che contestò la palese violazione del diritto
internazionale da parte del regno di Sardegna che, seppur formalmente in pace
con le Due Sicilie e con un ambasciatore presente a Napoli fino alla partenza
del Re, aveva dato l'appoggio alla azione di Garibaldi fornendo basi
logistiche e l'invio di migliaia di "volontari"; si rimarcò anche l'illegalità
degli atti promulgati a Napoli dal Nizzardo e, successivamente, dei metodi usati
nei plebisciti. Nel frattempo la situazione a Napoli era molto confusa e, dopo
le prime manifestazioni popolari di entusiasmo per l'arrivo di Garibaldi, era
subentrata nella gente una diffusa insofferenza per via della completa anarchia
e dei molti soprusi perpetrati dalle camicie rosse che erano arrivate in città
il giorno 9 settembre. Scrisse Costanza Arconati, testimone oculare degli
avvenimenti, ad un amico lombardo: "Le sciocchezze fatte da Garibaldi e le
prepotenze lasciate fare impunemente ai suoi militi passano il segno (...)
Napoli è piena di uniformi garibaldine; vanno in carrozza tutto il giorno, giù e
su per il corso a far bella mostra dei loro abiti di fantasia. Si fanno dare i
migliori alloggi dal Municipio gratis (...) insomma si rendono insopportabili
causa la loro arroganza. E pensare che è opinione generale che se duravano
ancora un poco a regnare i soli garibaldini, Francesco II era di ritorno a
Napoli (...)"
(34). Il Palazzo Reale fu
spogliato di tutto, gli oggetti più preziosi furono spediti a
Torino. L'11 settembre l'oro della Tesoreria dello Stato e anche i beni
personali del Re (considerati inviolabili persino dai governi rivoluzionari),
depositati presso il Banco di Napoli, furono requisiti: il loro enorme
valore prese il volo. Furono decretate pensioni alla famiglia di Agesilao
Milano (mancato regicida nel 1856), a camorristi, ad ufficiali piemontesi e
garibaldini; 6 milioni di ducati, con un decreto firmato il 23
ottobre, vennero spartiti tra "coloro che avevano sofferto persecuzioni dai
Borboni" (la maggior parte di essi in ottima salute). Undici anni di
stipendi arretrati furono corrisposti ai militari destituiti nel 1849 "tenendo
conto delle promozioni che nel frattempo avrebbero avuto", sessantamila ducati
andarono a Raffaele Conforti per stipendi arretrati dal 1848 al 1860 spettatigli
perché "ministro liberale in carica ancorché per poche settimane" e molti altri
denari finirono in altrettante tasche con le più disparate e a volte pittoresche
motivazioni come per Alessandro Dumas padre "perché studiasse la storia" al De
Cesare " perché studiasse l'economia" (35).
Grazie all'inflazione dei gradi militari tra le camicie rosse (il rapporto tra
ufficiali e truppa era diventato 1:4 quando la regola era 1:20) ci fu un
notevole esborso per le loro paghe, 800 comandanti non prestavano alcun servizio
perché non avevano nessun soldato agli ordini ma percepivano lo stesso il soldo.
Nei rapporti del ministro inglese a Napoli Sir Elliot, certamente non
filoborbonico, si legge: "Le condizioni del paese sono le peggiori immaginabili.
Tutti i vecchi soprusi continuano, a volte esagerati dai nuovi funzionari, i
quali gettano in carcere la gente o la fanno fustigare per il minimo sospetto,
per il più lieve indizio di cattiva condotta politica, mentre i veri crimini
rimangono affatto impuniti (...) c'è una spiccata inclinazione ad accaparrarsi
le proprietà altrui"
(36). Nel rendiconto che il
rivoluzionario La Farina manda, il 12 gennaio 1861, a Carlo Pisano si legge:
"Impieghi tripli e quadrupli di quanto richieda il pubblico servizio (...)
cumulo di quattro o cinque impieghi in una medesima persona (...) ragguardevoli
offici a minorenni....pensioni senza titolo a mogli, sorelle, cognate di
sedicenti patrioti"; lo stesso scrive all'amico Ausonio Franchi: "i ladri, gli
evasi dalle galere, i saccheggiatori e gli assassini, amnistiati da Garibaldi,
pensionati da Crispi e da Mordini, sono introdotti ne' carabinieri, negli agenti
di sicurezza, nelle guardie di finanza e fino nei ministeri"
(37). Del resto, le "prime prove" del saccheggio piemontese erano state fatte
negli altri stati preunitari precedentemente annessi; in questi ultimi, dopo
aver provocato delle insurrezioni " pilotate " che avevano provocato la fuga dei
legittimi sovrani, Cavour aveva spedito dei rapacissimi "commissari" col compito
ufficiale di ristabilire l'ordine contro "la rivoluzione" ma in realtà con lo
scopo di svuotare le casse pubbliche "per sostenere la causa italiana". Napoli,
così duramente colpita, vide cessare all'improvviso i suoi scambi commerciali:
il movimento nel porto divenne insignificante; seguirono fallimenti a catena
delle imprese, il cantiere di Castellammare fu chiuso e le maestranze
licenziate, i prezzi dei generi di prima necessità cominciarono a salire.
