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I Il Sud e l'unità d'Italia |
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Parte
Quarta
11.
Le conseguenze dell'annessione
Prigionieri
di guerra
Il
"Regno rappezzato", la " piemontesizzazione " e la fallimentare politica
sabauda
La
questione agraria: Il Demanio e gli Usi Civici
Il
Sistema bancario ed il Bilancio iniziale del neo stato italiano
La
Politica Fiscale unitaria
La
Spesa Pubblica
Trasporti
Spese amministrative
L'attacco
dello Stato all'industria meridionale
Il ruolo dei parlamentari meridionali a Torino
12. La Resistenza
nelle Due Sicilie
I briganti
e i "reazionari"
La
Repressione
L’emigrazione,
la diaspora meridionale
Vai alla Parte Prima
(Piano completo dell'Opera)
Vai alla Parte Seconda
Vai alla Parte Terza
Vai al Brigantaggio
Parte Quarta
11. Le conseguenze dell'annessione
Prigionieri
di guerra
Erano in tutto circa 40.000 uomini di cui una parte riuscì
a sottrarsi alla sorveglianza e fece ritorno alle proprie case, in osservanza
dell'ordine di scioglimento impartito dal Re prima della partenza per l'esilio,
non pochi di questi andarono ad ingrossare le file della guerriglia antiunitaria,
ma almeno 15.000 rimasero nelle mani del vincitore che tentò di arruolarli
nel nuovo esercito "italiano". "Tra le parecchie migliaia di prigionieri,
tramutati nell'Italia superiore, benché tentati colla fame, col freddo in
clima per essi rigidissimo e con ogni genere di privazioni, appena i tre
o quattro sopra cento si piegarono ad arruolarsi nelle milizie di un altro
Re, e quasi tutti, all'invito, non fecero altra risposta, che questa molto
laconica: Il nostro Re sta a Gaeta"
(1).
"Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra,
già trasportati in Piemonte e in Lombardia, si ebbe ricorso a un espediente
crudele e disumano che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci
di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane
e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte
di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini
nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie,
eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame
e di stento fra le ghiacciaie. E ciò perché fedeli al giuramento militare
ed al legittimo Re"
(2).
Lo storico contemporaneo Antonio Pagano ha ritrovato i registri dell'ospedale
di Fenestrelle
(3)
contenenti i nomi dei prigionieri di guerra meridionali "Le vittime dovettero
essere migliaia, anche se non vennero registrate da nessuna parte. Morti
senza onore, senza tombe, senza lapidi e ricordo. Morti di nessuno.
Terroni"
(4).
Dal diario del soldato borbonico Giuseppe Conforti nato
a Catanzaro il 14/3/1836: "Nella mia uscita fu principio la guerra del 1860,
dopo questa campagna che per aver tradimenti si sono perduto tutto e noi
altri povere soldati manggiando erba dovettimo fuggire, aggiunti alla provincia
della Basilicata sortí un prete nemico di Dio e del mondo con una porzione
di quei giudei e ci voleva condicendo che meritavamo di essere uccisi per
la federtà che avevamo portato allo notro patrone. Ci hanno portato a un
carnefice Piemontesa condicendo perché aveva tardato tanto ad abbandonare
quell'assassino di Borbone. Io li sono risposto che non poteva giammai abbandonarlo
perché aveva giurato fedeltà a lui e lui mi à ditto che dovevo tornare indietro
asservire sotto la Bandiera d'italia. Il terzo giorno sono scappato, giunto
a Girifarchio dove teneva mio fratello sacerdote vedendomi redutto a quello
misero stato e dicendo mal del mio Re io li risposi che il mio Re no aveva
colpa del nostri patimenti che sono stato le nostri soperiori traditori;
siamo fatto questioni e lo sono lasciato. Allo mio paese sono stato arrestato
e dopo 7 mesi di scurre priggione mi anno fatto partire per il piemonte.
Il 15 gennaio del 1862 ci anno portato affare il giuramento, in quello stesso
anno sono stato 3 volte all'ospidale e in pregiona a pane e accua; principio
del 1863 fuggito da sotto le armi di vittorio, il 24 sono giunto in Roma,
il giorno 30 sono andato alludienza del mio desiderato e amato dal Rè, Francesco
2 e li ò raccontato tutti i miei ragioni"
(5).
Alla prima leva "unitaria" del 1861 (di cinque anni ed
obbligatoria anche per coloro che già avevano prestato servizio nel disciolto
esercito borbonico) si presentarono solo 20000 dei 72000 uomini previsti,
seguirono dei rastrellamenti di reparti regolari dell'esercito piemontese
fin nei più piccoli paesi del Meridione; scrive Tommaso
Pedio
(6): "La mattina del primo febbraio
reparti regolari si portano nei piccoli centri abitati (...) Ragazzi, giovani,
uomini maturi si avvicinano con curiosità a questi soldati che non hanno
mai visto. Si chiedono perché mai sono venuti nel loro paese (...) vengono
rastrellati tutti i giovani dall'apparente età dai 20 ai 25 anni. Tra questi
non vi sono i figli del sindaco o degli ufficiali e dei militi della Guardia
Nazionale, né i figli dei loro amici. Nessun galantuomo, nessun
civile, soltanto poveri contadini ai quali nessuno ha mai detto perché
sono venuti quei soldati. Non si limitano a dichiarare e a trattenere in
arresto come disertori o renitenti alla leva i giovani rastrellati. In alcuni
casi, a Castelsaraceno, ad esempio, a Carbone e nei casali di Latronico,
fucilano sul posto e senza dar loro la possibilità di giustificare la presunta
renitenza alla leva, numerosi giovani i quali non hanno mai saputo della
chiamata alle armi della leva del 1857-1860. Chi è sfuggito al rastrellamento
si allontana dalla propria casa e ripara nelle campagne e nei boschi, non
certo per delinquere, ma sellando per sottrarsi all'arresto."
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Il "Regno
rappezzato"
(7),
la " piemontesizzazione " e la fallimentare politica sabauda
Passata la tornata dei plebisciti farsa, dopo pochi mesi,
il 27 gennaio 1861, ci fu l'elezione politica indetta per eleggere il primo
parlamento italiano ma stavolta solo pochissimi ebbero diritto al voto,
bisognerà aspettare il 1919 per avere il suffragio universale maschile.
La legge elettorale piemontese, risalente al 1848 ed estesa per regio decreto
del 10 dicembre 1860 ai territori annessi, riservava i diritti politici
ai soli uomini di 25 anni che pagassero imposte dirette di almeno 40 lire
l'anno (equivalenti ad un reddito di circa 4.000 Euro di oggi, altissimo
per l'epoca) e che sapessero leggere e scrivere. Ricordiamo che all'epoca
quasi l'80% degli italiani era analfabeta e solo nel 1877 la legge Coppino
rendeva obbligatoria l'istruzione elementare rimanendo peraltro, in gran
parte, lettera morta tanto che nel 1950 ancora il 15% degli italiani era
analfabeta. Per tali motivi nelle Due Sicilie ebbero diritto al voto 200
mila persone su circa due milioni di potenziali elettori, il 10% quindi,
dei quali meno della metà si presentarono a votare per eleggere i 144 rappresentanti.
Garibaldi ebbe a Napoli solo 39 voti! Complessivamente in tutta Italia furono
chiamati alle urne 419.846 elettori corrispondenti a meno del 9% di quelli
potenziali: nasceva così l'Italia dei Notabili portando con sé un'ambiguità
che avrebbe fortemente limitato il senso dello stato nei cittadini della
neonata nazione italiana. I liberali, tanto glorificati dall'oleografia
risorgimentale come apportatori di democrazia, avevano trionfato.
Il nuovo parlamento italiano fu inaugurato a Torino,
nel Palazzo Carignano, l'8 febbraio 1861 quando ancora la bandiera delle
Due Sicilie sventolava a Gaeta, Messina e Civitella del Tronto. Per molti
parlamentari quella fu la prima volta che uscivano dai rispettivi stati
preunitari. Era composto di 443 deputati eletti in collegi uninominali e
211 senatori di nomina regia, per far parte della Camera "erano sufficienti
in media tre o quattrocento voti, ma c'erano anche coloro che, candidati
in collegi con scarsa affluenza di votanti, riuscivano a diventare deputato
del Regno con una cinquantina di voti (...) Una cosa era il numero degli
eletti ed un'altra quella della loro presenza nelle aule del Parlamento:
pochi erano quelli che si sentivano di lasciare le loro case per recarsi
a Torino (l'articolo n.50 dello Statuto proibiva la corresponsione di indennità
ai membri delle due Camere) (...) Al senato erano di solito presenti alle
sedute non più di sei o sette senatori. Non molto migliore la situazione
della Camera dei deputati (...) le sedute iniziavano tardi e duravano poco,
al massimo qualche ora (...) per deputati e senatori la redingote nera ed
il cilindro erano quasi una divisa (...) i discorsi erano di solito ampollosi,
retorici, di scarsissimo contenuto politico, generalmente venivano letti
e talvolta modificati prima di essere pubblicati nei resoconti stenografici.
Emerge chiaramente da quei resoconti la inadeguatezza della classe politica
del tempo a far fronte ai problemi di una monarchia parlamentare (...) era
un Parlamento in cui le beghe personali, gli odi e le passioni, la lotta
di una fazione contro l'altra prevalevano normalmente su ogni altra
questione"
(8).
Vittorio Emanuele II, il 17 marzo 1861, assunse il titolo
di Re d'Italia (riconosciuto dall'Inghilterra il 30 marzo, prima tra le
potenze europee) in aperta violazione del trattato di Zurigo del 10 novembre
1859, in cui all'art. 3 veniva stabilito che " il re di Sardegna non cambierà
affatto di titolo, oppure, se tiene a modificarlo, egli non prenderà che
quello di Re del reame cisalpino" (cioè dell'Italia settentrionale). Il
titolo di re d'Italia aveva un preciso intento politico: servì a sanzionare
le annessioni compiute, ad annichilire la speranze di restaurazione dei
principi deposti, ad arrogarsi la sovranità sulle Due Sicilie che venivano
cancellate dal novero degli Stati europei, ed a mettere l'ipoteca sui territori
del Papa non ancora usurpati e su quelli ancora sotto dominio
austriaco
(9).
Vittorio Emanuele non ritenne opportuno mutare la numerazione
dinastica e continuò a chiamarsi "secondo" e non "primo" perché "gli pareva,
qualora avesse assunto questo secondo titolo, commettere ingratitudine verso
i suoi gloriosi avi"; furono ritirate le proposte parlamentari che proponevano
di chiamarlo "Re degli Italiani". La prima legislatura del "nuovo" Regno
d'Italia si chiamò "ottava" perché tale era quella del regno sabaudo, Torino
rimase capitale e si declassarono quelle degli stati preunitari a sedi di
prefettura. la costituzione, le leggi, le pubbliche istituzioni e il sistema
finanziario piemontese furono imposte a tutti i nuovi sudditi [la cosiddetta
"piemontesizzazione"]. Alla fine del 1866, su 59 prefetti esistenti, ben
43 erano piemontesi ed il resto emiliani o toscani. Anche la toponomastica
di strade e piazze fu cambiata e nel Sud toccò a Venafro, il 12 febbraio
1861, la sorte d'essere la prima cittadina ad avere una "Piazza Milano",
in memoria di un battaglione mobile formato da milanesi. Seguirono poi le
centinaia di piazza Garibaldi, Mazzini, corsi Vittorio Emanuele ecc. ecc.
Nella città di Napoli si contano ben sei siti intitolati al Nizzardo (piazza,
corso, via, 1a, 2a e 3a traversa!). I Savoia ebbero quindi il Regno d'Italia,
ma lo persero ingloriosamente in appena ottanta anni, il 13 giugno 1946
alle 15 e 30 il tricolore con lo stemma sabaudo veniva ammainato dalla torre
del Quirinale e Umberto II, l'ultimo re, prese la via dell'esilio.
