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I Il Sud e l'unità d'Italia


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Parte Quarta

11. Le conseguenze dell'annessione

Prigionieri di guerra

Il "Regno rappezzato", la " piemontesizzazione " e la fallimentare politica sabauda

La questione agraria: Il Demanio e gli Usi Civici

Il Sistema bancario ed il Bilancio iniziale del neo stato italiano

La Politica Fiscale unitaria

La Spesa Pubblica

Trasporti

Spese amministrative

L'attacco dello Stato all'industria meridionale

Il ruolo dei parlamentari meridionali a Torino

12. La Resistenza nelle Due Sicilie

I briganti e i "reazionari"

La Repressione

L’emigrazione, la diaspora meridionale


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Parte Quarta

11. Le conseguenze dell'annessione

Prigionieri di guerra

Erano in tutto circa 40.000 uomini di cui una parte riuscì a sottrarsi alla sorveglianza e fece ritorno alle proprie case, in osservanza dell'ordine di scioglimento impartito dal Re prima della partenza per l'esilio, non pochi di questi andarono ad ingrossare le file della guerriglia antiunitaria, ma almeno 15.000 rimasero nelle mani del vincitore che tentò di arruolarli nel nuovo esercito "italiano". "Tra le parecchie migliaia di prigionieri, tramutati nell'Italia superiore, benché tentati colla fame, col freddo in clima per essi rigidissimo e con ogni genere di privazioni, appena i tre o quattro sopra cento si piegarono ad arruolarsi nelle milizie di un altro Re, e quasi tutti, all'invito, non fecero altra risposta, che questa molto laconica: Il nostro Re sta a Gaeta" (1).

"Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e in Lombardia, si ebbe ricorso a un espediente crudele e disumano che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento fra le ghiacciaie. E ciò perché fedeli al giuramento militare ed al legittimo Re" (2). Lo storico contemporaneo Antonio Pagano ha ritrovato i registri dell'ospedale di Fenestrelle (3) contenenti i nomi dei prigionieri di guerra meridionali "Le vittime dovettero essere migliaia, anche se non vennero registrate da nessuna parte. Morti senza onore, senza tombe, senza lapidi e ricordo. Morti di nessuno. Terroni" (4).

Dal diario del soldato borbonico Giuseppe Conforti nato a Catanzaro il 14/3/1836: "Nella mia uscita fu principio la guerra del 1860, dopo questa campagna che per aver tradimenti si sono perduto tutto e noi altri povere soldati manggiando erba dovettimo fuggire, aggiunti alla provincia della Basilicata sortí un prete nemico di Dio e del mondo con una porzione di quei giudei e ci voleva condicendo che meritavamo di essere uccisi per la federtà che avevamo portato allo notro patrone. Ci hanno portato a un carnefice Piemontesa condicendo perché aveva tardato tanto ad abbandonare quell'assassino di Borbone. Io li sono risposto che non poteva giammai abbandonarlo perché aveva giurato fedeltà a lui e lui mi à ditto che dovevo tornare indietro asservire sotto la Bandiera d'italia. Il terzo giorno sono scappato, giunto a Girifarchio dove teneva mio fratello sacerdote vedendomi redutto a quello misero stato e dicendo mal del mio Re io li risposi che il mio Re no aveva colpa del nostri patimenti che sono stato le nostri soperiori traditori; siamo fatto questioni e lo sono lasciato. Allo mio paese sono stato arrestato e dopo 7 mesi di scurre priggione mi anno fatto partire per il piemonte. Il 15 gennaio del 1862 ci anno portato affare il giuramento, in quello stesso anno sono stato 3 volte all'ospidale e in pregiona a pane e accua; principio del 1863 fuggito da sotto le armi di vittorio, il 24 sono giunto in Roma, il giorno 30 sono andato alludienza del mio desiderato e amato dal Rè, Francesco 2 e li ò raccontato tutti i miei ragioni" (5).

Alla prima leva "unitaria" del 1861 (di cinque anni ed obbligatoria anche per coloro che già avevano prestato servizio nel disciolto esercito borbonico) si presentarono solo 20000 dei 72000 uomini previsti, seguirono dei rastrellamenti di reparti regolari dell'esercito piemontese fin nei più piccoli paesi del Meridione; scrive Tommaso Pedio (6): "La mattina del primo febbraio reparti regolari si portano nei piccoli centri abitati (...) Ragazzi, giovani, uomini maturi si avvicinano con curiosità a questi soldati che non hanno mai visto. Si chiedono perché mai sono venuti nel loro paese (...) vengono rastrellati tutti i giovani dall'apparente età dai 20 ai 25 anni. Tra questi non vi sono i figli del sindaco o degli ufficiali e dei militi della Guardia Nazionale, né i figli dei loro amici. Nessun galantuomo, nessun civile, soltanto poveri contadini ai quali nessuno ha mai detto perché sono venuti quei soldati. Non si limitano a dichiarare e a trattenere in arresto come disertori o renitenti alla leva i giovani rastrellati. In alcuni casi, a Castelsaraceno, ad esempio, a Carbone e nei casali di Latronico, fucilano sul posto e senza dar loro la possibilità di giustificare la presunta renitenza alla leva, numerosi giovani i quali non hanno mai saputo della chiamata alle armi della leva del 1857-1860. Chi è sfuggito al rastrellamento si allontana dalla propria casa e ripara nelle campagne e nei boschi, non certo per delinquere, ma sellando per sottrarsi all'arresto."

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Il "Regno rappezzato" (7), la " piemontesizzazione " e la fallimentare politica sabauda

Passata la tornata dei plebisciti farsa, dopo pochi mesi, il 27 gennaio 1861, ci fu l'elezione politica indetta per eleggere il primo parlamento italiano ma stavolta solo pochissimi ebbero diritto al voto, bisognerà aspettare il 1919 per avere il suffragio universale maschile. La legge elettorale piemontese, risalente al 1848 ed estesa per regio decreto del 10 dicembre 1860 ai territori annessi, riservava i diritti politici ai soli uomini di 25 anni che pagassero imposte dirette di almeno 40 lire l'anno (equivalenti ad un reddito di circa 4.000 Euro di oggi, altissimo per l'epoca) e che sapessero leggere e scrivere. Ricordiamo che all'epoca quasi l'80% degli italiani era analfabeta e solo nel 1877 la legge Coppino rendeva obbligatoria l'istruzione elementare rimanendo peraltro, in gran parte, lettera morta tanto che nel 1950 ancora il 15% degli italiani era analfabeta. Per tali motivi nelle Due Sicilie ebbero diritto al voto 200 mila persone su circa due milioni di potenziali elettori, il 10% quindi, dei quali meno della metà si presentarono a votare per eleggere i 144 rappresentanti. Garibaldi ebbe a Napoli solo 39 voti! Complessivamente in tutta Italia furono chiamati alle urne 419.846 elettori corrispondenti a meno del 9% di quelli potenziali: nasceva così l'Italia dei Notabili portando con sé un'ambiguità che avrebbe fortemente limitato il senso dello stato nei cittadini della neonata nazione italiana. I liberali, tanto glorificati dall'oleografia risorgimentale come apportatori di democrazia, avevano trionfato.

Il nuovo parlamento italiano fu inaugurato a Torino, nel Palazzo Carignano, l'8 febbraio 1861 quando ancora la bandiera delle Due Sicilie sventolava a Gaeta, Messina e Civitella del Tronto. Per molti parlamentari quella fu la prima volta che uscivano dai rispettivi stati preunitari. Era composto di 443 deputati eletti in collegi uninominali e 211 senatori di nomina regia, per far parte della Camera "erano sufficienti in media tre o quattrocento voti, ma c'erano anche coloro che, candidati in collegi con scarsa affluenza di votanti, riuscivano a diventare deputato del Regno con una cinquantina di voti (...) Una cosa era il numero degli eletti ed un'altra quella della loro presenza nelle aule del Parlamento: pochi erano quelli che si sentivano di lasciare le loro case per recarsi a Torino (l'articolo n.50 dello Statuto proibiva la corresponsione di indennità ai membri delle due Camere) (...) Al senato erano di solito presenti alle sedute non più di sei o sette senatori. Non molto migliore la situazione della Camera dei deputati (...) le sedute iniziavano tardi e duravano poco, al massimo qualche ora (...) per deputati e senatori la redingote nera ed il cilindro erano quasi una divisa (...) i discorsi erano di solito ampollosi, retorici, di scarsissimo contenuto politico, generalmente venivano letti e talvolta modificati prima di essere pubblicati nei resoconti stenografici. Emerge chiaramente da quei resoconti la inadeguatezza della classe politica del tempo a far fronte ai problemi di una monarchia parlamentare (...) era un Parlamento in cui le beghe personali, gli odi e le passioni, la lotta di una fazione contro l'altra prevalevano normalmente su ogni altra questione" (8).