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10.2 La situazione militare
Sul piano militare cominciarono ad arrivare le prime
vittorie dell'esercito meridionale, di cui la principale fu, il 21 settembre, a
Caiazzo; le truppe riorganizzate avevano per la prima volta sconfitto i
garibaldesi (come venivano chiamati); a dar loro manforte si erano uniti
popolani e contadini che avevano cominciato ad insorgere contro quelli che essi
consideravano degli invasori. Sull'onda di questi successi il comandante in capo
Ritucci, uomo retto ma eccessivamente prudente, invece di sferrare l'azione
decisiva e puntare risolutamente su Napoli, fece trascorrere inutilmente
preziosissimi giorni per elaborare un piano di attacco finale, frapponendo molti
dubbi sulla riuscita dell'offensiva; alla fine ne presentò uno che prevedeva
un'azione frontale a ranghi compatti ma il Re gliene contrappose un altro
(probabilmente elaborato dal generale francese Lamoriciere) che invece divideva
l'armata meridionale in diverse colonne le quali dovevano operare una manovra di
accerchiamento a tenaglia dei garibaldini. Il Re montò finalmente a cavallo e si
batté con i suoi uomini, ma la battaglia del 1° ottobre, vicino al fiume
Volturno, non raggiunse lo scopo che i borbonici si erano prefissi, malgrado
fossero stati molto vicini alla vittoria, non mancò il valore dei soldati ma fu
decisivo il mancato coordinamento dei vari corpi di armata. Garibaldi rischiò
due volte di essere ucciso, nella prima perirono il cocchiere ed il cavallo
della sua carrozza e fu costretto a balzare a terra. A fine giornata riuscì
comunque a mantenere le posizioni che i suoi uomini avevano all'inizio del
combattimento; bilancio finale: tra i garibaldini 306 morti, 1328 feriti e 389
prigionieri e dispersi; nell'esercito meridionale 308 morti, 820 feriti e 2160
prigionieri e dispersi (dei quali la massima parte appartenevano alla brigata
Ruiz che, a battaglia terminata, si arrese senza combattere). Lo stato d'animo
dei garibaldini era di scoraggiamento e i comandanti in camicia rossa inviarono
immediatamente dei pressanti appelli a Vittorio Emanuele e a Cavour perché
mandassero truppe in loro aiuto. Per loro fortuna i contrasti tra i componenti
dello Stato Maggiore ed il Re continuavano paralizzando ogni ulteriore
iniziativa. Il sovrano, informato sulle precarie condizioni dei garibaldini,
spronava i suoi generali ad un nuovo attacco risolutivo ma le opinioni erano
diverse: alcuni facevano notare che l'esercito piemontese aveva, già da venti
giorni, invaso le Marche e l'Umbria (territori dello Stato della Chiesa 38) e paventavano un attacco alle spalle,
altri sostenevano che proprio riprendendo la Capitale si sarebbe scoraggiato
un'eventuale invasione delle Due Sicilie. A causa di queste dispute passarono
preziosissimi e decisivi giorni finchè il 12 ottobre le truppe piemontesi
varcarono il fiume Tronto che segnava il confine tra lo Stato della Chiesa e le
Due Sicilie, invadevano quindi, senza nessuna dichiarazione di
guerra, uno stato indipendente; il piano per riprendere Napoli fu
allora abbandonato. Erano intanto cominciati, in tutto il meridione
continentale, i primi focolai di una rivolta popolare, che proseguì per 10 anni
e che fu sbrigativamente etichettata con il nome di " brigantaggio". Gli Abruzzi
e il Molise erano insorti per primi contro gli unitari e Garibaldi nel tentativo
di riconquistare Isernia, inviò uno dei suoi principali luogotenenti, Francesco
Nullo, le cui truppe furono fatte letteralmente a pezzi, il 17 ottobre, con
almeno 500 morti. Il 20 ottobre avvenne il primo scontro tra i piemontesi
invasori e un piccolo distaccamento dell'esercito meridionale, al passo del
Macerone, dove il comandante borbonico Douglas Scotti perse malamente la partita
omettendo di fare ricognizioni sul terreno dove marciavano le sue truppe che si
trovarono improvvisamente davanti il nemico che aveva accortamente occupato le
alture sovrastanti. Arresosi, Scotti fu spedito ai campi di prigionia del Nord,
scampando per miracolo al linciaggio nella città di Sulmona.