La fallimentare politica sabauda dei suoi predecessori
aveva partorito in successione: lo spostamento dell'asse economico al Nord
che causò l'emigrazione di milioni di meridionali, fenomeno assolutamente
sconosciuto prima dell'Unità; la barbara repressione della resistenza
antiunitaria, bollata con l'appellativo di "brigantaggio", una politica
fiscale oppressiva con le "tasse dei poveri" (come quella sul macinato),
gli stati d'assedio (più di dieci in quaranta anni), le leggi
speciali, le patetiche guerre coloniali, la prima guerra mondiale,
il fascismo, le leggi razziali, la seconda guerra; per pura mania di
grandezza (ridicola per un piccolo neonato stato) il regno d'Italia mantenne
un esercito che, in certi momenti, fu il più numeroso d'Europa, varò una
marina da guerra imponente e costruì fortificazioni dovunque, con un'irresponsabile
sottrazione di risorse che avrebbero dovuto essere impiegate per elevare
il pessimo livello di vita dei popoli italiani. Nel 1881, a ben venti anni
dall'Unità, "solo la metà dei 30 milioni di ettari di terreno a destinazione
agricola erano coltivabili e la resa non superava gli 11 quintali di grano
per ettaro, contro i 15 che si avevano in Francia e i 23 della Germania.
La miseria era tanta e le condizioni di vita spaventose (...) circa i tre
quarti della popolazione era analfabeta, la mortalità infantile era elevatissima
(...) con punte superiori al 10%, in 4.701 comuni sugli 8.258 del Regno
i contadini vivevano nelle stalle con gli animali ed in 1178 comuni
il pane ed il frumento era considerato un lusso e consumato solo nei giorni
festivi o dagli ammalati"
(10).
Le conseguenze del disastro della seconda guerra mondiale dell'accoppiata
Mussolini-Vittorio Emanuele III di Savoia fecero sì che nel 1951 (dati del
censimento ufficiale) solo l'8% delle abitazioni aveva acqua corrente e
stanza da bagno.
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La questione agraria: Il Demanio e gli Usi
Civici
(11)
Gli Usi Civici, codificati da apposite leggi,
consentivano a chiunque di usufruire delle terre demaniali per seminare,
raccogliere, pascolare gli armenti, per far legna. "L'errore di molti scrittori
di storia ed economia è nel ritenere il fenomeno del latifondo dipendente
dal feudalesimo, in realtà il latifondo è storicamente anteriore di millenni,
tant'è che Plinio il Vecchio già parla di latifundium"
(12).
Fino all'introduzione dei moderni mezzi meccanici è stato il clima delle
regioni meridionali, mite d'inverno ed asciutto d'estate, che ha favorito
la monocoltura cerealicola estensiva in rotazione col pascolo; mentre nelle
regioni settentrionali l'inverno rigido e l'estate calda e piovosa erano
l'ideale per la coltura intensiva in piccoli lotti. Il diritto napoletano
chiamò "demanio" la terra libera, non infeudata, nominalmente proprietà
del Re in quanto sovrano; terreni feudali, invece, erano quelli dati in
proprietà dai sovrani ai feudatari (i cosiddetti baroni) in base ai titoli
di infeudazione. Nelle terre infeudate i proprietari potevano esigere tutta
una serie di gabelle (fida, decime, terratici, erbaggi, ghiandaggi) che
vessavano, essendo spesso molto esose, i contadini e i pastori che vi abitavano,
riducendoli spesso ad una sorta di servi della gleba. Bisogna dire che la
estensione dei terreni demaniali era stata spesso "ristretta" dai baroni
con le cosiddette "usurpazioni", effetto delle falsificazioni dei titoli
di infeudazione. Le appropriazioni indebite (spesse vecchie di secoli) erano
state sempre contrastate, con alterne fortune, dai re susseguitisi alla
guida dello stato meridionale: si cercava di far tornare demaniali, e quindi
destinate agli usi civici, terre che erano state "trasformate" in feudali.
La grande rivoluzione che in Francia sradicò il feudalesimo, non ebbe gli
stessi effetti che raggiunse nel mezzodì di Italia, perché nel reame di
Napoli la feudalità, anche nel periodo dei suoi maggiori eccessi era rimasta,
per i motivi suddetti, ben lungi dal raggiungere l'esempio negativo dei
signorotti francesi. Durante la decennale dominazione transalpina con la
legge del 2 agosto 1806 fu abolita la feudalità, l'omaggio ai princìpi della
rivoluzione ebbe, però, forme ed effetti alquanto diversi che in Francia;
per l'articolo 15 di questa legge, infatti, le terre degli ex feudi restavano
ai possessori, le popolazioni conservavano gli usi civici e tutti i diritti
che possedevano su quelli fino a quando con altra legge non ne fosse ordinata
e regolata la divisione. Passata la parentesi francese, le regie
(commissioni borboniche), tramite "le ricognizioni in loco", recuperarono
migliaia di ettari che risultavano posseduti abusivamente dai baroni facendoli
rientrare nel demanio regio, che a sua volta li affidava ai comuni cui erano
stati sottratti. Le competenze su queste terre erano affidate ai sindaci,
ai prefetti e ai giudici locali, che però erano spesso amici (o succubi)
dei baroni, e che invece di destinarle agli usi civici, le restituivano
ai vecchi feudatari. Nonostante ciò, ci fu un complessivo progresso, che
interessò più la parte continentale del Regno, mentre in Sicilia il latifondo
rimase quasi intatto.
Ferdinando II insistette nel contrastare il "potere periferico"
dei baroni ed il 20 settembre 1836 riconfermò le leggi sul Demanio e gli
Usi Civici. Con l'arrivo dei Piemontesi la situazione dei contadini precipitò
nell'abisso della disperazione: la conquista sabauda fu infatti apertamente
favorita dai baroni che, divenuti opportunisticamente "liberali e unitaristi",
dopo l'Unità effettivamente riuscirono a mantenere le loro usurpazioni.
I piemontesi, in cambio dell'appoggio ricevuto all'invasione del Sud e alla
caduta dei Borbone, misero in vendita (spesso a basso costo) le proprietà
demaniali e, favorendo l'acquisizione di terre, boschi, pascoli e frutteti
da parte dei ricchi borghesi liberali, incrementarono il latifondo gettando
migliaia di famiglie "in mezzo alla strada", senza più alcun sostentamento
perché private dei secolari "Usi Civici". Ai contadini fu di fatto impedito
di opporsi alle usurpazioni e di rivendicare i demani, sia per la connivenza
delle amministrazioni comunali e dei prefetti, sia per la lungaggine degli
artificiosi procedimenti necessari per le rivendicazioni legali. A peggiorare
la situazione, fu la confisca dei beni demaniali della Chiesa, un terzo
delle terre del Sud, che era stata il "padrone migliore" dei contadini,
perché di regola si accontentava del giusto e il colono poteva anche riuscire
a mettere da parte dei risparmi decenti (cosa che invece raramente accadeva
nel rapporto con i baroni). Non è quindi da meravigliarsi se l'affamato
"cafone" prese il fucile e si trasformò in "brigante"! Ricordiamo che per
una vera riforma agraria nell'Italia unita si dovranno aspettare la seconda
metà del '900.
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Il Sistema
bancario ed il Bilancio iniziale del neo stato italiano
Al momento dell'Unità vennero confermati 5 istituti di
emissione: Banca Nazionale (ex Banca Nazionale Sarda), la Banca Toscana,
il Credito Toscano, il Banco di Sicilia ed il Banco
di Napoli
(13), ai quali fu riconosciuto il diritto
di battere moneta per conto dello Stato ed il compito di unificare
i bilanci dei singoli Stati italiani preunitari in un unico Bilancio Nazionale.
La situazione apparve subito molto difficile
(14):
si partì con il disavanzo del 1860 di 39 milioni di lire (saldo negativo
tra i bilanci in attivo di Lombardia, Emilia, Marche, Umbria, Regno
delle Due Sicilie, e quelli in passivo, capitanati dal Regno di Sardegna
con 91 milioni di lire e seguito dalla Toscana con più di 14). Il neonato
Regno d'Italia ereditò inoltre il debito pubblico degli stati preunitari,
che complessivamente ammontava alla astronomica cifra di 2.242 milioni
di lire, ai quali nel 1861 si aggiunsero ulteriori 111 milioni di cui
ben 63 provenienti dal solo regno di Sardegna. Il debito pro-capite del
Regno di Sardegna era stato il quadruplo di quello delle Due Sicilie
dove però era completamente garantito, tanto che i suoi certificati erano
quotati a Londra ben oltre il valore nominale. Per tale motivo il rapporto
tra interessi annui sul debito, e prodotto interno lordo (P.I.L.) era al
Sud ben inferiore al sopra citato rapporto 1:4 (16%, mentre in Piemonte
era del 74%). La disastrosa situazione portata in eredità
dal regno di Sardegna al nuovo regno d'Italia era dovuta a due cause: la
pessima bilancia commerciale ed i costi di una onerosissima politica estera.
Per quanto riguarda la prima, scrive Nicola
Zitara
(15): "Di
regola gli storici elogiano la politica economica di Cavour ma, se vogliamo
fare un paragone recente, questo è anche peggio che lodare la partitocrazia
per essere riuscita a indebitare gli italiani di due milioni di miliardi
di ex lire, eppure questo debito è più o meno pari al prodotto interno lordo
italiano di un anno, mentre il debito creato da Cavour, era percentualmente
il doppio".
Tav. 3 Disavanzo annuale (Lire) della Bilancia commerciale
degli Stati Sardi (periodo 1849 - 58)
1849: 59.674.336
1850: 38.004.150
1852: 77.179.931
1853: 93.006.244
1851: 57.947.116
1854: 90.201.902
1855: 74.983.512
1857: 101.312.821
1858: 87.555.183
Totale: 768.576.229
Per quanto riguarda la politica estera, essa impose un
gigantesco indebitamento verso le grandi potenze amiche (Inghilterra
e Francia). La sola spedizione di Crimea del 1855 causò un'esposizione che
si riuscì ad estinguere addirittura nel 1902. "Ci fu un indebitamento colossale,
coprire un debito con un altro debito, pagare una rata d'interessi facendo
ancora un debito era diventato il sistema di governo: tra il 1849 e il 1858
il Piemonte contrasse all'estero, principalmente con il banchiere James
Rothschild, debiti per 522 milioni - quattro annate di entrate fiscali.
Si sostiene che lo Stato sabaudo si piegò alla necessità della unità nazionale
e si aggiunge che è doveroso essere grati ai Savoia; di certo - di storico
- c'è solo il fatto che il Regno di Sardegna se la cavò riversando i suoi
debiti sul resto dell'Italia autoannessasi."
(16).
Inoltre, al momento dell’Unità, il Sud possedeva riserve auree pro capite
doppie rispetto al Nord; nel Regno delle Due Sicilie esistevano, inoltre,
761 stabilimenti di beneficenza e 1.131 monti frumentari, i 2/3 del totale
italiano, che, fornendo anticipazioni per le attività agricole ad interessi
quasi nulli, erano una sorta di credito agrario.
Per quanto riguarda il Tesoro del nuovo regno d’Italia
il contributo più alto lo pagò il Sud che, al momento della annessione,
partecipò per i 2 / 3 alla sua costituzione (considerando anche il successivo
apporto di Roma e Venezia). Il capitale circolante delle Due Sicilie corrispondeva
a 22 miliardi di Euro attuali ed era più del doppio di quello di
tutti gli altri stati della penisola messi insieme. Le monete erano in metallo
nobile e la differenza tra il valore intrinseco e quello nominale era
garantita in oro (la lira piemontese, invece, lo era solo in rapporto
3 a 1, cioè su tre lire circolanti, solo una era convertibile in oro).