Vittorio Emanuele II, il 17 marzo 1861, assunse il titolo di Re d'Italia (riconosciuto dall'Inghilterra il 30 marzo, prima tra le potenze europee) in aperta violazione del trattato di Zurigo del 10 novembre 1859, in cui all'art. 3 veniva stabilito che " il re di Sardegna non cambierà affatto di titolo, oppure, se tiene a modificarlo, egli non prenderà che quello di Re del reame cisalpino" (cioè dell'Italia settentrionale). Il titolo di re d'Italia aveva un preciso intento politico: servì a sanzionare le annessioni compiute, ad annichilire la speranze di restaurazione dei principi deposti, ad arrogarsi la sovranità sulle Due Sicilie che venivano cancellate dal novero degli Stati europei, ed a mettere l'ipoteca sui territori del Papa non ancora usurpati e su quelli ancora sotto dominio austriaco (9).

Vittorio Emanuele non ritenne opportuno mutare la numerazione dinastica e continuò a chiamarsi "secondo" e non "primo" perché "gli pareva, qualora avesse assunto questo secondo titolo, commettere ingratitudine verso i suoi gloriosi avi"; furono ritirate le proposte parlamentari che proponevano di chiamarlo "Re degli Italiani". La prima legislatura del "nuovo" Regno d'Italia si chiamò "ottava" perché tale era quella del regno sabaudo, Torino rimase capitale e si declassarono quelle degli stati preunitari a sedi di prefettura. la costituzione, le leggi, le pubbliche istituzioni e il sistema finanziario piemontese furono imposte a tutti i nuovi sudditi [la cosiddetta "piemontesizzazione"]. Alla fine del 1866, su 59 prefetti esistenti, ben 43 erano piemontesi ed il resto emiliani o toscani. Anche la toponomastica di strade e piazze fu cambiata e nel Sud toccò a Venafro, il 12 febbraio 1861, la sorte d'essere la prima cittadina ad avere una "Piazza Milano", in memoria di un battaglione mobile formato da milanesi. Seguirono poi le centinaia di piazza Garibaldi, Mazzini, corsi Vittorio Emanuele ecc. ecc. Nella città di Napoli si contano ben sei siti intitolati al Nizzardo (piazza, corso, via, 1a, 2a e 3a traversa!). I Savoia ebbero quindi il Regno d'Italia, ma lo persero ingloriosamente in appena ottanta anni, il 13 giugno 1946 alle 15 e 30 il tricolore con lo stemma sabaudo veniva ammainato dalla torre del Quirinale e Umberto II, l'ultimo re, prese la via dell'esilio.

La fallimentare politica sabauda dei suoi predecessori aveva partorito in successione: lo spostamento dell'asse economico al Nord che causò l'emigrazione di milioni di meridionali, fenomeno assolutamente sconosciuto prima dell'Unità; la barbara repressione della resistenza antiunitaria, bollata con l'appellativo di "brigantaggio", una politica fiscale oppressiva con le "tasse dei poveri" (come quella sul macinato), gli stati d'assedio (più di dieci in quaranta anni), le leggi speciali, le patetiche guerre coloniali, la prima guerra mondiale, il fascismo, le leggi razziali, la seconda guerra; per pura mania di grandezza (ridicola per un piccolo neonato stato) il regno d'Italia mantenne un esercito che, in certi momenti, fu il più numeroso d'Europa, varò una marina da guerra imponente e costruì fortificazioni dovunque, con un'irresponsabile sottrazione di risorse che avrebbero dovuto essere impiegate per elevare il pessimo livello di vita dei popoli italiani. Nel 1881, a ben venti anni dall'Unità, "solo la metà dei 30 milioni di ettari di terreno a destinazione agricola erano coltivabili e la resa non superava gli 11 quintali di grano per ettaro, contro i 15 che si avevano in Francia e i 23 della Germania. La miseria era tanta e le condizioni di vita spaventose (...) circa i tre quarti della popolazione era analfabeta, la mortalità infantile era elevatissima (...) con punte superiori al 10%, in 4.701 comuni sugli 8.258 del Regno i contadini vivevano nelle stalle con gli animali ed in 1178 comuni il pane ed il frumento era considerato un lusso e consumato solo nei giorni festivi o dagli ammalati" (10). Le conseguenze del disastro della seconda guerra mondiale dell'accoppiata Mussolini-Vittorio Emanuele III di Savoia fecero sì che nel 1951 (dati del censimento ufficiale) solo l'8% delle abitazioni aveva acqua corrente e stanza da bagno.

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La questione agraria: Il Demanio e gli Usi Civici (11)

Gli Usi Civici, codificati da apposite leggi, consentivano a chiunque di usufruire delle terre demaniali per seminare, raccogliere, pascolare gli armenti, per far legna. "L'errore di molti scrittori di storia ed economia è nel ritenere il fenomeno del latifondo dipendente dal feudalesimo, in realtà il latifondo è storicamente anteriore di millenni, tant'è che Plinio il Vecchio già parla di latifundium" (12). Fino all'introduzione dei moderni mezzi meccanici è stato il clima delle regioni meridionali, mite d'inverno ed asciutto d'estate, che ha favorito la monocoltura cerealicola estensiva in rotazione col pascolo; mentre nelle regioni settentrionali l'inverno rigido e l'estate calda e piovosa erano l'ideale per la coltura intensiva in piccoli lotti. Il diritto napoletano chiamò "demanio" la terra libera, non infeudata, nominalmente proprietà del Re in quanto sovrano; terreni feudali, invece, erano quelli dati in proprietà dai sovrani ai feudatari (i cosiddetti baroni) in base ai titoli di infeudazione. Nelle terre infeudate i proprietari potevano esigere tutta una serie di gabelle (fida, decime, terratici, erbaggi, ghiandaggi) che vessavano, essendo spesso molto esose, i contadini e i pastori che vi abitavano, riducendoli spesso ad una sorta di servi della gleba. Bisogna dire che la estensione dei terreni demaniali era stata spesso "ristretta" dai baroni con le cosiddette "usurpazioni", effetto delle falsificazioni dei titoli di infeudazione. Le appropriazioni indebite (spesse vecchie di secoli) erano state sempre contrastate, con alterne fortune, dai re susseguitisi alla guida dello stato meridionale: si cercava di far tornare demaniali, e quindi destinate agli usi civici, terre che erano state "trasformate" in feudali. La grande rivoluzione che in Francia sradicò il feudalesimo, non ebbe gli stessi effetti che raggiunse nel mezzodì di Italia, perché nel reame di Napoli la feudalità, anche nel periodo dei suoi maggiori eccessi era rimasta, per i motivi suddetti, ben lungi dal raggiungere l'esempio negativo dei signorotti francesi. Durante la decennale dominazione transalpina con la legge del 2 agosto 1806 fu abolita la feudalità, l'omaggio ai princìpi della rivoluzione ebbe, però, forme ed effetti alquanto diversi che in Francia; per l'articolo 15 di questa legge, infatti, le terre degli ex feudi restavano ai possessori, le popolazioni conservavano gli usi civici e tutti i diritti che possedevano su quelli fino a quando con altra legge non ne fosse ordinata e regolata la divisione. Passata la parentesi francese, le regie (commissioni borboniche), tramite "le ricognizioni in loco", recuperarono migliaia di ettari che risultavano posseduti abusivamente dai baroni facendoli rientrare nel demanio regio, che a sua volta li affidava ai comuni cui erano stati sottratti. Le competenze su queste terre erano affidate ai sindaci, ai prefetti e ai giudici locali, che però erano spesso amici (o succubi) dei baroni, e che invece di destinarle agli usi civici, le restituivano ai vecchi feudatari. Nonostante ciò, ci fu un complessivo progresso, che interessò più la parte continentale del Regno, mentre in Sicilia il latifondo rimase quasi intatto.

Ferdinando II insistette nel contrastare il "potere periferico" dei baroni ed il 20 settembre 1836 riconfermò le leggi sul Demanio e gli Usi Civici. Con l'arrivo dei Piemontesi la situazione dei contadini precipitò nell'abisso della disperazione: la conquista sabauda fu infatti apertamente favorita dai baroni che, divenuti opportunisticamente "liberali e unitaristi", dopo l'Unità effettivamente riuscirono a mantenere le loro usurpazioni. I piemontesi, in cambio dell'appoggio ricevuto all'invasione del Sud e alla caduta dei Borbone, misero in vendita (spesso a basso costo) le proprietà demaniali e, favorendo l'acquisizione di terre, boschi, pascoli e frutteti da parte dei ricchi borghesi liberali, incrementarono il latifondo gettando migliaia di famiglie "in mezzo alla strada", senza più alcun sostentamento perché private dei secolari "Usi Civici". Ai contadini fu di fatto impedito di opporsi alle usurpazioni e di rivendicare i demani, sia per la connivenza delle amministrazioni comunali e dei prefetti, sia per la lungaggine degli artificiosi procedimenti necessari per le rivendicazioni legali. A peggiorare la situazione, fu la confisca dei beni demaniali della Chiesa, un terzo delle terre del Sud, che era stata il "padrone migliore" dei contadini, perché di regola si accontentava del giusto e il colono poteva anche riuscire a mettere da parte dei risparmi decenti (cosa che invece raramente accadeva nel rapporto con i baroni). Non è quindi da meravigliarsi se l'affamato "cafone" prese il fucile e si trasformò in "brigante"! Ricordiamo che per una vera riforma agraria nell'Italia unita si dovranno aspettare la seconda metà del '900.