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10.3 I
Plebisciti
Il 9 ottobre, re Vittorio Emanuele aveva lanciato un
proclama in cui affermava: "Popoli dell’Italia meridionale! Le mie truppe
avanzano tra voi per riaffermare l’ordine, io non vengo per imporvi la mia
volontà, ma a far rispettare la vostra. Voi potrete liberamente manifestarla: la
Provvidenza che protegge le cause giuste, ispirerà il voto che deporrete
nell’urna". Il giorno 21 ottobre 1860 era stato indetto, a Napoli e in tutto il
sud continentale, il plebiscito a suffragio universale maschile, per ratificare
l’annessione al Piemonte del Regno delle Due Sicilie. La formula sulla quale
esprimersi era: "Il popolo vuole l’Italia una ed indivisibile con Vittorio
Emanuele come re costituzionale per sé e i suoi legittimi successori ". Gli
oppositori dell’idea annessionistica, come Mazzini e Cattaneo, già accorsi a
Napoli, e che erano a favore dell’elezione popolare di Assemblee autonome,
furono messi a tacere impedendo le loro riunioni, proscrivendo la loro
propaganda ed addirittura mobilitando a pagamento manifestazioni intimidatorie
di piazza; Garibaldi affermò, in una riunione del 13 ottobre, "Non voglio
assemblee, si faccia l’Italia" e con il decreto del 15 ottobre n° 275 dichiarava
che "Le Due Sicilie fanno parte integrante dell’Italia, una e indivisibile, con
il suo re costituzionale Vittorio Emanuele e i suoi discendenti ". La
consultazione popolare si svolse nella più completa assenza di segretezza: tre
urne erano in bell’evidenza nelle sezioni elettorali, due contrassegnate
rispettivamente con le scritte SÌ e NO a caratteri cubitali e un'altra al
centro; il votante doveva per prima cosa consegnare i documenti al presidente
del seggio, ritirare la scheda estraendola dall'urna del "SÌ" o da quella del
"NO", apporvi la firma leggibile, e deporla nell'urna centrale. Nei giorni
immediatamente precedenti alla consultazione erano stati affissi in molte città
dei manifesti in cui era dichiarato "nemico della patria" chi non si recasse ad
esprimere il suo voto o che votasse per il NO. Spesso all'interno dei seggi vi
erano soldati piemontesi o garibaldini armati. Non mancarono le minacce fisiche
come pure quelle di essere incarcerati qualora si manifestassero "sentimenti
antiunitari"; si fece ricorso anche a meschine astuzie: ai molti elettori
analfabeti, per lo più contadini, fu fatto credere che votare il simbolo "SÌ"
volesse dire far tornare il loro re Francesco II. I soldati piemontesi ed i
garibaldini votarono più volte uscendo e rientrando nel seggio e con loro
espressero il voto anche tutti i numerosi stranieri che ne facevano parte. Ai
40.000 soldati di Francesco II, asserragliati nell’ultima disperata difesa, non
fu certo concesso di votare. Risultati finali: 1.032.064 "SÌ" e 10.302 "NO", la
percentuale dei votanti fu del 79,5 % degli aventi diritto; il 12 ottobre si era
già svolto in Sicilia il primo plebiscito del Sud con la partecipazione al voto
del 75.2 % degli iscritti, si contarono 432.053 "SÌ" e 709 "NO" (39).
Persino l’ammiraglio inglese Mundy, amico di Garibaldi, che
tanto aveva fatto in favore del progetto sabaudo ebbe ad affermare che "Secondo
me un plebiscito a suffragio universale regolato da tali modalità non può essere
ritenuto veridica manifestazione dei reali sentimenti di un paese" (40). Il risultato dei plebisciti, fu,
invece, propagandato dagli unitaristi come la prova che il popolo approvasse la
perdita della propria indipendenza e la cacciata di un re nato a Napoli, che
parlava in napoletano e che era meridionale da quattro generazioni, in favore
dell’annessione da parte di un sovrano che pensava, parlava e scriveva in
francese. La prova della avversione meridionale al nuovo corso è però dimostrata
dai fatti, dappertutto cominciò la reazione e "Cavour, indispettito
dall’insurrezione del Sud si scagliò contro i meridionali e volle che "un
sistema di rigore e di fermezza" fosse impiegato contro "la razza volubile e
corrotta del regno di Napoli". Ora bisogna dire che la popolazione delle Due
Sicilie, resistendo ai Piemontesi, armi in pugno, come già avevano fatto due
volte in passato contro i Francesi, dava prova non di volubilità e corruzione ma
di costanza e fedeltà. "Le parole del Conte, dunque, vanno considerate
com'espressione di rabbia, di stizza, perché significherebbe fare un torto al
grande statista ritenere che egli credesse realmente all’esito dei plebisciti da
lui stesso prefabbricati"
(41). Cavour, colto e
ricchissimo, conosceva meglio Parigi, Londra e Edimburgo che il resto d’Italia
tanto che non mise mai piede a Roma, Napoli, Palermo e Venezia, una sola volta
si recò a Firenze.
Iniziò così una vera e propria guerra civile con decine di
migliaia di morti, alcuni affermano che assunse i connotati di una vera guerra
coloniale e persino l’ex ministro piemontese D’Azeglio fu costretto ad
affermare, nella lettera del 2 agosto 1861 diretta all’on.Matteucci e pubblicata
dai quotidiani "La Patria" e "Monarchia Nazionale": "A Napoli abbiamo cacciato
ugualmente il sovrano per stabilire un governo col consenso universale. Ma ci
vogliono, e pare che non bastino, sessanta battaglioni per tenere il Regno. Ma,
si diranno, e il suffragio universale? Io non so niente di suffragio, so che al
di qua del Tronto non ci vogliono sessanta battaglioni e di là sì. Si deve
dunque aver commesso qualche errore; si deve quindi o cambiar principi o cambiar
atti e trovar modo di sapere dai Napoletani, una buona volta, se ci vogliono sì
o no. Capisco che gli Italiani hanno il diritto di far la guerra a coloro che
volessero mantenere i Tedeschi in Italia, ma agli Italiani che, rimanendo
Italiani non volessero unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare
archibugiate"
(42).