Tav.4- Riserva aurea, in milioni di lire, degli antichi
Stati italiani al momento delle annessioni
(17)
Due Sicilie: 445,2
Lombardia: 8,1
Ducato di Modena: 0,4
Parma e Piacenza: 1,2
Roma (1870): 35,3
Romagna, Marche e Umbria: 55,3
Piemonte: 27
Toscana: 85,2
Venezia (1866): 12,7
TOTALE: 640,7
La gestione della finanza pubblica del novello Regno
d’Italia, invece di farsi carico di programmi di sviluppo del nuovo Stato,
rincorse illusori obiettivi di "pareggio del bilancio". Per ottenerlo si
imposero nuovi tributi, ci si affrettò a svendere sottocosto i beni demaniali
e quelli ecclesiastici (concentrati prevalentemente nel Sud, come si è visto
nei precedenti capitoli) con colossali profitti per gli acquirenti e cattivi
affari per lo Stato.
Per quanto riguarda l’assetto del sistema bancario, nei
primi cinque anni dall'Unità si scatenò una lotta feroce tra il Banco di
Napoli e la Banca Nazionale piemontese. Mentre al Sud proliferarono le Casse
di Deposito del Nord, un quarto di quelle che saranno costituite in Italia
in quegli anni, il Banco di Napoli doveva invece ottenere l'autorizzazione
statale per aprire filiali nel settentrione d’Italia: fu evidente che lo
scopo finale era di privilegiare gli interessi della borghesia del nord
a scapito di quella meridionale.
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La Politica
Fiscale unitaria
Nelle Due Sicilie, la tassazione complessiva raddoppiò
in soli sei anni dall’annessione (da 14 lire pro-capite del 1859,
alle 28 del 1866)
(18)
Tav.5 - Le imposizioni fiscali al Sud subito dopo
la conquista piemontese
(19)
Imposta personale
Tassa sulle successioni
Tassa sulle donazioni, mutui e doti; sull’emancipazione
ed adozione
-
Tassa sulle pensioni
-
Tassa sanitaria
-
Tassa sulle fabbriche
-
Tassa sull’industria
-
Tassa sulle società industriali
-
Tassa per pesi e misure
-
Diritto d’insinuazione
-
Diritto di esportazione sulla paglia, fieno, ed avena
-
Sul consumo delle carni, pelli, acquavite e birra
-
Tassa sulle mani morte
-
Tassa per la caccia
-
Tassa sulle vetture
Accorpando i dati complessivi sulle imposte, dividendoli
per categorie di entrate, notiamo che nel periodo 1861-1873 le imposte
dirette davano la metà delle entrate fiscali delle indirette,
che com’è noto colpiscono i consumi e quindi gravano proporzionalmente di
più sui redditi più bassi. Ma non è tutto, le imposte dirette
erano proporzionali e non progressive rispetto al reddito
individuale per cui i cittadini con poche sostanze e le classi agiate pagavano
la stessa aliquota fissa di tasse. La politica fiscale perseguita
dallo Stato unitario fu, poi, un caso di vero e proprio drenaggio di capitali
dal Sud verso il Nord, infatti, la pressione fiscale in agricoltura crebbe
nel regno d’Italia in maniera sperequata, così, mentre nelle Due Sicilie
si pagano 40 milioni d’imposta fondiaria, nel 1866 se ne pagheranno 70,
contro i 52 del Nord. La differenza è anche più evidente se si considerano
le aliquote per ettaro: nelle province di Napoli e Caserta si pagavano 9,6
lire per ettaro, contro la media nazionale di 3,33. Lo stesso avveniva per
le tasse sugli affari che incidevano per 7,04 lire pro-capite in Campania,
contro 6,70 in Piemonte e 6,87 in Lombardia
(20).
In seguito, quando si pose il problema di perequare l'imposta nelle province
(Lombardia, Napoletano) che pagavano di più [l’imposta non era sul
reddito, ma si stabiliva, secondo certi parametri, su base regionale], il
risultato fu che le tasse diminuirono in Lombardia ed aumentarono nel
Napoletano
(21). Si
calcola che l’ingiustizia fiscale sia costata al Sud 100 milioni/anno e
che quest’ultimo abbia ricevuto dall’erario nei primi 40 anni dell'Unità
meno di quanto sborsasse; anche dopo le cose non cambiarono, così, nel primo
decennio del secolo ventesimo, una provincia depressa come quella di Potenza
pagava più tasse d’Udine e la provincia di Salerno, ormai lontana dalla
floridezza dell'epoca borbonica essendo state chiuse cartiere e manifatture,
pagava più tasse della ricca Como
(22).
Non è tutto: il 18 febbraio 1861 fu abrogato il Concordato in vigore tra
le Due Sicilie e lo Stato della Chiesa. I beni ecclesiastici furono espropriati
e venduti, fruttando allo Stato unitario oltre 600 milioni
(23).
Gli acquirenti furono i borghesi liberali che se ne impossessano a prezzi
irrisori, i capitali del Sud furono così rastrellati e resi disponibili
per l’imprenditoria del nord, mentre al Sud si ebbe un incremento dei latifondi
, sottraendo ai contadini gli "Usi Civici". Indicative sono le cifre delle
espropriazioni per il mancato pagamento di tasse (da una per ogni 27mila
abitanti nel Piemonte e Lombardia, si passa ad una a 900 per Puglia e Lucania
e una a 114 in Calabria)
(24).
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La Spesa Pubblica
La spesa pubblica appare prevalentemente concentrata
al Nord tanto che "Lo Stato spendeva mediamente 50 lire per ogni cittadino
del Nord e 15 per quello del Sud"
(25).
La ripartizione della spesa tra i singoli ministeri
(26)
mostra altre sorprese: a quello della Guerra (così si chiamava il Ministero
della Difesa) andava il 19.52 % del totale mentre ai Lavori Pubblici solo
il 9.62%. Vi era poi una grossa sperequazione nella distribuzione della
spesa tra Nord e Sud; per le opere idrauliche in agricoltura,
ad esempio, che era la principale attività economica italiana, troviamo
questi dati:
Tav.6 - Distribuzione della spesa per le opere idrauliche
per l’agricoltura in Lire (1860-1898)
(27)
Lombardia: 92.165.574
Veneto: 174.066.407
Emilia: 130.980.520
Sicilia: 1.333.296
Campania: 465.533
Dalle cifre si evince l’enorme disparità di finanziamenti
tra il Nord e il Sud. L'unica spesa di un certo rilievo per il Meridione
fu l'acquedotto pugliese (peraltro realizzato dopo il 1902); la media pro-capite
per queste spese fu di lire 0,39 nel Mezzogiorno (0,37 in Sicilia) contro
la media nazionale di lire 19,71
(28). I prestiti di favore per costruire gli
edifici scolastici raggiunsero nel Sud la punta massima in Puglia di lire
5.777 per ogni 100.000 abitanti (Campania l. 641, Calabria 80); nel Nord
le punte sono lire 13.345 in Piemonte e 15.625 in Lombardia
(29);
al Nord le scuole tecniche sono distribuite in ragione di una ogni 141 mila
abitanti, al Centro una ogni 161 mila abitanti, al Sud una ogni 400 mila
abitanti,analoga la situazione delle Università
(30).
Gli appalti vennero concessi quasi esclusivamente alle ditte del Centro-Nord
e cosi pure le società dei Monopoli.
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Trasporti
Anche per i trasporti il Sud è svantaggiato: mandare
una merce via mare da Genova a Napoli costa 0,85 lire/quintale; in
senso inverso costa 1,50
(31). Le
spese per spiagge, fari e fanali ammontano per il Nord
a 278 mila lire/ km. di costa, a 83 mila al Centro, a 43 mila per il Sud
e 31 mila in Sicilia; nella stessa epoca il Parlamento respinge i progetti
di leggi speciali per i porti del Sud ed approva quelli per il Centro-Nord.
Un gran parlare si è fatto sulle spese ferroviarie che lo Stato unitario
ha fatto al Sud: l. 863 milioni per la parte continentale, 479 milioni per
la Sicilia (32).
Il tutto va però commisurato al totale di 4.076 milioni di lire spese nello
stesso periodo per l'Italia intera: il Sud ebbe meno di un terzo dello stanziamento
complessivo
(33). In
tal modo il Nord ottenne, a scapito del Sud, il progressivo miglioramento
dei collegamenti ai mercati. Il 15 Ottobre del 1860 fu promulgato dal governo
prodittatoriale di Garibaldi il decreto di concessione per la costruzione
di strade ferrate in favore della Società Adami e Lemmi di Livorno (quest’ultimo
futuro potentissimo Gran Maestro della Massoneria Italiana) assicurando
per contratto un utile netto del 7%; le precedenti convenzioni con ditte
meridionali furono annullate anche se i lavori erano a buon punto tanto
che tutte le gallerie e i ponti erano già stati costruiti; per ordine
del governo prodittatoriale i lavori furono sospesi e a nulla valsero le
rimostranze del titolare della concessione, il pugliese Emmanuele Melisurgo,
che insisteva perché il divieto fosse revocato e gli fosse permesso di far
lavorare i suoi operai
(34).
Spese
amministrative
Si deve al Nitti se la leggenda del "burocratismo" meridionale
sia stata smantellata, poiché egli ha provato, con un'analisi condotta con
puntiglio teutonico, come gli uffici dello Stato fossero prevalentemente
concentrati al Nord (scuole, magistratura, esercito, polizia, uffici amministrativi
ecc.) e tutti i codici e l'intera struttura statale erano piemontesi. Eppure
ci si continua a riferire dispregiativamente alla burocrazia borbonica come
in un'estasi d’ignoranza quasi intenzionale.
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L'attacco
dello Stato all'industria meridionale
Si sostiene che fu la concorrenza dei prodotti del Nord
ed esteri a mettere in ginocchio l'industria meridionale dopo l'Unità, tesi
tuttavia poco credibile poiché l'industria settentrionale copriva a stento
il fabbisogno del suo mercato. Perché allora l'industria meridionale scomparve,
malgrado fosse globalmente considerata ad un livello superiore a quella
del Nord? La concorrenza estera c'era sia al Nord sia al Sud, eppure il
primo sopravvisse e si sviluppò, mentre il Sud perse terreno anche nei settori
in cui, al momento dell'Unità, era alla pari o ad un livello più avanzato.
La spiegazione va dunque ricercata in quel preciso disegno politico dei
"vincitori", che prevedeva uno sviluppo accelerato del Nord, finanziato
proprio dalle risorse rastrellate al Sud. Tale progetto fu costantemente
perseguito, tanto che il triangolo Torino-Milano-Genova (più vicino ai mercati
europei) divenne ben presto il polo industriale italiano. Gli strumenti
di questa politica furono: la fiscalità, il rastrellamento di capitali e
del risparmio, la strozzatura del credito, gli investimenti pubblici preferenziali
per il Nord e la diminuzione delle commesse alle imprese del Sud. "Il dissidio
tra la Lombardia (…) e molta altra parte d’Italia ha origini in una serie
di fatti: sopra tutto il sacrificio continuo che si è fatto degli interessi
meridionali"
(35). Non
deve quindi destare meraviglia che la frattura economica Nord-Sud cominciasse
a delinearsi già dopo 20 anni d’unità, e che dopo 40 era già netta. Piuttosto
stupisce che l'economia del Sud abbia retto per decenni ad una simile politica
di sistematica rapina.