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Il Sistema bancario ed il Bilancio iniziale del neo stato italiano

Al momento dell'Unità vennero confermati 5 istituti di emissione: Banca Nazionale (ex Banca Nazionale Sarda), la Banca Toscana, il Credito Toscano, il Banco di Sicilia ed il Banco di Napoli (13), ai quali fu riconosciuto il diritto di battere moneta per conto dello Stato ed il compito di unificare i bilanci dei singoli Stati italiani preunitari in un unico Bilancio Nazionale. La situazione apparve subito molto difficile (14): si partì con il disavanzo del 1860 di 39 milioni di lire (saldo negativo tra i bilanci in attivo di Lombardia, Emilia, Marche, Umbria, Regno delle Due Sicilie, e quelli in passivo, capitanati dal Regno di Sardegna con 91 milioni di lire e seguito dalla Toscana con più di 14). Il neonato Regno d'Italia ereditò inoltre il debito pubblico degli stati preunitari, che complessivamente ammontava alla astronomica cifra di 2.242 milioni di lire, ai quali nel 1861 si aggiunsero ulteriori 111 milioni di cui ben 63 provenienti dal solo regno di Sardegna. Il debito pro-capite del Regno di Sardegna era stato il quadruplo di quello delle Due Sicilie dove però era completamente garantito, tanto che i suoi certificati erano quotati a Londra ben oltre il valore nominale. Per tale motivo il rapporto tra interessi annui sul debito, e prodotto interno lordo (P.I.L.) era al Sud ben inferiore al sopra citato rapporto 1:4 (16%, mentre in Piemonte era del 74%). La disastrosa situazione portata in eredità dal regno di Sardegna al nuovo regno d'Italia era dovuta a due cause: la pessima bilancia commerciale ed i costi di una onerosissima politica estera.

Per quanto riguarda la prima, scrive Nicola Zitara (15): "Di regola gli storici elogiano la politica economica di Cavour ma, se vogliamo fare un paragone recente, questo è anche peggio che lodare la partitocrazia per essere riuscita a indebitare gli italiani di due milioni di miliardi di ex lire, eppure questo debito è più o meno pari al prodotto interno lordo italiano di un anno, mentre il debito creato da Cavour, era percentualmente il doppio".

Tav. 3 Disavanzo annuale (Lire) della Bilancia commerciale degli Stati Sardi (periodo 1849 - 58)

1849: 59.674.336

1850: 38.004.150

1852: 77.179.931

1853: 93.006.244

1851: 57.947.116

1854: 90.201.902

1855: 74.983.512

1857: 101.312.821

1858: 87.555.183

Totale: 768.576.229

Per quanto riguarda la politica estera, essa impose un gigantesco indebitamento verso le grandi potenze amiche (Inghilterra e Francia). La sola spedizione di Crimea del 1855 causò un'esposizione che si riuscì ad estinguere addirittura nel 1902. "Ci fu un indebitamento colossale, coprire un debito con un altro debito, pagare una rata d'interessi facendo ancora un debito era diventato il sistema di governo: tra il 1849 e il 1858 il Piemonte contrasse all'estero, principalmente con il banchiere James Rothschild, debiti per 522 milioni - quattro annate di entrate fiscali. Si sostiene che lo Stato sabaudo si piegò alla necessità della unità nazionale e si aggiunge che è doveroso essere grati ai Savoia; di certo - di storico - c'è solo il fatto che il Regno di Sardegna se la cavò riversando i suoi debiti sul resto dell'Italia autoannessasi." (16). Inoltre, al momento dell’Unità, il Sud possedeva riserve auree pro capite doppie rispetto al Nord; nel Regno delle Due Sicilie esistevano, inoltre, 761 stabilimenti di beneficenza e 1.131 monti frumentari, i 2/3 del totale italiano, che, fornendo anticipazioni per le attività agricole ad interessi quasi nulli, erano una sorta di credito agrario.

Per quanto riguarda il Tesoro del nuovo regno d’Italia il contributo più alto lo pagò il Sud che, al momento della annessione, partecipò per i 2 / 3 alla sua costituzione (considerando anche il successivo apporto di Roma e Venezia). Il capitale circolante delle Due Sicilie corrispondeva a 22 miliardi di Euro attuali ed era più del doppio di quello di tutti gli altri stati della penisola messi insieme. Le monete erano in metallo nobile e la differenza tra il valore intrinseco e quello nominale era garantita in oro (la lira piemontese, invece, lo era solo in rapporto 3 a 1, cioè su tre lire circolanti, solo una era convertibile in oro).

Tav.4- Riserva aurea, in milioni di lire, degli antichi Stati italiani al momento delle annessioni (17)

  • Due Sicilie: 445,2
  • Lombardia: 8,1
  • Ducato di Modena: 0,4
  • Parma e Piacenza: 1,2
  • Roma (1870): 35,3
  • Romagna, Marche e Umbria: 55,3
  • Piemonte: 27
  • Toscana: 85,2
  • Venezia (1866): 12,7
  • TOTALE: 640,7
  • La gestione della finanza pubblica del novello Regno d’Italia, invece di farsi carico di programmi di sviluppo del nuovo Stato, rincorse illusori obiettivi di "pareggio del bilancio". Per ottenerlo si imposero nuovi tributi, ci si affrettò a svendere sottocosto i beni demaniali e quelli ecclesiastici (concentrati prevalentemente nel Sud, come si è visto nei precedenti capitoli) con colossali profitti per gli acquirenti e cattivi affari per lo Stato.

    Per quanto riguarda l’assetto del sistema bancario, nei primi cinque anni dall'Unità si scatenò una lotta feroce tra il Banco di Napoli e la Banca Nazionale piemontese. Mentre al Sud proliferarono le Casse di Deposito del Nord, un quarto di quelle che saranno costituite in Italia in quegli anni, il Banco di Napoli doveva invece ottenere l'autorizzazione statale per aprire filiali nel settentrione d’Italia: fu evidente che lo scopo finale era di privilegiare gli interessi della borghesia del nord a scapito di quella meridionale.

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    La Politica Fiscale unitaria

    Nelle Due Sicilie, la tassazione complessiva raddoppiò in soli sei anni dall’annessione (da 14 lire pro-capite del 1859, alle 28 del 1866) (18)

    Tav.5 - Le imposizioni fiscali al Sud subito dopo la conquista piemontese (19)