Il 26 ottobre Vittorio Emanuele II si incontrava con Garibaldi,
i convenevoli furono rispettati con i vari "Evviva" ma alla fine del colloquio
l’umore del Nizzardo era molto depresso, si allontanò con i suoi uomini con i
quali consumò pane e formaggio. il Savoia aveva imposto la sua autorità tanto
che il generale Farini poteva scrivere a Cavour "Il re mi dice che Garibaldi,
pur facendo sempre i suoi sogni [la ipotizzata conquista di Roma e di Venezia],
si mostrò pronto ad ubbidire in tutto e per tutto" (43).
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10.4 Il
sigillo inglese
Il giorno successivo, l’onnipotente Inghilterra, per mano
del suo ministro degli esteri Russel , dà l’"imprimatur" all’invasione
piemontese tramite un dispaccio indirizzato ufficialmente a sir James Hudson,
ambasciatore inglese a Torino, uno dei pochi rimasti nella capitale sabauda dopo
che quasi tutti i rappresentanti diplomatici europei si erano ritirati per
protesta contro l’illegale invasione militare. In realtà esso era diretto alle
altre potenze europee e, avvallando l’azione piemontese, le diffidava
indirettamente dall’intervenire perché "il governo di Sua Maestà britannica
volgerà gli occhi piuttosto alla lusinghiera prospettiva di un popolo che
costruisce l’edificio della sua indipendenza ". Come riferisce l’Acton (44), secondo il racconto fatto dall’Hudson,
Cavour dopo aver letto il dispaccio "gridò, si fregò le mani, balzò in piedi (…)
quando sollevò gli occhi vidi che erano bagnati di lacrime"; l’ambasciatore
inglese a Napoli, Elliot, riferiva di analoghe reazioni di Vittorio Emanuele
manifestate all’ammiraglio inglese Mundy.
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10.5 Le ultime battaglie, la fine delle Due
Sicilie
Il 31 ottobre, nel corso di un consiglio di guerra, il
generale Salzano, chiamato otto giorni prima a sostituire Ritucci a capo
dell’esercito meridionale, propose al Re di impartire l’ordine, alle truppe
residue, di rifugiarsi sulle montagne ed iniziare una guerra partigiana a fianco
delle popolazioni civili che già erano insorte contro l’invasore. Francesco II
respinse l’idea perché era ancora illuso che le grandi potenze sarebbero prima o
poi venute in soccorso e quindi il suo piano era di ritirarsi a Gaeta e
resistere il più a lungo possibile per dar tempo alla diplomazia di riprendere
in mano la situazione. Il 2 novembre, dopo cinque giorni di assedio capitolava
Capua con il suo presidio di 11 mila uomini e 290 cannoni. Il 4 ci fu la
sconfitta sul Garigliano: alle truppe napoletane, inizialmente vittoriose grazie
al tiro preciso dell’artiglieria guidata dal generale Matteo Negri che lasciò la
vita sul campo, venne infatti a mancare l'appoggio dalla flotta francese che
aveva promesso di proteggerne il fianco dal mare; cominciò allora il
cannoneggiamento da parte delle navi piemontesi cui si erano unite quelle
dell’ex flotta napoletana passate al nemico. Nell’occasione, nei pressi del
ponte "Real Ferdinando", circa 300 soldati dal 6° battaglione "Cacciatori", al
comandante del capitano Domenico Bozzelli, resistettero fino alla morte
dell'ultimo tamburino. Il loro sacrificio servì a rallentare l'avanzata
dell'esercito piemontese ed a consentire il ripiegamento delle truppe, in parte
verso la fortezza di Gaeta, in parte verso il confine con lo Stato pontificio,
passato il quale dovettero deporre le armi. Il 7 novembre 1860,
esattamente dopo due mesi dall’ingresso solitario di Garibaldi a Napoli, la
scena si ripeteva ma stavolta al suo fianco, nella carrozza, c’era il re sabaudo
con le truppe piemontesi che facevano ala al corteo sotto una pioggia
scrosciante. "L’accoglienza a Vittorio Emanuele è stata tutt’altro che
entusiastica, benché l’intera città aspettasse con ansia il suo arrivo" (45). Il giorno prima Il nuovo re aveva
disertato la solenne cerimonia della rivista delle truppe garibaldine a Caserta.
L’8 novembre prese possesso del Palazzo reale di Napoli dove gli stuccatori si
erano dati da fare per sostituire il giglio dei Borbone con la croce dei Savoia;
"i 780 gigli di argento dorato che decoravano la sala del trono erano già stati
rimossi da funzionari di casa Savoia e fusi il 14 settembre; le 20 libbre
d’argento ricavate erano state vendute" (46).
Garibaldi fu "liquidato" insieme alla maggior parte delle leggi, disposizioni e
nomine che aveva fatto durante il suo governo e partì per Caprera il 9 novembre.