I fiori all’occhiello dell’economia meridionale come
Pietrarsa, che era la più grande industria metalmeccanica d’Italia, i cantieri
navali, gli stabilimenti siderurgici come Mongiana o Ferdinandea, l’industria
tessile e le cartiere caddero in rovina o furono immediatamente chiusi,
contemporaneamente al Nord sorsero quasi dal nulla analoghi stabilimenti
come l’Arsenale di La Spezia o colossi come l’Orlando. Pietrarsa, dopo vari
passaggi di proprietà, nel 1885 venne addirittura declassata a officina
di riparazione; nel 1900 ebbe un rapido declino fino ad essere chiusa
definitivamente il 20 dicembre 1975 (attualmente è sede di un Museo ferroviario).
Mongiana nel 1862 vide la produzione più che dimezzata, così come il numero
dei suoi dipendenti; il 25 giugno 1874, in "ottemperanza" alla Legge 23
Giugno 1873, Mongiana venne chiusa e fabbriche, officine, forni di
fusione, boschi, segherie, terreni, miniere, alloggi e caserme, tutto il
complesso diventò la "casa di campagna" di Achille Fazzari, ex garibaldino,
che l’acquistò per poco più di cinquecentomila lire. La costruzione della
ferriera di Atina (al momento dell’Unità due altoforni erano già pronti,
venne subito sospesa, mentre contemporaneamente si registrò un incremento
di analoghi complessi nell'area ligure-piemontese (l'Ansaldo, che prima
del 1860 contava soltanto 500 dipendenti, li raddoppiò in due anni). Paradigmatico,
poi, è l’esempio della marina mercantile meridionale: prima dell’Unità
era tra le più grandi del mondo, dopo il 1860 il governo di Torino preferì
stanziare anticipi di capitale e sovvenzioni per le società di navigazioni
genovesi, negandoli a quelle meridionali che furono così costrette a ridurre
e sospendere le attività. "Il trentennio dal 1860 al 1890 segnò per l’armamento
a vapore napoletano un periodo di decadenza e di stasi completa" (36).
Nel ventennio 1879-1898 le commesse alla cantieristica del Sud furono solo
il 33% del totale nel settore pubblico e circa l’11% di quello privato.
Anche il settore tessile fu danneggiato dalla
mancanza di commesse, dopo l’unità l’opificio di San Leucio venne chiuso
per cinque anni e poi dato in appalto ad un piemontese, successivamente
passò al Comune, poi in fitto ai privati e nel 1910 fu chiuso per sempre.
Per quanto riguarda la fiorente industria della carta, lo
Stato preferì acquistare il prodotto all’estero mandando sul lastrico migliaia
di operai meridionali. Ricordiamo, per inciso, che in ogni caso l’industria
italiana nei primi 90 anni postunitari rimase a livelli molto inferiori
alla media europea: il Paese rimase sostanzialmente agricolo tanto che
fino agli anni 50 del 1900 le maggiori entrate del bilancio dello Stato
erano dovute alle esportazioni di agrumi meridionali e alle rimesse degli
emigranti, anch’essi in gran parte del Sud. Ancora nel 1954 il 42,4%
della popolazione attiva italiana era occupata nell’agricoltura contro il
31.6 % dell’industria.
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Il ruolo
dei parlamentari meridionali a Torino
I deputati meridionali che giunsero a Torino, nel febbraio
1861, per l’inaugurazione del nuovo parlamento erano tutti accesi filopiemontesi
e avevano avuto una parte molto rilevante nel favorire la conquista savoiarda
prima screditando il governo meridionale e poi collaborando con l’invasione.
La maggior parte, pur di rimanere nel gruppo di potere, chiuse tutti e due
gli occhi di fronte all’annientamento economico e civile del Sud con un
atteggiamento che è perdurato fino ai giorni nostri. Ma alcuni di loro fecero
eccezione, presentando coraggiose interpellanze per difendere gli interessi
del meridione: ne selezioniamo alcune divise per argomento
(37):
1) riguardo lo stato delle finanze il deputato
pugliese Valenti così dichiarava nella seduta del 3 aprile 1861 (atto nr.52):
"Sotto i Borboni pagavamo gli stessi e forse minori pesi che paghiamo adesso.
I Borboni mantenevano un’armata di 120 mila uomini (…) ponevano fondi in
tutti i banchi all’estero, dotavano largamente la figliolanza e tuttavia
il tesoro era fiorente" e il 4 dicembre il deputato Ricciardi così si esprimeva
(atto nr.340): "Come mai questo paese le cui finanze erano così floride,
la cui rendita pubblica era salita al 118 è in così misera condizione? "
2) riguardo la sicurezza personale il deputato
siciliano Bruno così dichiarava nella seduta del 4 aprile 1861 (atto nr.53):
"La Sicilia sotto i Borboni offrì per molti anni l’edificante spettacolo
che furti non ne succedevano assolutamente e si poteva passeggiare per tutte
le strade, ed a tutte le ore senza la menoma paura di essere aggrediti né
derubati".
3) riguardo la proposta di legge abolitiva dei vincoli
feudali in Lombardia il deputato Zanardelli così dichiarava il
7 maggio (atto nr.113): "La legge napoletana su tal proposito fu fatta nel
1806, in un tempo non di rivoluzione ma di restaurazione, in un tempo in
cui i feudi venivano restaurati in Lombardia (…) e questa legge nella patria
di Vico, di Mario Pagano e di Filangeri fu chiamata, anche dal Colletta,
argomento al mondo di napoletana civiltà".
4) riguardo la connivenza con i Piemontesi dell’alta
ufficialità borbonica prima dell’invasione il deputato Ricciardi
così ebbe a dichiarare il 20 maggio 1861 (atto nr.140): "Appena reduce dall’esilio
giunsi in Napoli (…) io feci la propaganda nelle caserme a rischio di farmi
fucilare (…) gli ufficiali rispondevano: noi saremmo pronti ma i nostri
soldati sono talmente fanatizzati che ci fucilerebbero (…) Ma vi pare che
senza il lavoro segreto di questi ufficiali, senza il nostro lavoro, avrebbe
mai potuto entrare Garibaldi in Napoli, città di mezzo milione di abitanti,
con 4 castelli gremiti di truppe? Egli entrò solo in Napoli perché noi liberali,
con un buon numero di ufficiali, glie ne aprimmo le porte"
5) riguardo lo strozzamento dell’economia meridionale
e la piemontesizzazione: nella seduta del 20 novembre 1861 (atto nr.234)
il deputato di Casoria, Proto, duca di Maddaloni, propose il distacco dell’ex
Regno di Napoli dal Regno d’Italia e accusò apertamente il governo piemontese
di avere invaso e depredato il Napoletano e la Sicilia: "Intere famiglie
veggonsi accattar l'elemosina; diminuito, anzi annullato il commercio; serrati
i privati opifici. E frattanto tutto si fa venir dal Piemonte, persino le
cassette della posta, la carta per gli uffici e per le pubbliche amministrazioni.
Non vi ha faccenda nella quale un onest'uomo possa buscarsi alcun ducato
che non si chiami un piemontese a sbrigarla. Ai mercanti del Piemonte si
danno le forniture più lucrose: burocrati di Piemonte occupano tutti i pubblici
uffizi, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocrati napoletani.
Anche a fabbricar le ferrovie si mandano operai piemontesi i quali oltraggiosamente
pagansi il doppio che i napoletani. A facchini della dogana, a camerieri,
a birri vengono uomini del Piemonte. Questa è invasione non unione, non
annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra di conquista. Il governo
di Piemonte vuol trattare le provincie meridionali come il Cortez ed il
Pizarro facevano nel Perù e nel Messico, come gli inglesi nel regno del
Bengala". La presidenza della Camera invitò il deputato a ritirare la sua
mozione ed egli il giorno successivo per protesta rassegnò le dimissioni.
Il 4 dicembre il deputato Ricciardi (atto nr.340) insiste sull’argomento:
"Due sono le principali piaghe di quelle provincie (…) la piaga morale è
l’offesa profonda recata a sette milioni d’uomini (…) un paese che per otto
nove secoli è stato autonomo, ad un tratto ridotto a provincia, un paese
che vede distrutte per via di decreti le sue antiche leggi, le sue antiche
istituzioni certamente non può essere contento. Aggiungete la invasione
d’impiegati non nativi del paese i quali non sono veduti troppo di buon
occhio (…) quanto alla piaga materiale la miseria è grandissima (…) e poi,
e io ve la dico schietta, da Torino non si governa l’Italia, da Torino non
si regge Napoli: questa è la mia convinzione profonda; in questo sta la
radice di tutti i nostri mali" Il 20 dicembre il deputato San Donato (atto
nr.340): "Tutti gli impiegati che da Torino si sono mandati a Napoli non
solo sono stati promossi di soldo, ma si è loro accordata, sul tesoro napoletano,
due, tre, sino quattrocento franchi al mese di indennità, mentre ai Napoletani
traslocati in Torino nulla si è dato non solo, ma lo sono stati con gradi
e soldi inferiori a quelli che lasciavano in Napoli". Nella stessa seduta
il deputato Pisanelli: " Non vi è istituzione pubblica, collegi, università,
amministrazione, educandati ecc. ecc., a Napoli, che non sieno stati sciolti,
unicamente perché non avevano i regolamenti piemontesi. Il ministro della
Marina signor Menabrea ha invitato 43 nobili padri di famiglia a ritirare
dal collegio di marina i loro ragazzi (che essi vi tenevano da tre o quattro
anni messi al tempo dei Borboni), unicamente perché gli è piaciuto dire
che questi erano entrati nel 1858 quando a Napoli non vi erano regolamenti
piemontesi ". Il 2 febbraio 1867 il conte Ricciardi, eletto a Foggia, e
uno dei più tenaci difensori degli interessi del Sud si dimette da deputato,
così motivando: "Dopo sei anni di lotta mi persuasi che l’opera mia in Parlamento
si riduceva ormai ad un inutile sfogo (…) una opposizione divisa e acefala
(…) una maggioranza impotente al bene (…) il governo di nulla di grande
e fruttifero mostrasi iniziatore. Continuando io alla Camera mi assumerei
una responsabilità tristissima; meglio sarammi tornare all’antico ufficio
di scrittore, più umile, ma certo più utile, consolandomi alquanto dè mali
di cui sono testimone, di aver fatto ogni sforzo per evitarli ". Più tardi
un unitarista convinto come Giustino Fortunato, nella lettera a Pasquale
Villari n. 89 del 2 settembre 1899, scrive: "L’unità d’Italia (...) è stata,
purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime
condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha
perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione
di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle
province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali". Gli
fece eco Gaetano Salvemini (1900): "Se dall’unità d’Italia il Mezzogiorno
è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata (…) è caduta in
una crisi che ha tolto il pane a migliaia e migliaia di persone". Sempre
Fortunato in un’altra lettera del 1923 diretta a Benedetto Croce
scriveva
(38): "Non
disdico il mio "unitarismo". Ho modificato soltanto il mio giudizio sugli
industriali del nord. Sono dei porci più porci dei maggiori porci nostri.
E la mia visione pessimistica è completa".
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Note al capitolo 11:
1-2. La Civiltà Cattolica, serie
IV, vol. IX, pag. 304
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3. La fortezza
di Fenestrelle, nella Val Chisone, è abbarbicata ad un costone del monte
Orsiera (metri 2893), può nevicarci anche a giugno. È composta da un imponente
sistema difensivo costituito dal forte San Carlo, forte Tre Denti, forte
Elmo e forte delle Valli, collegati fra loro da una scala coperta di 3996
gradini; per la sua costruzione occorsero quasi due secoli. Come riferisce
la guida agli esterrefatti visitatori, di qui nessuno poté mai evadere:
la vita nella fortezza, anche per i più robusti, non superava i pochi mesi,
si usciva solo per essere disciolti, per motivi "igienici", in una gran
vasca di calce viva.