    Imposta personale

    Tassa sulle successioni

    Tassa sulle donazioni, mutui e doti; sull’emancipazione ed adozione

    • Tassa sulle pensioni

    • Tassa sanitaria

    • Tassa sulle fabbriche

    • Tassa sull’industria

    • Tassa sulle società industriali

    • Tassa per pesi e misure

    • Diritto d’insinuazione

    • Diritto di esportazione sulla paglia, fieno, ed avena

    • Sul consumo delle carni, pelli, acquavite e birra

    • Tassa sulle mani morte

    • Tassa per la caccia

    • Tassa sulle vetture

    Accorpando i dati complessivi sulle imposte, dividendoli per categorie di entrate, notiamo che nel periodo 1861-1873 le imposte dirette davano la metà delle entrate fiscali delle indirette, che com’è noto colpiscono i consumi e quindi gravano proporzionalmente di più sui redditi più bassi. Ma non è tutto, le imposte dirette erano proporzionali e non progressive rispetto al reddito individuale per cui i cittadini con poche sostanze e le classi agiate pagavano la stessa aliquota fissa di tasse. La politica fiscale perseguita dallo Stato unitario fu, poi, un caso di vero e proprio drenaggio di capitali dal Sud verso il Nord, infatti, la pressione fiscale in agricoltura crebbe nel regno d’Italia in maniera sperequata, così, mentre nelle Due Sicilie si pagano 40 milioni d’imposta fondiaria, nel 1866 se ne pagheranno 70, contro i 52 del Nord. La differenza è anche più evidente se si considerano le aliquote per ettaro: nelle province di Napoli e Caserta si pagavano 9,6 lire per ettaro, contro la media nazionale di 3,33. Lo stesso avveniva per le tasse sugli affari che incidevano per 7,04 lire pro-capite in Campania, contro 6,70 in Piemonte e 6,87 in Lombardia (20). In seguito, quando si pose il problema di perequare l'imposta nelle province (Lombardia, Napoletano) che pagavano di più [l’imposta non era sul reddito, ma si stabiliva, secondo certi parametri, su base regionale], il risultato fu che le tasse diminuirono in Lombardia ed aumentarono nel Napoletano (21). Si calcola che l’ingiustizia fiscale sia costata al Sud 100 milioni/anno e che quest’ultimo abbia ricevuto dall’erario nei primi 40 anni dell'Unità meno di quanto sborsasse; anche dopo le cose non cambiarono, così, nel primo decennio del secolo ventesimo, una provincia depressa come quella di Potenza pagava più tasse d’Udine e la provincia di Salerno, ormai lontana dalla floridezza dell'epoca borbonica essendo state chiuse cartiere e manifatture, pagava più tasse della ricca Como (22). Non è tutto: il 18 febbraio 1861 fu abrogato il Concordato in vigore tra le Due Sicilie e lo Stato della Chiesa. I beni ecclesiastici furono espropriati e venduti, fruttando allo Stato unitario oltre 600 milioni (23). Gli acquirenti furono i borghesi liberali che se ne impossessano a prezzi irrisori, i capitali del Sud furono così rastrellati e resi disponibili per l’imprenditoria del nord, mentre al Sud si ebbe un incremento dei latifondi , sottraendo ai contadini gli "Usi Civici". Indicative sono le cifre delle espropriazioni per il mancato pagamento di tasse (da una per ogni 27mila abitanti nel Piemonte e Lombardia, si passa ad una a 900 per Puglia e Lucania e una a 114 in Calabria) (24).

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    La Spesa Pubblica

    La spesa pubblica appare prevalentemente concentrata al Nord tanto che "Lo Stato spendeva mediamente 50 lire per ogni cittadino del Nord e 15 per quello del Sud" (25). La ripartizione della spesa tra i singoli ministeri (26) mostra altre sorprese: a quello della Guerra (così si chiamava il Ministero della Difesa) andava il 19.52 % del totale mentre ai Lavori Pubblici solo il 9.62%. Vi era poi una grossa sperequazione nella distribuzione della spesa tra Nord e Sud; per le opere idrauliche in agricoltura, ad esempio, che era la principale attività economica italiana, troviamo questi dati:

    Tav.6 - Distribuzione della spesa per le opere idrauliche per l’agricoltura in Lire (1860-1898) (27)

    Lombardia: 92.165.574

    Veneto: 174.066.407

    Emilia: 130.980.520

    Sicilia: 1.333.296

    Campania: 465.533

    Dalle cifre si evince l’enorme disparità di finanziamenti tra il Nord e il Sud. L'unica spesa di un certo rilievo per il Meridione fu l'acquedotto pugliese (peraltro realizzato dopo il 1902); la media pro-capite per queste spese fu di lire 0,39 nel Mezzogiorno (0,37 in Sicilia) contro la media nazionale di lire 19,71 (28). I prestiti di favore per costruire gli edifici scolastici raggiunsero nel Sud la punta massima in Puglia di lire 5.777 per ogni 100.000 abitanti (Campania l. 641, Calabria 80); nel Nord le punte sono lire 13.345 in Piemonte e 15.625 in Lombardia (29); al Nord le scuole tecniche sono distribuite in ragione di una ogni 141 mila abitanti, al Centro una ogni 161 mila abitanti, al Sud una ogni 400 mila abitanti,analoga la situazione delle Università (30). Gli appalti vennero concessi quasi esclusivamente alle ditte del Centro-Nord e cosi pure le società dei Monopoli.

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    Trasporti

    Anche per i trasporti il Sud è svantaggiato: mandare una merce via mare da Genova a Napoli costa 0,85 lire/quintale; in senso inverso costa 1,50 (31). Le spese per spiagge, fari e fanali ammontano per il Nord a 278 mila lire/ km. di costa, a 83 mila al Centro, a 43 mila per il Sud e 31 mila in Sicilia; nella stessa epoca il Parlamento respinge i progetti di leggi speciali per i porti del Sud ed approva quelli per il Centro-Nord. Un gran parlare si è fatto sulle spese ferroviarie che lo Stato unitario ha fatto al Sud: l. 863 milioni per la parte continentale, 479 milioni per la Sicilia (32). Il tutto va però commisurato al totale di 4.076 milioni di lire spese nello stesso periodo per l'Italia intera: il Sud ebbe meno di un terzo dello stanziamento complessivo (33). In tal modo il Nord ottenne, a scapito del Sud, il progressivo miglioramento dei collegamenti ai mercati. Il 15 Ottobre del 1860 fu promulgato dal governo prodittatoriale di Garibaldi il decreto di concessione per la costruzione di strade ferrate in favore della Società Adami e Lemmi di Livorno (quest’ultimo futuro potentissimo Gran Maestro della Massoneria Italiana) assicurando per contratto un utile netto del 7%; le precedenti convenzioni con ditte meridionali furono annullate anche se i lavori erano a buon punto tanto che tutte le gallerie e i ponti erano già stati costruiti; per ordine del governo prodittatoriale i lavori furono sospesi e a nulla valsero le rimostranze del titolare della concessione, il pugliese Emmanuele Melisurgo, che insisteva perché il divieto fosse revocato e gli fosse permesso di far lavorare i suoi operai (34).

    Spese amministrative

    Si deve al Nitti se la leggenda del "burocratismo" meridionale sia stata smantellata, poiché egli ha provato, con un'analisi condotta con puntiglio teutonico, come gli uffici dello Stato fossero prevalentemente concentrati al Nord (scuole, magistratura, esercito, polizia, uffici amministrativi ecc.) e tutti i codici e l'intera struttura statale erano piemontesi. Eppure ci si continua a riferire dispregiativamente alla burocrazia borbonica come in un'estasi d’ignoranza quasi intenzionale.

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    L'attacco dello Stato all'industria meridionale

    Si sostiene che fu la concorrenza dei prodotti del Nord ed esteri a mettere in ginocchio l'industria meridionale dopo l'Unità, tesi tuttavia poco credibile poiché l'industria settentrionale copriva a stento il fabbisogno del suo mercato. Perché allora l'industria meridionale scomparve, malgrado fosse globalmente considerata ad un livello superiore a quella del Nord? La concorrenza estera c'era sia al Nord sia al Sud, eppure il primo sopravvisse e si sviluppò, mentre il Sud perse terreno anche nei settori in cui, al momento dell'Unità, era alla pari o ad un livello più avanzato. La spiegazione va dunque ricercata in quel preciso disegno politico dei "vincitori", che prevedeva uno sviluppo accelerato del Nord, finanziato proprio dalle risorse rastrellate al Sud. Tale progetto fu costantemente perseguito, tanto che il triangolo Torino-Milano-Genova (più vicino ai mercati europei) divenne ben presto il polo industriale italiano. Gli strumenti di questa politica furono: la fiscalità, il rastrellamento di capitali e del risparmio, la strozzatura del credito, gli investimenti pubblici preferenziali per il Nord e la diminuzione delle commesse alle imprese del Sud. "Il dissidio tra la Lombardia (…) e molta altra parte d’Italia ha origini in una serie di fatti: sopra tutto il sacrificio continuo che si è fatto degli interessi meridionali" (35). Non deve quindi destare meraviglia che la frattura economica Nord-Sud cominciasse a delinearsi già dopo 20 anni d’unità, e che dopo 40 era già netta. Piuttosto stupisce che l'economia del Sud abbia retto per decenni ad una simile politica di sistematica rapina.

    I fiori all’occhiello dell’economia meridionale come Pietrarsa, che era la più grande industria metalmeccanica d’Italia, i cantieri navali, gli stabilimenti siderurgici come Mongiana o Ferdinandea, l’industria tessile e le cartiere caddero in rovina o furono immediatamente chiusi, contemporaneamente al Nord sorsero quasi dal nulla analoghi stabilimenti come l’Arsenale di La Spezia o colossi come l’Orlando. Pietrarsa, dopo vari passaggi di proprietà, nel 1885 venne addirittura declassata a officina di riparazione; nel 1900 ebbe un rapido declino fino ad essere chiusa definitivamente il 20 dicembre 1975 (attualmente è sede di un Museo ferroviario). Mongiana nel 1862 vide la produzione più che dimezzata, così come il numero dei suoi dipendenti; il 25 giugno 1874, in "ottemperanza" alla Legge 23 Giugno 1873, Mongiana venne chiusa e fabbriche, officine, forni di fusione, boschi, segherie, terreni, miniere, alloggi e caserme, tutto il complesso diventò la "casa di campagna" di Achille Fazzari, ex garibaldino, che l’acquistò per poco più di cinquecentomila lire. La costruzione della ferriera di Atina (al momento dell’Unità due altoforni erano già pronti, venne subito sospesa, mentre contemporaneamente si registrò un incremento di analoghi complessi nell'area ligure-piemontese (l'Ansaldo, che prima del 1860 contava soltanto 500 dipendenti, li raddoppiò in due anni). Paradigmatico, poi, è l’esempio della marina mercantile meridionale: prima dell’Unità era tra le più grandi del mondo, dopo il 1860 il governo di Torino preferì stanziare anticipi di capitale e sovvenzioni per le società di navigazioni genovesi, negandoli a quelle meridionali che furono così costrette a ridurre e sospendere le attività. "Il trentennio dal 1860 al 1890 segnò per l’armamento a vapore napoletano un periodo di decadenza e di stasi completa"(36). Nel ventennio 1879-1898 le commesse alla cantieristica del Sud furono solo il 33% del totale nel settore pubblico e circa l’11% di quello privato.