Interessante la lettera che nell’occasione Vittorio Emanuele II scrisse al
Cavour (in francese come il solito): "Come avrete visto, ho liquidato
rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene, siatene certo,
questo personaggio non è affatto docile, né così onesto come si dipinge e come
voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova
l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio
l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a
lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha
piombato questo infelice paese (parere personale N.d.R.) in una situazione
spaventosa ". Luogotenente del re per i territori delle Due Sicilie fu
nominato il generale piemontese Luigi Farini. Era una specie di viceré assistito
da un Consiglio di Luogotenenza che aveva funzioni simili a quelle di un
Consiglio di ministri; questi istituti facevano pensare ad una sorta di
decentramento ma fallirono miseramente nella loro opera per essere poi aboliti
il 9 ottobre 1861: il centralismo sabaudo aveva definitivamente vinto. Vittorio
Emanuele si trattenne a Napoli fino al 26 dicembre, ebbe un comportamento da
conquistatore, si dedicò a lunghe partite di caccia nelle riserve già
appartenute ai re spodestati e snobbò alcune cerimonie organizzate in suo onore.
"Durante il soggiorno che Sua Maestà ha fatto a Napoli, è diventato estremamente
impopolare, anzi contro i Piemontesi in generale prevale un forte senso di
antipatia, causata senza dubbio dal modo altezzoso in cui trattano i Napoletani"
(47); dopo la sua partenza nella lettera di
Ruggero Borghi spedita a Cavour da Napoli [n.3298, datata 20 marzo 1861] si
legge: "Il 14 fu la festa del Re [Vittorio Emanuele], non lumi, non
feste, non un evviva; (…) proclamazione del Regno d’Italia, silenzio di morte…" (48). L’immeritato soprannome di "re
galantuomo" fu inteso dal popolo come "re dei galantuomini" cioè il
protettore degli usurpatori dei demani pubblici contro gli interessi dei
contadini; quando rientrò a Torino dovette attraversare gli Abruzzi a briglia
sciolta, come un fuggiasco, perché nel territorio di Chieti, dove egli
transitava, era scoppiata un’insurrezione col rovesciamento in sei comuni fedeli
al governo sabaudo.
Francesco II, con gli ultimi 20mila uomini
(49), fu stretto d’assedio a Gaeta, dal 13
novembre 1860 al 13 febbraio 1861, dal generale Cialdini (per la storiografia
ufficiale il quinto "Padre della Patria", per altri un criminale di guerra); l’8
dicembre emanò un proclama nel quale affermava:
"Da questa piazza ove difende, più che la corona,
l’indipendenza della Patria comune, il vostro Sovrano alza la voce per
consolarvi delle vostre miserie e per promettervi tempi più felici (…) quando
veggo i miei amatissimi sudditi in preda a tutti i mali della dominazione
straniera… il mio cuore napoletano bolle d’indignazione nel mio petto…Io sono
napoletano, nato tra voi, non ho respirato un’altra aria, non ho visto altri
paesi, non conosco altro suolo che il suolo natale. Tutte le mie affezioni sono
nel Regno; i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua è la mia
lingua, le vostre ambizioni sono le mie ambizioni (…) II mondo intero l’ha
visto; per non versare sangue, ho preferito rischiar la mia corona. I traditori,
pagati dal nemico straniero, sedevano nel mio consiglio, a fianco dei miei
fedeli servitori; nella sincerità del mio cuore, non potevo credere al
tradimento…In mezzo a continue cospirazioni, non ho fatto versare una sola
goccia di sangue, e si è accusata la mia condotta di debolezza. Se l’amore più
tenero per i sudditi, se la confidenza naturale della gioventù nella onestà
altrui; se l’orrore istintivo del sangue meritano tal nome, sì, io certo sono
stato debole (…). Ho preferito abbandonare Napoli, la mia cara capitale, senza
essere cacciato da voi, per non esporla agli orrori d’un bombardamento, come
quelli che hanno avuto luogo più tardi a Capua e ad Ancona. Ho creduto in buona
fede che il re del Piemonte, che si diceva mio fratello e mio amico, che si
protestava disapprovare l’invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo
un’alleanza intima per i veri interessi dell’Italia, non avrebbe rotto tutti i
trattati e violate tutte le leggi per invadere tutti i miei stati in piena pace,
senza motivi né dichiarazioni di guerra. (…) Avevo dato un armistizio, avevo
aperto la porta a tutti gli esiliati, avevo accordato ai miei popoli una
costituzione e non ho certo mancato alle mie promesse (…) Vedete la situazione
che presenta il paese. Le finanze non guari sì fiorenti, sono completamente
minate, l’amministrazione è un caos, la sicurezza individuale non esiste. Le
prigioni son piene di sospetti, in luogo della libertà, lo stato d’assedio regna
nelle provincie e un generale straniero pubblica la legge marziale decretando le
fucilazioni istantanee per tutti quelli dei miei sudditi che non s’inchinano
innanzi alla bandiera di Sardegna. L’assassinio è ricompensato, il regicida
ottiene una apoteosi, il rispetto al culto santo dei nostri padri è chiamato
fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori del loro paese ricevono
pensioni che paga il pacifico suddito. L’anarchia è dovunque. Gli avventurieri
stranieri han messo la mano su tutto per soddisfare l’avidità o le passioni dei
loro compagni (…) in luogo delle libere istituzioni che vi avevo date e che
desideravo sviluppare, avete avuto la dittatura più sfrenata e la legge marziale
sostituisce ora la costituzione (…) le Due Sicilie sono state dichiarate
provincie d’un regno lontano. Napoli e Palermo saranno governate da prefetti
venuti da Torino".