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4. Lorenzo del Boca " Maledetti Savoia",
ed. Piemme, 1998, pag.146
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5. Fulvio Izzo, op. cit, modif.
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6. Brigantaggio Meridionale , Capone editore, 1987
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7. definizione dello storico Gordon
Brook-Shepherd, "Il tramonto delle monarchie", Rizzoli ,1989
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8. Mario Pacelli, op. cit.
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9. Umberto Pontone in "Due Sicilie"
del marzo-aprile 2003
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10. Mario Pacelli, op. cit.
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11. La maggior parte delle informazioni
è tratta dal libro "Le leggi sugli usi e demani civici" di Lorenzo Ratto,
Roma, 1909
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12. Michele Vocino, "I primati di
Napol ", Mele
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13. aumentati a 6 dopo il 20 settembre
1870 (Banca Romana), e poi ridotti a tre nel 1893: Banca d'Italia, Banco
di Napoli e Banco di Sicilia
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14. i dati successivi sono tratti
da "l'Italia economica nel 1873, Pubblicazione Ufficiale", Roma, Barbera,
1874 (II ed.riveduta) che ripercorre tutto il cammino del bilancio dello
Stato dall'Unità in poi; riportata da Aldo Alessandro Mola in "L'economia
italiana dopo l'unità", Paravia, Torino, 1971, pagg. 12 e segg.
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15. "L'unità truffaldina", op. cit.;
nei bilanci dell'infelice unificazione nazionale, a rigor di termini la
cifra totale non va computata come passività valutaria del Piemonte unificato
ereditata dall'Italia. Infatti, essa fu pagata dai piemontesi, con la fuoruscita
d'oro e d'argento, nel corso dell'improvvido decennio cavouriano. Al passivo,
però, bisogna scrivere la stessa cifra, quale vuoto di numerario colmato
in tutto, o forse solo in parte, con il numerario apportato all'economia
sabauda dagli altri italiani.
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16. Nicola Zitara, op. cit.
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17. Francesco Saverio Nitti, Scienze
delle Finanze, Pierro, 1903, p.292
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18. Ò Clery, op. cit. (valore espresso
in lire, la valuta meridionale era il ducato equivalente a 4,25 lire, N.d.A.)
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19. G. Savarese, " Le finanze napoletane
e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860", Cardamone, 1862, p.28.
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20. Nítti F. S., Il bilancio dello
stato dal 1862 al 1896-97, Napoli 1900., p. 107. Anche per l'imposta sui
fabbricati il Sud era più gravato (Nitti, op. cit., p. 80).
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21. Carono-Donvito G., op. cit.,
p. 154. Sul modo con cui funzionava l'imposta v. Plebano A., Storia della
finanza italiana nei Primi quaranta anni dell'indipendenza, Padova, 1960,
pp. 95-96. L'imposta non era sul reddito, ma si stabiliva, secondo certi
parametri, su base regionale.
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22. Nitti F. S., op. cit., p. 141.
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23. Carano-Donvito G., op. cit.,
p. 165 sgg., dove si nota che Puglia e Basilicata hanno dato all'erario
più di Lombardia, Veneto e Liguria messi assieme
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24. Luzzatto G., L’economia italiana
dal 1861 al 1894 (Torino 1968), p. 172.
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25. Lorenzo Del Boca, op. cit.
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26. dati compresi tra il 1861 e
il 1873 ripresi da Alessendro Mola op. cit.
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27. Carano - Convito, " L’economia
italiana prima e dopo il Risorgimento", Firenze, 1928, pag. 180
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28. Nitti F. S., Il bilancio dello
stato dal 1862 al 1896-97, Napoli 1900, p. 294; i dati riguardano il periodo
1862-97.
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29-30-31-32. Nitti F. S., Il bilancio
cit., p. 268, pp. 254-5, p. 367 nota I, p. 300
torna al testo
33. Carano-Donvito G., op. cit.,
p. 179.
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34. Tommaso Pedìo, "L’economia delle
Province napoletane a metà dell’800", Capone, 1984, modif.
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35. da una lettera di Nitti del
5 luglio 1898 a Giuseppe Colombo, direttore del Politecnico di Milano in
C.G.Lacaita, Nitti e Colombo: carteggio inedito 1896-1919 in " Rivista Milanese
di Economia", n.5 ( gennaio-marzo 1983), pag.126
torna al testo
36. L.Radogna, op. cit.
torna al
testo
37. tratte dal periodico "Due Sicilie"
del marzo 2002, sono il risultato di uno studio di Sator di Ortona sugli
Atti parlamentari ufficiali
torna al testo
38. lettera n.58 del 14 giugno 1923
torna
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12. La Resistenza
nelle Due Sicilie
I briganti e i "reazionari"
"Quelli che hanno chiamato i Piemontesi e che hanno consegnato
loro il regno della Due Sicilie sono un’impercettibile minoranza. I sintomi
della reazione si trovano dovunque"
(1).
La mistificazione storica, sopravvissuta fino ad oggi, ha fatto sì che le
popolazioni meridionali (contadini, pastori da una parte; intellettuali
e notabili dall’altra), contrarie a quanto era stato loro imposto con la
forza, siano state spogliate delle loro vere motivazioni alla resistenza
e marchiate rispettivamente con gli appellativi di "briganti" e "reazionari";
si nascosero con tutti i mezzi le vere ragioni, economiche e ideali, di
quella che rimane la più lunga insurrezione dei popoli meridionali contro
quello che essi consideravano lo straniero invasore. Per quanto riguarda
i cosiddetti "briganti" essi furono soprattutto espressione della popolazione
rurale (contadini e pastori) che abitava i grossi e piccoli centri urbani
e che si sentì defraudata dal nuovo ordine sociale; scriveva Carlo Dotto
de Dauli nel 1877: "Il brigante è, nella maggior parte
dei casi, un povero agricoltore e pastore di tempra meno fiacca e servile
degli altri che si ribella alle ingiustizie e ai soprusi dei potenti e,
perduta ogni fiducia nella giustizia dello Stato, si getta alla campagna
e cimenta la vita, anelando vendicarsi della Società che lo ridusse a quell’estremo"
(2).
Infatti, appena dopo il passaggio di Garibaldi, i comitati liberali composti
dai ricchi borghesi e dai massoni, ferventi "unitaristi", s’impossessarono
delle amministrazioni comunali e delle relative casse, misero mano ai documenti
relativi alle assegnazioni degli usi civici, ne delinearono la consistenza
e li misero all’asta; fu così che il patrimonio rurale passò velocemente
nelle loro tasche; ai contadini rimasero due possibilità, come disse il
Fortunato, "o brigante o emigrante". "Negli anni ’60 del secolo scorso nel
Mezzogiorno c’era la guerra, e una guerra feroce, senza leggi internazionali
da rispettare, senza prigionieri, senza trincea e retrovia. Dei due eserciti,
quello "vero", con le divise in ordine e gli ufficiali usciti dalla scuola
militare di Torino se ne stava di presidio nei paesi, isolato come se fosse
nel cuore dell’Africa, fra gente che aveva lingua e costumi incomprensibili
e quasi sempre un figlio o un fratello fra le montagne a tenere testa agli
"invasori". Ogni tanto il presidio veniva a sapere di qualche "reazione
agraria" di qualche "ribellione borbonica" e accorreva di zona in zona,
sulle poche strade conosciute, a reprimere le rivolte, dai boschi e dalle
montagne scendeva allora ad affrontarlo l’esercito silenzioso dei briganti.
Nei paesi, infatti, si rinnovavano qua e là gli incendi dei municipi e degli
uffici del catasto ("gli eterni nemici nostri" li chiamava il brigante Crocco),
nonché i saccheggi delle case dei "galantuomini", noti come usurpatori delle
terre demaniali; si abbattevano gli stemmi sabaudi e le immagini di Vittorio
Emanuele e Garibaldi, s’issava il vessillo borbonico e si restauravano nuove
effimere amministrazioni che rendevano obbedienza all’esiliato Francesco
II, re delle Due Sicilie. I possidenti scappavano verso le zone presidiate
dall’esercito piemontese e quando i bersaglieri rioccupavano i paesi "reazionari"
rientravano con essi; tutto finiva con la restaurazione dei simboli dei
Savoia, con l’incendio dei quartieri più poveri e con la fucilazione in
piazza dei briganti presi prigionieri: uomini dai volti chiusi dalle grandi
barbe, da vestiti fatti di pelli. Così in definitiva il nuovo governo piemontese
si configurava agli occhi dei meridionali da una parte come quello dello
stato d’assedio e del terrore anticontadino e, dall’altra, come un solido
appoggio ai nuovi ricchi liberali che avevano lucrato dall’illegale acquisto
delle terre di pubblica proprietà dove i contadini, come abbiamo già visto,
avevano fino ad allora esercitato estesamente gli usi civici"
(3).
Una delle tante anime del brigantaggio era la componente religiosa, sottolinea
De Jaco (4)
che "i briganti erano religiosissimi, avevano dei cappellani nelle bande
e dei santi protettori per le bandiere (in generale i santi del loro paese
di origine), (…) si ornavano il collo e i polsi di amuleti, di madonne,
di corone, ostie consacrate, santini, la sera recitavano in comune il rosario.
L’orrore, in fondo, dominava il cuore di questi uomini; l’orrore di una
quasi certa fine, in combattimento o per tradimento, nella selva o fucilati
in piazza. Il loro effettivo coraggio era quello più difficile a conquistarsi:
il coraggio di chi non ha speranza alcuna per sé, per la propria gente,
per i paesi miserabili dai quali è fuggito nei boschi". Frati e sacerdoti
furono presenti in gran numero nelle schiere degli insorgenti, sebbene fossero
passati per le armi in caso di cattura. I vescovi, benché spesso scacciati
dalle loro sedi come avvenne all’arcivescovo di Napoli, Sisto Riario Sforza,
sostennero efficacemente l’insurrezione, promulgando pastorali di tono antiunitario
e ribadendo le proteste e le scomuniche provenienti dalla Santa Sede.
L’invasore piemontese era considerato un nemico della
religione ed il popolo ne aveva prova tangibile nelle numerose profanazioni
di luoghi sacri effettuate dai soldati piemontesi. Le classi superiori,
a loro volta, non potevano ignorare la sistematica guerra del Regno di Sardegna
al potere temporale della Chiesa iniziata nel 1848 con la cacciata dei gesuiti,
proseguita con le leggi Siccardi del 1850 che sopprimevano alcuni privilegi
ecclesiastici (il diritto di asilo che godevano i luoghi sacri, il foro
ecclesiastico che giudicava i religiosi accusati di reati comuni, la censura
ecclesiastica), inasprita con la legge per la soppressione di alcuni ordini
religiosi del 1855 (e culminata, il 7 luglio del 1866, con l’abolizione
di tutti gli ordini e la confisca dei loro beni frutto in gran parte delle
donazioni dei credenti; con la legge del 19 giugno 1873 questo provvedimento
fu esteso anche a Roma). Non meno importante fu la "resistenza non armata",
la resistenza civile, bollata come "reazionaria", che si presenta con forme
molto articolate e coinvolge tutta la società meridionale del tempo come
risulta dagli atti dei processi celebrati dalle corti civili a Napoli; ne
offrono testimonianza l’opposizione condotta a livello parlamentare, le
proteste della magistratura che vede cancellate le sue gloriose e secolari
tradizioni, la resistenza passiva dei dipendenti pubblici, il malcontento
della popolazione cittadina, l’astensione dai suffragi elettorali (già il
19 maggio del 1861, in occasione delle elezioni amministrative, votò a Napoli
meno di un terzo degli aventi diritto), il rifiuto della coscrizione obbligatoria,
la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori
pubblicisti del regno, fra cui emerge Giacinto de' Sivo. Le numerose pubblicazioni
antiunitarie avevano generalmente vita breve perché erano sottoposte a sequestro
e i loro autori a minacce fisiche o al carcere, segno evidente che la "libertà
di stampa", sancita dallo Statuto Albertino, non valeva per la stampa di
opposizione ma solo per quella di regime; i redattori di questi giornali
passavano di rivista in rivista, a mano a mano che queste chiudevano per
forza maggiore, diventando professionisti di un giornalismo militante, semiclandestino
e quasi avventuroso; questa pubblicistica di opposizione fu molto attiva
per tutti gli anni sessanta, poi la stampa autonomistica ed antiunitaria
perse gran parte del suo furore anche a causa della caduta di Roma del 1870.