    Anche il settore tessile fu danneggiato dalla mancanza di commesse, dopo l’unità l’opificio di San Leucio venne chiuso per cinque anni e poi dato in appalto ad un piemontese, successivamente passò al Comune, poi in fitto ai privati e nel 1910 fu chiuso per sempre. Per quanto riguarda la fiorente industria della carta, lo Stato preferì acquistare il prodotto all’estero mandando sul lastrico migliaia di operai meridionali. Ricordiamo, per inciso, che in ogni caso l’industria italiana nei primi 90 anni postunitari rimase a livelli molto inferiori alla media europea: il Paese rimase sostanzialmente agricolo tanto che fino agli anni 50 del 1900 le maggiori entrate del bilancio dello Stato erano dovute alle esportazioni di agrumi meridionali e alle rimesse degli emigranti, anch’essi in gran parte del Sud. Ancora nel 1954 il 42,4% della popolazione attiva italiana era occupata nell’agricoltura contro il 31.6 % dell’industria.

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    Il ruolo dei parlamentari meridionali a Torino

    I deputati meridionali che giunsero a Torino, nel febbraio 1861, per l’inaugurazione del nuovo parlamento erano tutti accesi filopiemontesi e avevano avuto una parte molto rilevante nel favorire la conquista savoiarda prima screditando il governo meridionale e poi collaborando con l’invasione. La maggior parte, pur di rimanere nel gruppo di potere, chiuse tutti e due gli occhi di fronte all’annientamento economico e civile del Sud con un atteggiamento che è perdurato fino ai giorni nostri. Ma alcuni di loro fecero eccezione, presentando coraggiose interpellanze per difendere gli interessi del meridione: ne selezioniamo alcune divise per argomento (37):

    1) riguardo lo stato delle finanze il deputato pugliese Valenti così dichiarava nella seduta del 3 aprile 1861 (atto nr.52): "Sotto i Borboni pagavamo gli stessi e forse minori pesi che paghiamo adesso. I Borboni mantenevano un’armata di 120 mila uomini (…) ponevano fondi in tutti i banchi all’estero, dotavano largamente la figliolanza e tuttavia il tesoro era fiorente" e il 4 dicembre il deputato Ricciardi così si esprimeva (atto nr.340): "Come mai questo paese le cui finanze erano così floride, la cui rendita pubblica era salita al 118 è in così misera condizione? "

    2) riguardo la sicurezza personale il deputato siciliano Bruno così dichiarava nella seduta del 4 aprile 1861 (atto nr.53): "La Sicilia sotto i Borboni offrì per molti anni l’edificante spettacolo che furti non ne succedevano assolutamente e si poteva passeggiare per tutte le strade, ed a tutte le ore senza la menoma paura di essere aggrediti né derubati".

    3) riguardo la proposta di legge abolitiva dei vincoli feudali in Lombardia il deputato Zanardelli così dichiarava il 7 maggio (atto nr.113): "La legge napoletana su tal proposito fu fatta nel 1806, in un tempo non di rivoluzione ma di restaurazione, in un tempo in cui i feudi venivano restaurati in Lombardia (…) e questa legge nella patria di Vico, di Mario Pagano e di Filangeri fu chiamata, anche dal Colletta, argomento al mondo di napoletana civiltà".

    4) riguardo la connivenza con i Piemontesi dell’alta ufficialità borbonica prima dell’invasione il deputato Ricciardi così ebbe a dichiarare il 20 maggio 1861 (atto nr.140): "Appena reduce dall’esilio giunsi in Napoli (…) io feci la propaganda nelle caserme a rischio di farmi fucilare (…) gli ufficiali rispondevano: noi saremmo pronti ma i nostri soldati sono talmente fanatizzati che ci fucilerebbero (…) Ma vi pare che senza il lavoro segreto di questi ufficiali, senza il nostro lavoro, avrebbe mai potuto entrare Garibaldi in Napoli, città di mezzo milione di abitanti, con 4 castelli gremiti di truppe? Egli entrò solo in Napoli perché noi liberali, con un buon numero di ufficiali, glie ne aprimmo le porte"

    5) riguardo lo strozzamento dell’economia meridionale e la piemontesizzazione: nella seduta del 20 novembre 1861 (atto nr.234) il deputato di Casoria, Proto, duca di Maddaloni, propose il distacco dell’ex Regno di Napoli dal Regno d’Italia e accusò apertamente il governo piemontese di avere invaso e depredato il Napoletano e la Sicilia: "Intere famiglie veggonsi accattar l'elemosina; diminuito, anzi annullato il commercio; serrati i privati opifici. E frattanto tutto si fa venir dal Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per gli uffici e per le pubbliche amministrazioni. Non vi ha faccenda nella quale un onest'uomo possa buscarsi alcun ducato che non si chiami un piemontese a sbrigarla. Ai mercanti del Piemonte si danno le forniture più lucrose: burocrati di Piemonte occupano tutti i pubblici uffizi, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocrati napoletani. Anche a fabbricar le ferrovie si mandano operai piemontesi i quali oltraggiosamente pagansi il doppio che i napoletani. A facchini della dogana, a camerieri, a birri vengono uomini del Piemonte. Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra di conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le provincie meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perù e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala". La presidenza della Camera invitò il deputato a ritirare la sua mozione ed egli il giorno successivo per protesta rassegnò le dimissioni. Il 4 dicembre il deputato Ricciardi (atto nr.340) insiste sull’argomento: "Due sono le principali piaghe di quelle provincie (…) la piaga morale è l’offesa profonda recata a sette milioni d’uomini (…) un paese che per otto nove secoli è stato autonomo, ad un tratto ridotto a provincia, un paese che vede distrutte per via di decreti le sue antiche leggi, le sue antiche istituzioni certamente non può essere contento. Aggiungete la invasione d’impiegati non nativi del paese i quali non sono veduti troppo di buon occhio (…) quanto alla piaga materiale la miseria è grandissima (…) e poi, e io ve la dico schietta, da Torino non si governa l’Italia, da Torino non si regge Napoli: questa è la mia convinzione profonda; in questo sta la radice di tutti i nostri mali" Il 20 dicembre il deputato San Donato (atto nr.340): "Tutti gli impiegati che da Torino si sono mandati a Napoli non solo sono stati promossi di soldo, ma si è loro accordata, sul tesoro napoletano, due, tre, sino quattrocento franchi al mese di indennità, mentre ai Napoletani traslocati in Torino nulla si è dato non solo, ma lo sono stati con gradi e soldi inferiori a quelli che lasciavano in Napoli". Nella stessa seduta il deputato Pisanelli: " Non vi è istituzione pubblica, collegi, università, amministrazione, educandati ecc. ecc., a Napoli, che non sieno stati sciolti, unicamente perché non avevano i regolamenti piemontesi. Il ministro della Marina signor Menabrea ha invitato 43 nobili padri di famiglia a ritirare dal collegio di marina i loro ragazzi (che essi vi tenevano da tre o quattro anni messi al tempo dei Borboni), unicamente perché gli è piaciuto dire che questi erano entrati nel 1858 quando a Napoli non vi erano regolamenti piemontesi ". Il 2 febbraio 1867 il conte Ricciardi, eletto a Foggia, e uno dei più tenaci difensori degli interessi del Sud si dimette da deputato, così motivando: "Dopo sei anni di lotta mi persuasi che l’opera mia in Parlamento si riduceva ormai ad un inutile sfogo (…) una opposizione divisa e acefala (…) una maggioranza impotente al bene (…) il governo di nulla di grande e fruttifero mostrasi iniziatore. Continuando io alla Camera mi assumerei una responsabilità tristissima; meglio sarammi tornare all’antico ufficio di scrittore, più umile, ma certo più utile, consolandomi alquanto dè mali di cui sono testimone, di aver fatto ogni sforzo per evitarli ". Più tardi un unitarista convinto come Giustino Fortunato, nella lettera a Pasquale Villari n. 89 del 2 settembre 1899, scrive: "L’unità d’Italia (...) è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali". Gli fece eco Gaetano Salvemini (1900): "Se dall’unità d’Italia il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata (…) è caduta in una crisi che ha tolto il pane a migliaia e migliaia di persone". Sempre Fortunato in un’altra lettera del 1923 diretta a Benedetto Croce scriveva (38): "Non disdico il mio "unitarismo". Ho modificato soltanto il mio giudizio sugli industriali del nord. Sono dei porci più porci dei maggiori porci nostri. E la mia visione pessimistica è completa".