La storia di questo assedio impressionò vivamente l’opinione
pubblica europea soprattutto per il comportamento eroico della regina Maria
Sofia, di soli 19 anni, la quale, incurante delle bombe, rischiò la sua vita per
soccorrere notte e giorno i soldati feriti o moribondi; fu così che ella
conquistò l’attenzione e la simpatia di cronisti e letterati di tutta Europa: di
lei scrissero Daudet, Proust, D’Annunzio che coniò l’appellativo di
"aquiletta bavara"; i giornali di mezzo mondo le dedicavano articoli e
poesie, la sua immagine in mezzo ai cannoni era riprodotta dappertutto;
temutissima per questa fama dagli "unitari", si cercò persino di diffamarla, nel
1863, facendo ricorso a squallidi fotomontaggi pornografici ma gli esecutori del
raggiro furono ben presto smascherati. "76 giorni di fuoco, sì spesso, ostinato
e micidiale che anche nei propri letti venivano uccisi i malati e i feriti" (50), in media venivano sparate contro la
piazzaforte 500 colpi di cannone al giorno. La piazzaforte borbonica aveva solo
cannoni a canna liscia, mentre i Piemontesi avevano in dotazione cannoni
francesi, a canna rigata che assicurava una lunga gittata superiore. Falliti i
tentativi di acquistarne; si decise allora, con ingegnosità tutta meridionale,
di fabbricarli in casa utilizzando strumenti di fortuna; sotto la direzione del
colonnello d’artiglieria Afàn de Rivera (da non confondere con l'omonimo
generale della battaglia del Volturno), una macchina per fabbricare viti fu
adattata alla rigatura delle canne: con un lavoro d’infinita pazienza, furono
alla fine preparati quattro cannoni da quattro pollici e un obice da otto,
l'impresa era talmente eccezionale, considerati i mezzi a disposizione, che i
Piemontesi credettero che i borbonici avessero ottenuto cannoni rigati, sbarcati
dalle navi francesi e spagnole. Il 19 gennaio si allontanò la flotta francese
presente nel porto di Gaeta la quale garantiva la possibilità
dell’approvvigionamento alimentare della piazzaforte; cominciò così il blocco
navale che isolò completamente la città dal mondo. Il 22 gennaio 1861 la marina
piemontese tentò un assalto via mare che fallì miseramente tra gli sberleffi dei
soldati napoletani. Il 5 febbraio un colpo piemontese centrò in pieno un
deposito munizioni che conteneva sette tonnellate di polvere e 40.000 cartucce,
si aprì un cratere di oltre quaranta metri, morirono 316 militari più di cento
civili; mentre si estraevano dalle macerie i feriti e i morti, il
cannoneggiamento piemontese s’intensificò proprio sulla zona dell’esplosione;
solo il giorno dopo fu concluso un armistizio di 48 ore per seppellire le
vittime ed evacuare i feriti. Francesco II si rivolse più volte ai regnanti
europei ribadendo l’interesse comune che fossero condannati i metodi basati
sull’inganno e la forza, nello stesso tempo respinse i loro inviti a lasciare la
fortezza; alla fine, pero’, ogni resistenza parve inutile e si comincio’ a
parlare della resa; il 13 febbraio, mentre si stavano concludendo le trattative
per la capitolazione, il volume di fuoco piemontese s’intensificò facendo
saltare in aria un altro deposito munizioni con altre decine di morti; questo
avvenne tra le urla di gioia dei plenipotenziari piemontesi e la costernazione
di quelli borbonici che erano tutti seduti attorno allo stesso tavolo; due ore
dopo il protocollo fu firmato. Alle sette di mattina del 14 febbraio 1861 il Re
e la Regina lasciarono la piazzaforte per imbarcarsi sulla nave francese
"Mouette" che li avrebbe portati a Terracina nel territorio del papa; riporta lo
storico Michele Farnerari, presente agli eventi (51):
"Uffiziali d’ogni grado, soldati d’ogni arma, feriti fasciati, alcuni avvolti in
lenzuola lacere, che lasciavano gli ospedali e pur febbricitanti si gettavano
con pianto ai loro piedi (…) i memori suoni dell’inno di Casa Borbone (52), percotean l’ultima volta,
nell’esterrefatta aria, degli accorsi gli animi convulsi. I cannoni delle
Batterie davano i lor saluti, in quel che s’imbarcavano i reali esuli; i
piemontesi, che avevano già occupato i bastioni di Porta di Terra, guardavan
dall’alto attoniti l’ultima scena; e la secolare Insegna della Monarchia su
Torre Orlando cadeva, coprendo ruine". I Piemontesi che entrarono nella
cittadina non videro che macerie ammucchiate, cannoni smontati, caserme
diroccate, il terreno era talmente devastato dalle bombe e dalle granate che era
difficile rinvenire un tratto di metro lineare che non fosse stato colpito da
qualche proiettile, i parapetti erano quasi tutti disfatti; da tutte le parti
esalava un odore nauseabondo di morte che proveniva dai cadaveri giacenti sotto
le rovine e che non era stato possibile seppellire; la guarnigione ebbe più di
800 morti (506 per ferite e 307 per un’epidemia di tifo petecchiale); oltre a
743 dispersi e circa 800 feriti fuori della piazzaforte
(53); per questa "impresa
militare" Enrico Cialdini fu insignito da Vittorio Emanuele II del titolo di
"Duca di Gaeta"; i difensori della città ebbero prima l’onore delle armi e poi
furono fatti prigionieri e spediti nelle isole pontine. I regnanti del vecchio
continente, uno dopo l’altro, abbandonarono Francesco II al suo destino,
avvallando il fatto compiuto; nonostante i tentativi di Cavour di comprarne la
resa, altre due roccaforti continuarono ad issare la bandiera gigliata: Messina
e Civitella del Tronto. La prima, presidiata da 4300 uomini, si arrese ai
cannoni di Cialdini il 13 Marzo pagando il tributo di 47 vittime; nell’occasione
furono chieste dai piemontesi, come preda di guerra, le 6 bandiere delle Due
Sicilie che sventolavano sulla cittadella, non furono accontentati perché i
soldati le avevano fatte a pezzi come ultimo gesto di fedeltà al Re, essi
avevano anche rinunciato al soldo e addirittura misero a disposizione una parte
dei loro risparmi per le necessità di guerra; gli ufficiali furono imprigionati
e poi processati "per ribellione", ne uscirono assolti.