Infine ricordiamo la componente
legittimista della reazione, il partito borbonico, che pur non raggiungendo
l’obiettivo fondamentale di riportare la dinastia legittima sul trono,
riuscì per anni ad aggregare quasi tutte le componenti sociali intorno a
un sentimento patriottico e nazionale; molti soldati delle milizie borboniche,
rifiutando l’arruolamento nel nuovo esercito italiano e il giuramento al
nuovo Re, si ponevano l’obiettivo di restaurare Francesco II; spesso essi
si davano alla macchia e si univano agli insorgenti anche perché respinti
dalla " società civile ", già prona ai voleri dei conquistatori piemontesi;
con loro si aggregarono addirittura ex garibaldini, delusi dalla piega che
avevano preso gli avvenimenti. Inoltre alcuni rappresentanti della nobiltà
lealista europea accorsero dal re in esilio nella difesa "per il trono e
l’altare", "per la fede e la gloria", e già durante l’assedio di Gaeta si
erano visti francesi, belgi, austriaci, sassoni e anche qualche americano;
il loro contributo fu però marginale poiché i "briganti", contadini e pastori
in massima parte , non avevano una "cultura militare" tale da accettare
le direttive di questi soldati stranieri che non riuscirono ad inquadrarli
in formazioni paramilitari né tanto meno a coordinarne le azioni sotto un
comando unico; ben noto è il contrasto tra Carmine Crocco e lo spagnolo
Borges che, anche per questo motivo, abbandonò la partita, cercò di raggiungere
Roma ma fu preso dai piemontesi a pochi chilometri dal confine e fucilato
a Tagliacozzo l’8 dicembre del 1861.
Nei primi mesi del 1861, quando le ultime piazzeforti
borboniche, Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, si arresero dopo un strenua
quanto disconosciuta resistenza, l’opposizione lealista continuava ad avere
radici ben salde nel regno; a Napoli, l’ex-capitale travagliata da una grave
crisi economica, agiva la propaganda dell’agguerrito comitato borbonico
della città che riuscì a organizzare una manifestazione pubblica a favore
della deposta dinastia. Nel mese di aprile 1861 fu sventata una cospirazione
antiunitaria ed arrestate oltre 600 persone, fra cui 466 ufficiali e soldati
dell’esercito napoletano ed il duca di Caianello, trovato in possesso di
una lettera di Francesco II. La strategia della resistenza borbonica mirava
a mostrare la fragilità del potere dell’usurpatore e a tenere desta l’attenzione
degli Stati europei nella speranza di sviluppi internazionali sulla questione
italiana che potessero determinare un intervento armato o almeno diplomatico
dell’Austria o delle altre potenze europee. Francesco II, però, non ebbe
la capacità di essere capo militare e politico, di centralizzare e dirigere
il movimento di restaurazione in modo coerente e credibile. Suo zio Francesco,
conte di Trapani, aveva fondato la cosiddetta "Associazione religiosa" che
in realtà era la "Centrale" del movimento partigiano, e di essa facevano
parte alcuni ufficiali fedeli al monarca meridionale (Ulloa, Bosco, Statella,
Clary, Vial); essi provvedevano all’acquisto di armi, alla distribuzione
di fondi per i "briganti" e all’elaborazione di piani di riconquista. Non
ci furono mai problemi di reclutamento di uomini fedeli alla causa, mancava
però il denaro perché il patrimonio personale di Francesco II era stato
saccheggiato dai garibaldini; per sostenere la loro causa i lealisti arrivarono
a coniare nuove monete meridionali recanti la data del 1859, opportunamente
annerite. Il re, spinto dall’indomabile regina Maria Sofia, fece pervenire
ai suoi rappresentanti diplomatici all’estero alcune note in cui manifestava
il proposito di mettersi alla testa dei suoi sudditi per restituire l’indipendenza
alle Due Sicilie ma il momento favorevole non venne mai ed egli sprofondò
in un cupo fatalismo anche perché le potenze europee riconobbero, una dopo
l’altra, il nuovo regno d’Italia (l’ultima fu la Spagna il 1° giugno 1865)
così egli rimase sempre più solo; dal 1866 nessun diplomatico straniero
mise più piede a palazzo Farnese, residenza del Re a Roma, eccezion fatta
per l’austriaco Hubner. Lo stesso anno, all’approssimarsi della guerra tra
il nuovo regno d’Italia e l’Austria, Francesco II diede ulteriore prova
della sua nobiltà d’animo (che peraltro, per i tempi correnti, fu un difetto
più che un pregio in relazione alla difesa dei diritti dei cittadini del
Sud); egli infatti, scontentando gli oltranzisti della sua corte, che vedevano
finalmente l’occasione tanto attesa per riprendere il regno, scoraggiò un’ulteriore
e definitiva insurrezione auspicando la concordia e la tranquillità. L’anno
successivo, nel 1867 Francesco II sciolse il governo borbonico in esilio .
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La Repressione
Scrisse Antonio Gramsci
(5)
"Lo stato italiano [leggasi sabaudo] è stato una dittatura feroce che ha
messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando,
seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di
infamare col marchio di briganti". Le forze in campo erano: l’esercito piemontese
(divenuto "italiano" dal 4 maggio 1861) che nel 1862 arrivò a schierare
nel Sud 120.000 uomini, metà della forza complessiva, e più precisamente:
52 reggimenti di fanteria; 10 reggimenti di Granatieri; 5 reggimenti di
cavalleria; 19 battaglioni di bersaglieri. I Piemontesi disponevano inoltre
di circa 8 mila carabinieri, coadiuvati da 84 mila militi della Guardia
Nazionale. A tale imponente forza di repressione si opponevano i guerriglieri
("briganti") meridionali, male equipaggiati e divisi in 488 bande (in tutto
80.000 uomini), chiamate "comitive" che contavano dai 10 ai 500 combattenti:
la mancanza di un’unità d’azione impedì, di fatto, la loro vittoria
finale (6).
A causa del loro spirito "anarcoide", i Briganti non gradirono la guida
dei militari lealisti, né mantennero il coordinamento tra le azioni. Un
esempio per tutti fu il fallimento dell’alleanza tra Pasquale Domenico Romano,
"Enrico la Morte" e Carmine Crocco per la riconquista della Puglia. Scrive
De Jaco
(7): "Già
nel novembre del 1860, pochi giorni dopo l’incontro di Teano tra re Vittorio
e Garibaldi, sui muri dei paesi intorno Avezzano era stato affisso un proclama
[tra i primi di una lunga e tragica serie] del generale piemontese Pinelli
che ordinava: "1) chiunque sarà colto con arma da fuoco, coltello, stili
od altra arma qualunque da taglio o da punta e non potrà giustificare di
essere autorizzato dalle autorità costituite sarà fucilato immediatamente
[ognuno di noi sa che tutti i contadini possiedono almeno una di queste
"armi"]; 2) chiunque verrà riconosciuto di aver con parole o con denari
o con altri mezzi eccitato i villici a insorgere sarà fucilato immediatamente;
3) eguale pena sarà applicata a coloro che con parole od atti insultassero
lo stemma dei Savoia, il ritratto del Re o la bandiera italiana. Abitanti
dell’Abruzzo Ulteriore, ascoltate chi vi parla da amico. Deponete le armi,
rientrate tranquilli nei vostri focolari, senza di che state certi che tardo
o tosto sarete distrutti" [Pinelli fu decorato dai Savoia, con medaglia
d’oro al valore, per la campagna contro il brigantaggio]. In seguito, giacché
si era sparsa per l’Europa la notizia che nel sud d’Italia stava avvenendo
un massacro, il governo inviò l’ordine di fucilare solo i capi e di mettere
in carcere in attesa di processo gli altri. Le cose non cambiarono di molto.
Narra infatti il generale Enrico Della Rocca (responsabile del massacro
di Scurgola con 117 vittime) "ma i miei comandanti di distaccamento che
avevano riconosciuta la necessità dei primi provvedimenti, in certe regioni
dove non era possibile governare se non incutendo terrore, volendosi arrivare
l’ordine di fucilare soltanto i capi telegrafavano con questa formula: "arrestati,
armi alle mani, nel luogo tale tre, quattro, cinque capi di briganti" e
io rispondevo: fucilate!". Nel luglio 1861 Enrico Cialdini, già a capo di
tutte le forze di repressione, assommò su di sé anche la carica civile di
luogotenente diventando di fatto il responsabile unico delle sorti del Mezzogiorno;
la situazione era veramente preoccupante con i guerriglieri che operavano
non solo sui monti e le pianure ma persino alle porte di Napoli e Cialdini
arrivò a promettere 25 lire di ricompensa a chi catturava un " ribelle ";
lo stesso generale, per sicurezza, spesso dormiva di notte su una fregata;
così scrisse al primo ministro Ricasoli: "Il nostro governo in queste provincie
è debolissimo (…) non ha altri partigiani sicuri che i battaglioni di cui
dispongo"
(8). Abolito
l’istituto della luogotenenza, a lui successe, nell’ottobre 1861, il generale
La Marmora che assommò su di sé la carica di prefetto di Napoli e il comando
militare della repressione del brigantaggio. Vittorio Emanuele II fu così
impressionato dalla veemenza della resistenza meridionale che nell’agosto
del 1862 decretò lo stato d’assedio. In tal modo nel Sud l’autorità militare
diveniva superiore a quella civile (La Marmora ordinò ai procuratori di
"non porre in libertà nessuno dei detenuti senza l'assenso dell'esercito").
Nel 1863 il re pensò di abbandonare le terre appena conquistate ma le motivazioni
economiche ebbero il sopravvento, con la conseguenza che la repressione
si fece sempre più dura. Fu promulgata la legge Pica (che rimase operativa
fino al 1865) la quale aboliva qualsiasi garanzia costituzionale; in virtù
di essa furono insediati otto speciali Tribunali militari, i collegi di
difesa vennero assegnati agli ufficiali e si abolirono i tre gradi di giudizio
che erano operativi nell’altra parte d’Italia. Le condanne erano inappellabili
e variavano dalla fucilazione ai lavori forzati (spesso a vita). Venne stabilito
il reato "generico" di brigantaggio in virtù del quale ogni sentenza era
legittima .
Nel Sud si assistette a migliaia di episodi di guerriglia;
la resistenza fu molto accesa nei primi cinque anni dalla unificazione forzata
e durò fino al 1872; nessun fenomeno "delinquenziale" può durare così a
lungo in presenza di oltre centomila uomini deputati alla sua repressione.