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    Note al capitolo 11:

    1-2. La Civiltà Cattolica, serie IV, vol. IX, pag. 304 torna all'indice

    3. La fortezza di Fenestrelle, nella Val Chisone, è abbarbicata ad un costone del monte Orsiera (metri 2893), può nevicarci anche a giugno. È composta da un imponente sistema difensivo costituito dal forte San Carlo, forte Tre Denti, forte Elmo e forte delle Valli, collegati fra loro da una scala coperta di 3996 gradini; per la sua costruzione occorsero quasi due secoli. Come riferisce la guida agli esterrefatti visitatori, di qui nessuno poté mai evadere: la vita nella fortezza, anche per i più robusti, non superava i pochi mesi, si usciva solo per essere disciolti, per motivi "igienici", in una gran vasca di calce viva. torna all'indice

    4. Lorenzo del Boca " Maledetti Savoia", ed. Piemme, 1998, pag.146 torna all'indice

    5. Fulvio Izzo, op. cit, modif. torna all'indice

    6. Brigantaggio Meridionale , Capone editore, 1987 torna all'indice

    7. definizione dello storico Gordon Brook-Shepherd, "Il tramonto delle monarchie", Rizzoli ,1989 torna all'indice

    8. Mario Pacelli, op. cit. torna all'indice

    9. Umberto Pontone in "Due Sicilie" del marzo-aprile 2003 torna all'indice

    10. Mario Pacelli, op. cit. torna all'indice

    11. La maggior parte delle informazioni è tratta dal libro "Le leggi sugli usi e demani civici" di Lorenzo Ratto, Roma, 1909 torna al testo

    12. Michele Vocino, "I primati di Napol ", Mele torna al testo

    13. aumentati a 6 dopo il 20 settembre 1870 (Banca Romana), e poi ridotti a tre nel 1893: Banca d'Italia, Banco di Napoli e Banco di Sicilia torna al testo

    14. i dati successivi sono tratti da "l'Italia economica nel 1873, Pubblicazione Ufficiale", Roma, Barbera, 1874 (II ed.riveduta) che ripercorre tutto il cammino del bilancio dello Stato dall'Unità in poi; riportata da Aldo Alessandro Mola in "L'economia italiana dopo l'unità", Paravia, Torino, 1971, pagg. 12 e segg. torna al testo

    15. "L'unità truffaldina", op. cit.; nei bilanci dell'infelice unificazione nazionale, a rigor di termini la cifra totale non va computata come passività valutaria del Piemonte unificato ereditata dall'Italia. Infatti, essa fu pagata dai piemontesi, con la fuoruscita d'oro e d'argento, nel corso dell'improvvido decennio cavouriano. Al passivo, però, bisogna scrivere la stessa cifra, quale vuoto di numerario colmato in tutto, o forse solo in parte, con il numerario apportato all'economia sabauda dagli altri italiani. torna al testo

    16. Nicola Zitara, op. cit. torna al testo

    17. Francesco Saverio Nitti, Scienze delle Finanze, Pierro, 1903, p.292 torna al testo

    18. Ò Clery, op. cit. (valore espresso in lire, la valuta meridionale era il ducato equivalente a 4,25 lire, N.d.A.) torna al testo

    19. G. Savarese, " Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860", Cardamone, 1862, p.28. torna al testo

    20. Nítti F. S., Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-97, Napoli 1900., p. 107. Anche per l'imposta sui fabbricati il Sud era più gravato (Nitti, op. cit., p. 80). torna al testo

    21. Carono-Donvito G., op. cit., p. 154. Sul modo con cui funzionava l'imposta v. Plebano A., Storia della finanza italiana nei Primi quaranta anni dell'indipendenza, Padova, 1960, pp. 95-96. L'imposta non era sul reddito, ma si stabiliva, secondo certi parametri, su base regionale. torna al testo

    22. Nitti F. S., op. cit., p. 141. torna al testo

    23. Carano-Donvito G., op. cit., p. 165 sgg., dove si nota che Puglia e Basilicata hanno dato all'erario più di Lombardia, Veneto e Liguria messi assieme torna al testo

    24. Luzzatto G., L’economia italiana dal 1861 al 1894 (Torino 1968), p. 172. torna al testo

    25. Lorenzo Del Boca, op. cit. torna al testo

    26. dati compresi tra il 1861 e il 1873 ripresi da Alessendro Mola op. cit. torna al testo

    27. Carano - Convito, " L’economia italiana prima e dopo il Risorgimento", Firenze, 1928, pag. 180 torna al testo

    28. Nitti F. S., Il bilancio dello stato dal 1862 al 1896-97, Napoli 1900, p. 294; i dati riguardano il periodo 1862-97. torna al testo

    29-30-31-32. Nitti F. S., Il bilancio cit., p. 268, pp. 254-5, p. 367 nota I, p. 300 torna al testo

    33. Carano-Donvito G., op. cit., p. 179. torna al testo

    34. Tommaso Pedìo, "L’economia delle Province napoletane a metà dell’800", Capone, 1984, modif. torna al testo

    35. da una lettera di Nitti del 5 luglio 1898 a Giuseppe Colombo, direttore del Politecnico di Milano in C.G.Lacaita, Nitti e Colombo: carteggio inedito 1896-1919 in " Rivista Milanese di Economia", n.5 ( gennaio-marzo 1983), pag.126 torna al testo

    36. L.Radogna, op. cit. torna al testo

    37. tratte dal periodico "Due Sicilie" del marzo 2002, sono il risultato di uno studio di Sator di Ortona sugli Atti parlamentari ufficiali torna al testo

    38. lettera n.58 del 14 giugno 1923 torna al testo

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    12. La Resistenza nelle Due Sicilie

    I briganti e i "reazionari"

    "Quelli che hanno chiamato i Piemontesi e che hanno consegnato loro il regno della Due Sicilie sono un’impercettibile minoranza. I sintomi della reazione si trovano dovunque" (1). La mistificazione storica, sopravvissuta fino ad oggi, ha fatto sì che le popolazioni meridionali (contadini, pastori da una parte; intellettuali e notabili dall’altra), contrarie a quanto era stato loro imposto con la forza, siano state spogliate delle loro vere motivazioni alla resistenza e marchiate rispettivamente con gli appellativi di "briganti" e "reazionari"; si nascosero con tutti i mezzi le vere ragioni, economiche e ideali, di quella che rimane la più lunga insurrezione dei popoli meridionali contro quello che essi consideravano lo straniero invasore. Per quanto riguarda i cosiddetti "briganti" essi furono soprattutto espressione della popolazione rurale (contadini e pastori) che abitava i grossi e piccoli centri urbani e che si sentì defraudata dal nuovo ordine sociale; scriveva Carlo Dotto de Dauli nel 1877: "Il brigante è, nella maggior parte dei casi, un povero agricoltore e pastore di tempra meno fiacca e servile degli altri che si ribella alle ingiustizie e ai soprusi dei potenti e, perduta ogni fiducia nella giustizia dello Stato, si getta alla campagna e cimenta la vita, anelando vendicarsi della Società che lo ridusse a quell’estremo" (2). Infatti, appena dopo il passaggio di Garibaldi, i comitati liberali composti dai ricchi borghesi e dai massoni, ferventi "unitaristi", s’impossessarono delle amministrazioni comunali e delle relative casse, misero mano ai documenti relativi alle assegnazioni degli usi civici, ne delinearono la consistenza e li misero all’asta; fu così che il patrimonio rurale passò velocemente nelle loro tasche; ai contadini rimasero due possibilità, come disse il Fortunato, "o brigante o emigrante". "Negli anni ’60 del secolo scorso nel Mezzogiorno c’era la guerra, e una guerra feroce, senza leggi internazionali da rispettare, senza prigionieri, senza trincea e retrovia. Dei due eserciti, quello "vero", con le divise in ordine e gli ufficiali usciti dalla scuola militare di Torino se ne stava di presidio nei paesi, isolato come se fosse nel cuore dell’Africa, fra gente che aveva lingua e costumi incomprensibili e quasi sempre un figlio o un fratello fra le montagne a tenere testa agli "invasori". Ogni tanto il presidio veniva a sapere di qualche "reazione agraria" di qualche "ribellione borbonica" e accorreva di zona in zona, sulle poche strade conosciute, a reprimere le rivolte, dai boschi e dalle montagne scendeva allora ad affrontarlo l’esercito silenzioso dei briganti. Nei paesi, infatti, si rinnovavano qua e là gli incendi dei municipi e degli uffici del catasto ("gli eterni nemici nostri" li chiamava il brigante Crocco), nonché i saccheggi delle case dei "galantuomini", noti come usurpatori delle terre demaniali; si abbattevano gli stemmi sabaudi e le immagini di Vittorio Emanuele e Garibaldi, s’issava il vessillo borbonico e si restauravano nuove effimere amministrazioni che rendevano obbedienza all’esiliato Francesco II, re delle Due Sicilie. I possidenti scappavano verso le zone presidiate dall’esercito piemontese e quando i bersaglieri rioccupavano i paesi "reazionari" rientravano con essi; tutto finiva con la restaurazione dei simboli dei Savoia, con l’incendio dei quartieri più poveri e con la fucilazione in piazza dei briganti presi prigionieri: uomini dai volti chiusi dalle grandi barbe, da vestiti fatti di pelli. Così in definitiva il nuovo governo piemontese si configurava agli occhi dei meridionali da una parte come quello dello stato d’assedio e del terrore anticontadino e, dall’altra, come un solido appoggio ai nuovi ricchi liberali che avevano lucrato dall’illegale acquisto delle terre di pubblica proprietà dove i contadini, come abbiamo già visto, avevano fino ad allora esercitato estesamente gli usi civici" (3). Una delle tante anime del brigantaggio era la componente religiosa, sottolinea De Jaco (4) che "i briganti erano religiosissimi, avevano dei cappellani nelle bande e dei santi protettori per le bandiere (in generale i santi del loro paese di origine), (…) si ornavano il collo e i polsi di amuleti, di madonne, di corone, ostie consacrate, santini, la sera recitavano in comune il rosario. L’orrore, in fondo, dominava il cuore di questi uomini; l’orrore di una quasi certa fine, in combattimento o per tradimento, nella selva o fucilati in piazza. Il loro effettivo coraggio era quello più difficile a conquistarsi: il coraggio di chi non ha speranza alcuna per sé, per la propria gente, per i paesi miserabili dai quali è fuggito nei boschi". Frati e sacerdoti furono presenti in gran numero nelle schiere degli insorgenti, sebbene fossero passati per le armi in caso di cattura. I vescovi, benché spesso scacciati dalle loro sedi come avvenne all’arcivescovo di Napoli, Sisto Riario Sforza, sostennero efficacemente l’insurrezione, promulgando pastorali di tono antiunitario e ribadendo le proteste e le scomuniche provenienti dalla Santa Sede.