Civitella del Tronto, ultimo baluardo, si arrese il 20 marzo
1861 "non si è mai saputo quante fossero le vittime ma è certo che i due capi
della resistenza ad oltranza (Domenico Messinelli e Zopito da Bonaventura)
furono fucilati due ore dopo la presa della fortezza, un altro, il frate
Leonardo Zilli fu catturato successivamente e il 3 aprile condannato a morte e
fucilato, gli fu negata la santa Comunione; l’aiutante di artiglieria
Santomarino fu condannato a 24 anni di prigione, fu trasferito nelle carceri di
Savona e qui trucidato; intanto nei resti della fortezza, per giorni, le
fucilazioni si susseguirono sinché non rimase più in vita nessuno degli ultimi
difensori" (54). Il venticinquenne Francesco II andò
in esilio a Roma, ospite di Pio IX, alloggiò prima al Quirinale e poi dal
novembre 1862 a Palazzo Farnese (allora di proprietà dei Borbone); il 21 aprile
del 1870 lasciò la Citta’ Eterna mentre ancora c’erano episodi di "brigantaggio"
nel suo ex regno, si trasferì a Parigi dove condusse una vita molto ritirata;
morì di diabete nel 1894, all’età di 58 anni, ad Arco di Trento dove si era
recato per le cure termali, solo allora i trentini seppero che il cortese signor
Fabiani era il deposto re meridionale; gli furono tributate esequie solenni e
tuttora esiste in quella località una via a lui intitolata; Maria Sofia gli
sopravvisse fino al 1925, le spoglie del Re, quelle della moglie e dell’unica
figlioletta furono traslate il 10 aprile 1984 dalla chiesa di S. Spirito dei
Napoletani di Roma alla Chiesa di S. Chiara a Napoli, il Pantheon dei Borbone. I
Savoia non permisero mai il ritorno dei Borbone dall’esilio cosa che invece fece
la Repubblica Italiana dopo il riconoscimento della stessa da parte dei
discendenti della casata meridionale.
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Note al capitolo 10:
1. Riportato da Angela Pellicciari, "L'altro Risorgimento ",
Piemme 2000 torna
al testo
2. North British Review , 16 febbraio 1856,
riportata da Adolfo Colombo, "L'Inghilterra nel Risorgimento italiano", 1917
torna al
testo
3. E. Artom, "Lord Palmerston nella sua vigilia
politica", riportato da U. Pontone in "Due Sicilie", luglio 2001
torna al
testo
4. Trevelyan, op. cit: "dava continui balli al
primo piano del suo splendido palazzo di via Toledo, perché le feste servivano
da copertura per le riunioni che si tenevano al piano superiore, e gli
uomini in abito da sera che sgattaiolavano su per le scale tra un allegro valzer
e una controdanza, davano una mano a preparare bombe per la prossima
rivoluzione". torna al testo
5. Harold Acton, "Gli ultimi Borboni di Napoli",
Giunti,1997 torna al testo
6. Cavour al marchese D'Aste (capo della
spedizione) in " La liberazione del Mezzogiorno" Appendice, riportato da
Martucci in " L'invenzione dell'Italia unita ", Sansoni, 1999, pag.151
torna al
testo
7. Roberto Martucci, "L'invenzione dell'Italia
unita", Sansoni, 1999 torna al testo
8-9. I particolari degli avvenimenti sono tratti
dal diario del comandante inglese dell'Argus, Winnington-Ingram, riportati da
Raleigh Trevelyan, "Principi sotto il vulcano", BUR, 2001
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10. Trevelyan, op.cit., pag.164
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11. "I Mille da Genova a Capua", Milano,
Rizzoli, 1960 torna al testo
12. "La liberazione d'Italia ad opera della
Massoneria" edizioni Bastogi-Livorno torna al
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13. "Garibaldi" in dialetto torna al
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14. Mario Pacelli, "Cattivi esempi",
Sellerio, 2001 torna al testo
15. citato da Lorenzo Del Boca, "Indietro
Savoia", Piemme, 2003 torna al testo
16. riportata da Roberto Martucci,
"L'invenzione dell'Italia unita", Sansoni , 1999, pag. 191 torna al
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17. riportata da O' Clery, "La Rivoluzione
italiana ", Ares, 2000 torna al testo
18. dal diario dell'ammiraglio inglese, citato
da Treveylan, op.cit., pag.169 torna al testo
19. le informazioni esposte in questo capitolo
sono tratte da U. Pontone, "Due Sicilie", gennaio 2001. torna al
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20. Lorenzo Del Boca, "Maledetti Savoia",
Piemme, 2001 torna al testo
21. carteggi di Cavour, La Liberazione del
Mezzogiorno, n.553, vol 2° torna al testo
22. lettera ad Angelo Camillo De Meis del 1°
luglio 1860, tratta dall'Epistolario, Torino, 1965, p.207 torna al
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23. da " La regina del sud" op. cit.