Furono distrutti dai Piemontesi 51 paesi alcuni dei quali non sono più stati
ricostruiti; simboli di tanta tragedia ricordiamo Pontelandolfo e Casalduni,
due paesi del Sannio che si erano ribellati e dove erano stati uccisi alcuni
"galantuomini" e 41 soldati italiani che erano stati mandati a reprimere
la rivolta; il 14 agosto 1861 alle quattro di mattina arrivarono 400 bersaglieri
al comando del colonnello Pier Eleonoro Negri, circondarono i paesi per
impedire ogni via di fuga e li dettero alle fiamme, cominciò allora il massacro
dei civili inermi che tentavano di scappare mentre i responsabili della
rivolta erano già al sicuro sulle montagne; solo tre case rimasero in piedi,
al suolo 900 civili uccisi; il colonnello Negri terminò la sua carriera
26 anni dopo con la Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia. Il bilancio
finale delle vittime fu drammatico, le cifre totali non sono concordi ma
si parla di decine di migliaia di "briganti" uccisi ai quali vanno
aggiunti i caduti dell’esercito italiano che furono più numerosi di tutti
i soldati persi dal regno sabaudo nelle guerre contro l’Austria. Dalle ricerche
di Alessandro Romano
(9) ricaviamo
questi dati: guerriglieri ed oppositori politici uccisi o detenuti (1861-1872):
caduti in combattimento:154.850; fucilati o morti in carcere: 111.520 ;
totale perdite: 266.370. Le perdite "italiane": caduti in combattimento:
21.120; morti per malattie o ferite: 1.073; dispersi o disertori: 820; totale
perdite: 23.013. L’efferatezza tipica di una guerra civile si palesò anche
con gesti disumani come l’esposizione in pubblica piazza dei cadaveri insepolti
dei briganti o delle loro teste mozzate e conservate in apposite teche trasparenti;
scrive sempre De Jaco
(10): "Col
terrore i generali piemontesi cercavano di spezzare la solidarietà dei "cafoni"
con i briganti. Ma il terrore non è stata mai arma sufficiente e valida
per isolare i combattenti dalla popolazione che li sostiene; così le fucilazioni
non liquidarono ma aumentarono la solidarietà popolare per le vittime. La
leggenda che faceva dei briganti tanti eroi popolari, paladini e unica speranza
dei miseri contro i prepotenti e ricchi, trovava così mille riprove e questa
fama assumeva subito due volti opposti: il volto del giustiziere implacabile,
per i pastori e le plebi, quello della belva feroce per i benestanti; erano
i ricchi, infatti, ad aver paura dei rapimenti di persona con richiesta
di relativo riscatto, dei saccheggi, dell’incendio delle messi, del taglio
delle viti, delle uccisioni, mentre gli zappatori non avevano niente da
perdere, anzi ottenevano dal brigante qualche protezione contro i mille
soprusi e i patimenti di cui era piena la loro giornata".
Riferisce Eduardo Spagnuolo
(11):
"Anche molti fiancheggiatori (i cosiddetti manutengoli) pagavano con la
vita l’appoggio ai briganti. Andò meglio a Giuseppe Cassetta, d’anni 52,
il quale, come leggiamo nella Sentenza del 9 febbraio 1865, in nome di sua
Maestà Vittorio Emanuele II, per aver dato da mangiare a una "comitiva armata",
e quindi colpevole di "complicità al brigantaggio", lo condanna a quindici
anni di lavori forzati, all’interdizione dai pubblici ufficii, (…) cadute
in confisca le palle di fucile e la zucca formanti corpo di reato ." Se
la cavò a più buon mercato un contadino, tal Domenico Ressa, che il 9 gennaio
1861 fu incriminato di "pubblico discorso da eccitare lo sprezzo e il malcontento
contro la sacra persona del Re", in realtà aveva gridato in pubblica piazza
"Viva Francesco II !"; il 21 gennaio fu condannato per questo a sette mesi
di carcere
(12). Alcune
volte le condanne assumono toni farseschi come quella di "lesa maestà" comminata
ad Augusto Iatosti "perché, secondo l'accusa, avrebbe distribuito "grane
cinque" ai contadini per farli gridare "Viva Francesco II" ed avrebbe imposto
i nomi di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II a due cani di
sua proprietà."
(13).
A quei tempi considerazioni che oggi definiremmo razziste
erano pienamente legittimate dalla cultura e anche nei rapporti ufficiali
gli abitanti del Sud erano paragonati a "incivili beduini", il Mezzogiorno
d’Italia era paragonato all’Africa e Massimo d’Azeglio scriveva che "unirsi
ai Napoletani è come andare a letto con un lebbroso", dove il termine "napoletano"
era riferito a ogni abitante della "Bassa Italia". Il criminologo Cesare
Lombroso effettuò misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di
ottenere la prova scientifica che i Meridionali avevano una predisposizione
innata per il crimine. Il governo piemontese sosteneva che il "brigantaggio"
fosse un fenomeno limitato agli Abruzzi, all'area nei pressi della frontiera
con lo Stato Pontificio e che non si trattasse di una rivolta spontanea,
ma organizzata dai borbonici negli Stati papali, con la connivenza del governo
romano, per turbare la pace del Paese e creare difficoltà al governo (solo
tra il febbraio e il marzo del 1868 fu firmata a Cassino una convenzione
tra lo Stato della Chiesa e il Regno d’Italia per l’estradizione dei briganti
rifugiatisi nello stato pontificio). Tale tesi cadde in pezzi davanti all'evidenza
delle rivolte che infiammarono tutto il Sud. Il sistema di violenze, massacri
e spargimento di sangue non fu denunciato soltanto dai borbonici, anche
fra i liberali del Parlamento di Torino vi furono uomini onesti e leali
che dichiararono pubblicamente quanto era a loro conoscenza: "Non potete
negare", affermava Giuseppe Ferrari nel dibattito del 29 aprile 1862, "che
intere famiglie sono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in
quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere.
Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le
armi in pugno è fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza
quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue,
non so più come esprimermi". Il 18 aprile 1863 il deputato Miceli, che aveva
visto i massacri perpetrati dalle truppe in Calabria, dichiarava che gli
uomini erano fucilati senza neppure uno straccio di processo, le sue dichiarazioni
furono messe in dubbio dai sostenitori del governo ma a questo punto il
generale Bixio, luogotenente di Garibaldi, e, pertanto, fiero nemico della
reazione, si alzò per confermarle, dichiarando che quanto aveva affermato
Miceli era vero e che poteva attestarlo per cognizione personale. "Un sistema
di sangue", egli esclamò, "è stato stabilito nel Mezzogiorno d'Italia. Ebbene,
non è col sangue che i mali esistenti saranno eliminati. C'è del vero in
ciò che l'onorevole Miceli ha detto: è evidente che nel Mezzogiorno non
si domanda che sangue, ma il Parlamento non può adottare gli stessi sistemi.
C'è l'Italia, là, o signori, e se vorrete che l'Italia si compia, bisogna
farla con la giustizia, e non con l'effusione del sangue". Nicotera, un
altro garibaldino, parlò nel medesimo senso dei suoi colleghi Ferrari, Miceli
e Bixio. "Il governo borbonico", egli disse, "aveva almeno il gran merito
di preservare le nostre vite e le nostre sostanze, merito che l'attuale
governo non può vantare. Le gesta alle quali assistiamo possono essere paragonate
a quelle di Tamerlano, Gengis Khan e Attila". Citiamo infine le proteste
inviate al governo italiano dall'imperatore Napoleone III, che il 21 luglio
scriveva da Vichy al generale Fleury: "Ho scritto a Torino le mie rimostranze;
i dettagli di cui veniamo a conoscenza sono tali da far ritenere che essi
alieneranno tutti gli onesti dalla causa italiana. Non solo la miseria e
l'anarchia sono al culmine, ma gli atti più colpevoli e indegni sono considerati
normali espedienti: un generale, di cui non ricordo il nome, avendo proibito
ai contadini di portare scorte di cibo quando si recano al lavoro nei campi,
ha decretato che siano fucilati tutti coloro che sono trovati in possesso
di un pezzo di pane. I Borboni non hanno mai fatto cose simili. Firmato:
Napoleone". Documenti simili sono incontrovertibili, poiché provengono dagli
stessi uomini che, per primi, hanno creato la cosiddetta unità d'Italia
".
Le carceri erano strapiene di decine di migliaia di detenuti
politici che versavano in condizioni disastrose " L'On. Ricciardi con un
suo intervento, nella tornata parlamentare del 18 e 20 aprile 1863, affronta
il problema generale sia dello stato disumano delle carceri, che del lento
corso della giustizia e dell’arbitrio delle forze di polizia e porta a conoscenza
dell'Assemblea dati di fatto incontrovertibili. Solo a Palermo imputridiscono
"seminudi e tra vermi" 1.400 prigionieri; alla Vicaria di Napoli sono stipati
ben 1.000 " I più fra questi non sono stati neppure interrogati, e giacciono
poi tutti in carceri orribili tanto quanto le carceri di Palermo. Alcuni
si trovano imprigionati da 22 mesi! Santa Maria Apparente è una villeggiatura
in confronto di tutte le altre che ho visitate [...] Il pane che si da ai
carcerati è tale che io non l'augurerei al conte Ugolino [...] La vita e
la libertà dei nostri concittadini dipende dal capriccio di un capitano,
di un luogotenente, di un sergente, di un caporale". Il perché di questo
elevatissimo numero di prigionieri è attribuito dal Ricciardi a tre cause
fondamentali: "la leggerezza veramente colpevole con cui si procede agli
arresti, da un lato dalla Polizia, dall'altro dall'autorità militare; la
lentezza, che chiamerò forzosa, dell'istruzione di tanti processi, stante
il piccolo numero d'istruttori; citerò in 3° luogo il doversi per piccoli
reati aspettare il giudizio delle Corti d’Assise, anziché quello dei Giudici
di Mandamento o dei tribunali dei circondari."
(14).
Le condizioni delle carceri sotto il governo piemontese
furono oggetto di discussione anche al parlamento inglese. Lord Henry Lennox,
reduce del suo viaggio nelle province napoletane, riferì nella
seduta dell'8 maggio 1863
(15):
"Sento il debito di protestare contro questo sistema. Non mi curo se fatti
tenebrosi come questi abbiano avuto luogo sotto il dispotismo di un Borbone,
o sotto lo pseudo liberalismo di un Vittorio Emanuele. Ciò che è chiamata
unità italiana deve principalmente la sua esistenza alla protezione e all'aiuto
morale dell'Inghilterra - deve più a questa che non a Garibaldi, che non
agli eserciti stessi vittoriosi della Francia - e però, in nome dell'Inghilterra,
denuncio tali barbare atrocità, e protesto contro l'egida della libera Inghilterra
così prostituita".
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L’emigrazione,
la diaspora meridionale
Fu una delle più grandi ondate migratorie di tutti i
tempi: alle popolazioni meridionali, sconfitte e colonizzate altro non rimaneva
che battere la via dell’oceano: "Partetemmo pè mmare, eravamo sciumme!"
[partimmo per mare ed eravamo un fiume]. I porti di Napoli e Palermo diventarono
i più grandi centri di espatrio dei Meridionali, (Genova lo fu per i Settentrionali).
Pasquale D’Angelo così descriveva il suo commiato dalla madre: "Mi gettò
le braccia al collo singhiozzando e mi strinse a sé. Serrato nel buio di
quell’abbraccio stretto, chiusi gli occhi e piansi. Piangevamo entrambi,
fermi sui gradini, ed ella mi baciava e ribaciava le labbra. Sentivo le
sue lacrime calde irrigarmi il volto. "Tornerò presto", le dicevo singhiozzando
"Tornerò presto". Ma non fu così. I timori della mamma presagivano la verità.
Non ritornai più. Mi strinse ancora fra le braccia, quasi volesse farmi
addormentare sul suo petto. E tornò a baciarmi. Così rimanemmo a lungo finché
su di noi discese una gran pace"
(16).