    L’invasore piemontese era considerato un nemico della religione ed il popolo ne aveva prova tangibile nelle numerose profanazioni di luoghi sacri effettuate dai soldati piemontesi. Le classi superiori, a loro volta, non potevano ignorare la sistematica guerra del Regno di Sardegna al potere temporale della Chiesa iniziata nel 1848 con la cacciata dei gesuiti, proseguita con le leggi Siccardi del 1850 che sopprimevano alcuni privilegi ecclesiastici (il diritto di asilo che godevano i luoghi sacri, il foro ecclesiastico che giudicava i religiosi accusati di reati comuni, la censura ecclesiastica), inasprita con la legge per la soppressione di alcuni ordini religiosi del 1855 (e culminata, il 7 luglio del 1866, con l’abolizione di tutti gli ordini e la confisca dei loro beni frutto in gran parte delle donazioni dei credenti; con la legge del 19 giugno 1873 questo provvedimento fu esteso anche a Roma). Non meno importante fu la "resistenza non armata", la resistenza civile, bollata come "reazionaria", che si presenta con forme molto articolate e coinvolge tutta la società meridionale del tempo come risulta dagli atti dei processi celebrati dalle corti civili a Napoli; ne offrono testimonianza l’opposizione condotta a livello parlamentare, le proteste della magistratura che vede cancellate le sue gloriose e secolari tradizioni, la resistenza passiva dei dipendenti pubblici, il malcontento della popolazione cittadina, l’astensione dai suffragi elettorali (già il 19 maggio del 1861, in occasione delle elezioni amministrative, votò a Napoli meno di un terzo degli aventi diritto), il rifiuto della coscrizione obbligatoria, la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori pubblicisti del regno, fra cui emerge Giacinto de' Sivo. Le numerose pubblicazioni antiunitarie avevano generalmente vita breve perché erano sottoposte a sequestro e i loro autori a minacce fisiche o al carcere, segno evidente che la "libertà di stampa", sancita dallo Statuto Albertino, non valeva per la stampa di opposizione ma solo per quella di regime; i redattori di questi giornali passavano di rivista in rivista, a mano a mano che queste chiudevano per forza maggiore, diventando professionisti di un giornalismo militante, semiclandestino e quasi avventuroso; questa pubblicistica di opposizione fu molto attiva per tutti gli anni sessanta, poi la stampa autonomistica ed antiunitaria perse gran parte del suo furore anche a causa della caduta di Roma del 1870. Infine ricordiamo la componente legittimista della reazione, il partito borbonico, che pur non raggiungendo l’obiettivo fondamentale di riportare la dinastia legittima sul trono, riuscì per anni ad aggregare quasi tutte le componenti sociali intorno a un sentimento patriottico e nazionale; molti soldati delle milizie borboniche, rifiutando l’arruolamento nel nuovo esercito italiano e il giuramento al nuovo Re, si ponevano l’obiettivo di restaurare Francesco II; spesso essi si davano alla macchia e si univano agli insorgenti anche perché respinti dalla " società civile ", già prona ai voleri dei conquistatori piemontesi; con loro si aggregarono addirittura ex garibaldini, delusi dalla piega che avevano preso gli avvenimenti. Inoltre alcuni rappresentanti della nobiltà lealista europea accorsero dal re in esilio nella difesa "per il trono e l’altare", "per la fede e la gloria", e già durante l’assedio di Gaeta si erano visti francesi, belgi, austriaci, sassoni e anche qualche americano; il loro contributo fu però marginale poiché i "briganti", contadini e pastori in massima parte , non avevano una "cultura militare" tale da accettare le direttive di questi soldati stranieri che non riuscirono ad inquadrarli in formazioni paramilitari né tanto meno a coordinarne le azioni sotto un comando unico; ben noto è il contrasto tra Carmine Crocco e lo spagnolo Borges che, anche per questo motivo, abbandonò la partita, cercò di raggiungere Roma ma fu preso dai piemontesi a pochi chilometri dal confine e fucilato a Tagliacozzo l’8 dicembre del 1861.

    Nei primi mesi del 1861, quando le ultime piazzeforti borboniche, Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, si arresero dopo un strenua quanto disconosciuta resistenza, l’opposizione lealista continuava ad avere radici ben salde nel regno; a Napoli, l’ex-capitale travagliata da una grave crisi economica, agiva la propaganda dell’agguerrito comitato borbonico della città che riuscì a organizzare una manifestazione pubblica a favore della deposta dinastia. Nel mese di aprile 1861 fu sventata una cospirazione antiunitaria ed arrestate oltre 600 persone, fra cui 466 ufficiali e soldati dell’esercito napoletano ed il duca di Caianello, trovato in possesso di una lettera di Francesco II. La strategia della resistenza borbonica mirava a mostrare la fragilità del potere dell’usurpatore e a tenere desta l’attenzione degli Stati europei nella speranza di sviluppi internazionali sulla questione italiana che potessero determinare un intervento armato o almeno diplomatico dell’Austria o delle altre potenze europee. Francesco II, però, non ebbe la capacità di essere capo militare e politico, di centralizzare e dirigere il movimento di restaurazione in modo coerente e credibile. Suo zio Francesco, conte di Trapani, aveva fondato la cosiddetta "Associazione religiosa" che in realtà era la "Centrale" del movimento partigiano, e di essa facevano parte alcuni ufficiali fedeli al monarca meridionale (Ulloa, Bosco, Statella, Clary, Vial); essi provvedevano all’acquisto di armi, alla distribuzione di fondi per i "briganti" e all’elaborazione di piani di riconquista. Non ci furono mai problemi di reclutamento di uomini fedeli alla causa, mancava però il denaro perché il patrimonio personale di Francesco II era stato saccheggiato dai garibaldini; per sostenere la loro causa i lealisti arrivarono a coniare nuove monete meridionali recanti la data del 1859, opportunamente annerite. Il re, spinto dall’indomabile regina Maria Sofia, fece pervenire ai suoi rappresentanti diplomatici all’estero alcune note in cui manifestava il proposito di mettersi alla testa dei suoi sudditi per restituire l’indipendenza alle Due Sicilie ma il momento favorevole non venne mai ed egli sprofondò in un cupo fatalismo anche perché le potenze europee riconobbero, una dopo l’altra, il nuovo regno d’Italia (l’ultima fu la Spagna il 1° giugno 1865) così egli rimase sempre più solo; dal 1866 nessun diplomatico straniero mise più piede a palazzo Farnese, residenza del Re a Roma, eccezion fatta per l’austriaco Hubner. Lo stesso anno, all’approssimarsi della guerra tra il nuovo regno d’Italia e l’Austria, Francesco II diede ulteriore prova della sua nobiltà d’animo (che peraltro, per i tempi correnti, fu un difetto più che un pregio in relazione alla difesa dei diritti dei cittadini del Sud); egli infatti, scontentando gli oltranzisti della sua corte, che vedevano finalmente l’occasione tanto attesa per riprendere il regno, scoraggiò un’ulteriore e definitiva insurrezione auspicando la concordia e la tranquillità. L’anno successivo, nel 1867 Francesco II sciolse il governo borbonico in esilio.