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24. (1820-1906) [ " Della Monarchia di Napoli e
delle sue fortune", Controcorrente 2000] torna al
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24a. tratto da Fulvio Izzo, "I lager dei
Savoia", Controcorrente , 1999, pag. 59 torna al
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25. Mario Monari, Lo sconosciuto eroismo dei
soldati napoletani e siciliani a Messina, Grafiche Scuderi , Messina 1992
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26. "Due Sicilie" gennaio 2001 a cura di
Umberto Pontone torna al testo
27. carteggio Persano-Cavour, n.553
riportato da Umberto Pontone su "Due Sicilie", novembre 2000 torna al
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28. "Da Palermo al Volturno, memorie di un
garibaldino", Cappelli, 1974 torna al testo
29. Memorie, Einaudi, 1975 torna al
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30. Paolo Mieli, articolo citato
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31. episodio, realmente accaduto, narrato da
Leonardo Sciascia nella serie radiofonica RAI "Interviste Impossibili"
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32. citazioni tratte da Pier Giusto Jaeger
"Francesco II di Borbone", Mondadori, 1982 torna al
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33. Giovanni Delli Franci, Cronica della
campagna d'autunno del 1860, A.Trani editore, Napoli, 1870, pag. 297
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34. Camera Fabietti, " L'età contemporanea",
Zanichelli, 1972 torna al testo
35. Angelo Manna, " I briganti furono loro
", Sun Books, 1997, modif. torna al testo
36. Acton " Gli ultimi Borboni di Napoli",
Giunti,1997 torna
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37. riportate da A. Pellicciari, " L'altro
Risorgimento", 2000 torna al testo
38. Cavour aveva chiesto il "permesso" a
Napoleone III inviandogli il 28 agosto i generali Farini e Cialdini; ad essi
l'Imperatore avrebbe risposto: "Fate, se lo credete, ma fate presto"
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39. In queste "condizioni ambientali" si
erano svolti e si svolgeranno i plebisciti negli altri stati italiani annessi al
regno sabaudo (11 e 12 marzo in Emilia, Toscana, Modena, Reggio, Parma e
Piacenza, il 4 e 5 novembre nelle Marche e nell’Umbria); commenta Denis Mack
Smith nell’articolo citato de"La Stampa": "Consultando gli archivi di piccoli
comuni, dalla Sicilia alla Toscana, ho scoperto cose curiose sui plebisciti per
l’annessione all’Italia. In alcuni luoghi la percentuale dei " SÌ " era del 120
% ". Il 21 e 22 ottobre 1866 si svolse quello per l’annessione del Veneto: i
votanti furono 646.789, di cui solo 70 contrari all’annessione, un’adesione
quindi del 99.99% che non è stata raggiunta nemmeno sotto le più feroci
dittature; il 2 ottobre 1870 fu la volta di Roma, su 135.291 votanti solo 1507
furono contrari all’annessione. torna al testo
40. Francesco Maria Agnoli, " L’epoca delle
Rivoluzioni", Il Cerchio iniziative editoriali , 1999, pag. 47 torna al
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41. Michele Topa, " I briganti di sua maestà
", Tribuna Illustrata, 1967 torna al testo
42. F.M.Agnoli, op. cit. torna al
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43. Cavour, "La liberazione del Mezzogiorno
e la formazione del Regno d’Italia, Bologna 1949,vol. III, pag.207 torna al
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44. op. cit. torna al
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45. rapporto dell’ambasciatore Elliot a
Russel, ministro degli esteri inglese, riportato da Denis Mack Smith, Vittorio
Emanuele II, Laterza, 1972 torna al testo
46. Roberto Maria Selvaggi , "Album di
famiglia" da "I Borbone" viaggio nella memoria, Ass. Cult. Campania 2000
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47. dispaccio del console inglese Bonham al
ministro degli Esteri, riportato da Denis Mack Smith, Cavour e
Garibaldi,Einaudi, 1972 torna al testo
48. dal Carteggio di Cavour, La Liberazione
del Mezzogiorno, vol. IV pag. 398, Zanichelli; segnalata da Umberto Pontone
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49. Ridottisi a 11 mila alla fine
dell’assedio a causa di numerosi imbarchi che furono fatti per alleggerire il
peso logistico della guarnigione. torna al testo
50. Teodoro Salzillo, "L’assedio di Gaeta",
Controcorrente torna al testo
51. op.cit. torna al
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52. Inno Nazionale delle Due Sicilie di
Giovanni Paisiello torna al testo
53. Antonio Pagano, Nazione Napoletana anno
III n.11 torna al
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54. Francesco Maurizio Di Giovine, in "Due
Sicilie", marzo 2001, modif. torna al testo
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