Disse lo statista lucano Nitti: "Io vorrei fare, io farò forse un giorno
una carta del brigantaggio e una dell’emigrazione, e l’una e l’altra si
completeranno e si potrà vedere quali siano le cause di entrambi (…) la
miseria non ha ucciso le intime energie della razza, l’anima essenziale
della stirpe; il brigante e l’emigrante con la rivolta e l’esodo sono la
prova di una mirabile forza espansiva. "Che cosa farai?" io chiedeva al
vecchio contadino che partiva, "Chi lo sa!" egli mi rispondeva; non chiedeva
nulla, non voleva nulla, andava a lottare, a soffrire: aspirava alla sazietà.
In altri tempi sarebbe stato brigante o complice; ora andava a portare la
sua forza di lavoro, il suo misticismo doloroso nella terra lontana, a costituire
forse con i suoi compagni quella che dovrà essere la nuova
Italia ."
(17). Gli
emigranti arrivavano sulla costa orientale degli Stati Uniti dopo trenta
giorni di navigazione a vapore (prevalentemente in terza classe), terre
"assai luntane" di cui ignoravano la lingua. La maggior parte di
loro non aveva mai vissuto in una grande città e l’85% dichiarava all’ufficio
dell’immigrazione di essere agricoltore. Nonostante ciò, presto si
trasformarono in operai, minatori o ferrovieri (le strade ferrate erano
in rapidissima espansione). Essendo privi di denaro non riuscivano infatti
ad acquistare le terre che le leggi fondiarie americane mettevano a disposizione
a buon mercato. Inoltre "nel decennio 1870-1880 le retribuzioni offerte
dalle fabbriche e dalle miniere superarono quelle offerte dalla media azienda
agricola americana"
(18). Alcuni
emigrati si adattarono ai lavori più disparati, compresi i più umili, che
però rendevano, come salario, il triplo di quello d’Italia, con un
costo della vita solo di poco superiore. Ma le origini non si dimenticavano!
Dopo qualche anno infatti, un buon numero di loro lasciò le grandi metropoli
della costa orientale americana e fece il gran salto verso le terre sconfinate
del Far West, perché "la cosa di cui gli italiani più si struggevano era
di diventare padroni del loro pezzetto di terra e della loro casa. Diventare
proprietario di terra significava dare la prova del proprio valore. Non
c’era sacrificio troppo grave per uno scopo simile. Frugale all’eccesso,
l’italiano non sprecava niente (si diceva che "risparmiavano religiosamente
il denaro") (…) sa vivere di tanto poco che chiunque, salvo forse il cinese,
morirebbe di fame (…) quando l’italiano acquista un pezzo di terreno incolto,
impiega il suo tempo a zapparlo e a prepararlo per la coltura (…) tutta
la sua famiglia lavora spesso da mattina a sera e per parecchie ore della
notte (…) paga in contanti lo scavo della cantina e la pompa per l’acqua,
e al costruttore che gli tirerà su la casa dà una o più cambiali". Il sogno
della terra, coltivato in Patria per secoli, finalmente diventava realtà
e con esso arrivava il benessere tanto che i meridionali riuscivano, insieme
ai "pacchi alimentari e di vestiario", ad inviare in Italia parte dei risparmi
per aiutare le famiglie di origine. "Il successo è così normale, fra
gli italiani, che pochi sono quelli che non hanno un conto in banca e non
mandano regolarmente del denaro in Italia". L'emigrazione non fu, quindi,
solo una valvola di sfogo per l'eccesso di lavoratori, ma anche un preziosissimo
strumento per lo Stato italiano per rastrellare valuta pregiata. Si trattò
di cifre enormi: due miliardi di lire all'anno dal 1896 al 1900, più di
quattro miliardi all'anno dal 1909 al 1914. Molti emigrati giunsero in vetta:
citiamo i fratelli Di Giorgio che diventarono i più grandi distributori
di frutta del mondo. Ricordiamo Amedeo Pietro Giannini che da venditore
ambulante e possessore di un primo "banco" formato da un asse poggiato su
due barili, conquistò la fiducia di piccoli risparmiatori fornendo prestiti
a bassi interessi. La Bank of Italy di Giannini divenne prima l’istituto
più grande della California, poi degli Stati Uniti ed infine del mondo sotto
il nuovo nome di Bank of America. Anche in politica gli italiani
fecero strada e ci furono momento in cui i sindaci delle principali città
delle due sponde degli Stati Uniti (S.Francisco e New York) erano emigranti
della Penisola.
Non era, però, tutto rose e fiori perché il successo
degli immigrati italiani era inevitabilmente destinato ad alimentare i rancori
degli americani "indigeni" e delle altre nazionalità emigrate in America;
ci furono molti episodi di violenza xenofoba e alla fine si costruì lo stereotipo
dell'Italiano mafioso. "La massima parte degli italiani detestava e respingeva
con sdegno questa immeritata nomea, di cui ben presto gli Al Capone e i
Lucky Luciano li avrebbero bollati. I molti immigranti onesti e ossequienti
alla legge consideravano i sindacati della violenza come un prodotto degli
slum americani (…) l’americano medio non si rese mai conto del fatto che
la percentuale di condanne per cause criminali fra gli immigrati italiani
degli Stati Uniti era e rimase a lungo suppergiù eguale a quella degli altri
gruppi nazionali e addirittura inferiore a quella dei "nativi". Ciò non
impedì che i delitti commessi dagli italiani ricevessero particolare pubblicità
da parte della stampa. In qualche modo gli italiani e soprattutto i meridionali,
sembravano più "drammatici" nel commettere i loro delitti, e così evocavano
lo spauracchio dell’italiano assetato di vendetta e di sangue". Le differenze
somatiche, di usi e costumi tra gli emigranti italiani provenienti dalle
varie regioni della Penisola erano marcatissime "Fra italiani del Nord e
italiani del Sud continuavano a manifestarsi secolari e non sopiti conflitti
(…) agli italiani del Nord non piaceva che l’immagine dell’italiano tipico,
che andava formandosi nella mente degli americani, corrispondesse a quella
dell’italiano del Sud, piccolo e bruno (…) e l’italiano del Sud, che si
vedeva trattato con alterigia dall’italiano del Nord, lo chiamava tight
(spilorcio), e mean (meschino e con la puzza sotto il naso) (…)
La United States Immigration Commission era solita tenere distinte le
cifre degli immigrati del Nord e del Sud d’Italia, mentre non usava fare
altrettanto per nessuna delle altre nazionalità ". Per quanto riguarda
il numero degli emigrati, sebbene vi siano dati ufficiali solo a partire
dal 1875, le tabelle Nitti ci offrono, comunque, per il periodo precedente,
una eloquente panoramica: 1861: 5.525; 1862: 4.287; 1863: 5.070; 1864: 4.879;
1865: 9.742; 1866: 8.790; 1867: 18.447; 1868: 18.120; 1869: 23.325; 1870:
15.473; 1871: 15.027; 1872: 16.256; 1873: 26.183; in quei primi anni l’85%
degli emigrati proveniva dalle regioni del Nord d’Italia, fu solo dopo la
crisi agraria degli anni ’80 che i meridionali presero il sopravvento.
Nell’anno 1900 l'emigrazione italiana complessiva aveva già raggiunto la
enorme cifra di 8 milioni di individui di cui 5 milioni provenivano dalle
ex Due Sicilie (di essi 3.4 milioni andarono oltreoceano); espatriò dal
Sud oltre il 30% della popolazione; "Nel 1901 il sindaco di Moliterno,
in Lucania, porgendo il saluto della città al capo del governo, venuto a
visitarla, diceva:" La saluto in nome di ottomila concittadini,
tremila dei quali risiedono in America, mentre gli altri cinquemila
si preparano a seguirli"; nel 1898 l’Italia era già balzata al primo posto,
tra tutti i paesi, per numero di emigranti in America; nel successivo decennio
1901-1910 partirono per nave più di 350.000 persone all'anno, poi aumentarono
negli anni successivi e nel solo 1913, che fu l'anno della più forte emigrazione,
lasciarono l'Italia per le Americhe 560.000 persone, cui si devono aggiungere
313.000 partenze per Paesi europei. Ancora negli anni '50 e '60 del Novecento
altri sei milioni di meridionali emigrarono dal Sud verso il Nord (d’Europa
e d’Italia), ai giorni nostri la diaspora continua e ben 90mila meridionali
sono costretti a lasciare ogni anno le loro terre; la "questione meridionale",
dopo più di 140 anni, non si riesce a risolvere (il meridionalista Nicola
Zitara dice non si vuole risolvere per lasciare perennemente il Sud
allo stato di "colonia interna" del Nord).
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Note al capitolo 11:
1. Angela Pellicciari, op. cit. (dal
Journal des Debats ", novembre 1860)
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2. "Sulle condizioni morali e materiali
delle province del Mezzogiorno d’Italia", Napoli, Stab. Tipografico Largo
Trinità Maggiore riportato da De Jaco "Il brigantaggio meridionale ", Editori
Riuniti, Roma, 1969, modif.
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3-4-7-10. De Jaco, op. cit., modif.
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5. da "Ordine Nuovo" del 1920
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6. L'Archivio dell'Ufficio Storico
dello Stato Maggiore dell'Esercito, a Roma, conserva gli atti, documenti,
rapporti e foto inerenti il Brigantaggio post-unitario; la consultazione
dell'intero complesso è oltremodo ardua, in quanto soggetta a particolari
autorizzazioni e nulla osta dell'Autorità. La storia dei documenti è la
seguente: nel 1866 il comando delle truppe piemontesi di Napoli inviò all'archivio
di Firenze 73 fascicoli privi di indici e senza ordine contenenti rapporti
militari, processi, relazioni, foto, cartine geografiche, manifesti e disegni;
nel 1871 le suddette cartelle furono inviate, senza effettuare alcuna catalogazione,
all'Archivio militare di Roma; tra il 1892 ed il 1894, furono inviati a
Roma i restanti documenti di Napoli inerenti il brigantaggio, compreso i
diari di guerra del luogotenente Cialdini. Giunsero altri documenti dalla
Calabria, Sicilia, Puglia e dalla Lucania. Un tal tenente Gilberti fu assegnato
all'archivio con il compito di mettere in ordine i documenti, ma questi
si limitò a dividere le materie e nel 1897 fu spostato ad altro incarico;
nel 1908 fu assegnato il compito ad un certo capitano De Bono che riuscì
a sistemare i documenti del periodo 1860 - 1862, poi nel 1913 lasciò l'incarico
al capitano Cesari che completò l'opera, selezionando la parte "accessibile"
dell'archivio. Molti documenti furono distrutti nel "forno della carta"
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8. Michele Topa, op. cit.
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9. AA.VV. "La storia proibita", Controcorrente,
2001 torna
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11. "La rivolta di Montefalcione " (ed. Nazione Napoletana,
1997)
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12. Archivio di Stato di Avellino,
Pretura di Bagnoli Irpino, sentenze penali, vol. 77 tratto da " Manifestazioni
antisabaude in Irpinia " di Eduardo Spagnolo, Edizioni Nazione Napoletana,
1997
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13. Luigi Braccilli, " Briganti
d’Abruzzo", Edizioni dell’ Urbe, 1988
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14. le citazioni riportate sono
tratte da Fulvio Izzo, "I lager dei Savoia", Controcorrente editore
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15. da O'Clery, op.cit.
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16. Andrew F.Rolle, "Gli emigrati
vittoriosi", BUR, 2003
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17. riportato da Michele Topa, op.
cit.
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18. Andrew F.Rolle, op. cit. da
cui sono tratte anche tutte le citazioni successive.
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Gli autori ringraziano per i contributi ed i suggerimenti:
Aldo Musacchio, Alessandro Romano, Antonio Ciano, Antonio Pagano, Augusto
Santaniello, Camine Colacino, Giulia Tagliatatela, Maria Russo Dixon, Marina
Salvadore, Mauro Tacca, Nicola Zitara e Umberto Pontone.
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