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    La Repressione

    Scrisse Antonio Gramsci (5) "Lo stato italiano [leggasi sabaudo] è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti". Le forze in campo erano: l’esercito piemontese (divenuto "italiano" dal 4 maggio 1861) che nel 1862 arrivò a schierare nel Sud 120.000 uomini, metà della forza complessiva, e più precisamente: 52 reggimenti di fanteria; 10 reggimenti di Granatieri; 5 reggimenti di cavalleria; 19 battaglioni di bersaglieri. I Piemontesi disponevano inoltre di circa 8 mila carabinieri, coadiuvati da 84 mila militi della Guardia Nazionale. A tale imponente forza di repressione si opponevano i guerriglieri ("briganti") meridionali, male equipaggiati e divisi in 488 bande (in tutto 80.000 uomini), chiamate "comitive" che contavano dai 10 ai 500 combattenti: la mancanza di un’unità d’azione impedì, di fatto, la loro vittoria finale (6). A causa del loro spirito "anarcoide", i Briganti non gradirono la guida dei militari lealisti, né mantennero il coordinamento tra le azioni. Un esempio per tutti fu il fallimento dell’alleanza tra Pasquale Domenico Romano, "Enrico la Morte" e Carmine Crocco per la riconquista della Puglia. Scrive De Jaco (7): "Già nel novembre del 1860, pochi giorni dopo l’incontro di Teano tra re Vittorio e Garibaldi, sui muri dei paesi intorno Avezzano era stato affisso un proclama [tra i primi di una lunga e tragica serie] del generale piemontese Pinelli che ordinava: "1) chiunque sarà colto con arma da fuoco, coltello, stili od altra arma qualunque da taglio o da punta e non potrà giustificare di essere autorizzato dalle autorità costituite sarà fucilato immediatamente [ognuno di noi sa che tutti i contadini possiedono almeno una di queste "armi"]; 2) chiunque verrà riconosciuto di aver con parole o con denari o con altri mezzi eccitato i villici a insorgere sarà fucilato immediatamente; 3) eguale pena sarà applicata a coloro che con parole od atti insultassero lo stemma dei Savoia, il ritratto del Re o la bandiera italiana. Abitanti dell’Abruzzo Ulteriore, ascoltate chi vi parla da amico. Deponete le armi, rientrate tranquilli nei vostri focolari, senza di che state certi che tardo o tosto sarete distrutti" [Pinelli fu decorato dai Savoia, con medaglia d’oro al valore, per la campagna contro il brigantaggio]. In seguito, giacché si era sparsa per l’Europa la notizia che nel sud d’Italia stava avvenendo un massacro, il governo inviò l’ordine di fucilare solo i capi e di mettere in carcere in attesa di processo gli altri. Le cose non cambiarono di molto. Narra infatti il generale Enrico Della Rocca (responsabile del massacro di Scurgola con 117 vittime) "ma i miei comandanti di distaccamento che avevano riconosciuta la necessità dei primi provvedimenti, in certe regioni dove non era possibile governare se non incutendo terrore, volendosi arrivare l’ordine di fucilare soltanto i capi telegrafavano con questa formula: "arrestati, armi alle mani, nel luogo tale tre, quattro, cinque capi di briganti" e io rispondevo: fucilate!". Nel luglio 1861 Enrico Cialdini, già a capo di tutte le forze di repressione, assommò su di sé anche la carica civile di luogotenente diventando di fatto il responsabile unico delle sorti del Mezzogiorno; la situazione era veramente preoccupante con i guerriglieri che operavano non solo sui monti e le pianure ma persino alle porte di Napoli e Cialdini arrivò a promettere 25 lire di ricompensa a chi catturava un " ribelle "; lo stesso generale, per sicurezza, spesso dormiva di notte su una fregata; così scrisse al primo ministro Ricasoli: "Il nostro governo in queste provincie è debolissimo (…) non ha altri partigiani sicuri che i battaglioni di cui dispongo" (8). Abolito l’istituto della luogotenenza, a lui successe, nell’ottobre 1861, il generale La Marmora che assommò su di sé la carica di prefetto di Napoli e il comando militare della repressione del brigantaggio. Vittorio Emanuele II fu così impressionato dalla veemenza della resistenza meridionale che nell’agosto del 1862 decretò lo stato d’assedio. In tal modo nel Sud l’autorità militare diveniva superiore a quella civile (La Marmora ordinò ai procuratori di "non porre in libertà nessuno dei detenuti senza l'assenso dell'esercito"). Nel 1863 il re pensò di abbandonare le terre appena conquistate ma le motivazioni economiche ebbero il sopravvento, con la conseguenza che la repressione si fece sempre più dura. Fu promulgata la legge Pica (che rimase operativa fino al 1865) la quale aboliva qualsiasi garanzia costituzionale; in virtù di essa furono insediati otto speciali Tribunali militari, i collegi di difesa vennero assegnati agli ufficiali e si abolirono i tre gradi di giudizio che erano operativi nell’altra parte d’Italia. Le condanne erano inappellabili e variavano dalla fucilazione ai lavori forzati (spesso a vita). Venne stabilito il reato "generico" di brigantaggio in virtù del quale ogni sentenza era legittima .

    Nel Sud si assistette a migliaia di episodi di guerriglia; la resistenza fu molto accesa nei primi cinque anni dalla unificazione forzata e durò fino al 1872; nessun fenomeno "delinquenziale" può durare così a lungo in presenza di oltre centomila uomini deputati alla sua repressione. Furono distrutti dai Piemontesi 51 paesi alcuni dei quali non sono più stati ricostruiti; simboli di tanta tragedia ricordiamo Pontelandolfo e Casalduni, due paesi del Sannio che si erano ribellati e dove erano stati uccisi alcuni "galantuomini" e 41 soldati italiani che erano stati mandati a reprimere la rivolta; il 14 agosto 1861 alle quattro di mattina arrivarono 400 bersaglieri al comando del colonnello Pier Eleonoro Negri, circondarono i paesi per impedire ogni via di fuga e li dettero alle fiamme, cominciò allora il massacro dei civili inermi che tentavano di scappare mentre i responsabili della rivolta erano già al sicuro sulle montagne; solo tre case rimasero in piedi, al suolo 900 civili uccisi; il colonnello Negri terminò la sua carriera 26 anni dopo con la Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia. Il bilancio finale delle vittime fu drammatico, le cifre totali non sono concordi ma si parla di decine di migliaia di "briganti" uccisi ai quali vanno aggiunti i caduti dell’esercito italiano che furono più numerosi di tutti i soldati persi dal regno sabaudo nelle guerre contro l’Austria. Dalle ricerche di Alessandro Romano (9) ricaviamo questi dati: guerriglieri ed oppositori politici uccisi o detenuti (1861-1872): caduti in combattimento:154.850; fucilati o morti in carcere: 111.520 ; totale perdite: 266.370. Le perdite "italiane": caduti in combattimento: 21.120; morti per malattie o ferite: 1.073; dispersi o disertori: 820; totale perdite: 23.013. L’efferatezza tipica di una guerra civile si palesò anche con gesti disumani come l’esposizione in pubblica piazza dei cadaveri insepolti dei briganti o delle loro teste mozzate e conservate in apposite teche trasparenti; scrive sempre De Jaco (10): "Col terrore i generali piemontesi cercavano di spezzare la solidarietà dei "cafoni" con i briganti. Ma il terrore non è stata mai arma sufficiente e valida per isolare i combattenti dalla popolazione che li sostiene; così le fucilazioni non liquidarono ma aumentarono la solidarietà popolare per le vittime. La leggenda che faceva dei briganti tanti eroi popolari, paladini e unica speranza dei miseri contro i prepotenti e ricchi, trovava così mille riprove e questa fama assumeva subito due volti opposti: il volto del giustiziere implacabile, per i pastori e le plebi, quello della belva feroce per i benestanti; erano i ricchi, infatti, ad aver paura dei rapimenti di persona con richiesta di relativo riscatto, dei saccheggi, dell’incendio delle messi, del taglio delle viti, delle uccisioni, mentre gli zappatori non avevano niente da perdere, anzi ottenevano dal brigante qualche protezione contro i mille soprusi e i patimenti di cui era piena la loro giornata".

    Riferisce Eduardo Spagnuolo (11): "Anche molti fiancheggiatori (i cosiddetti manutengoli) pagavano con la vita l’appoggio ai briganti. Andò meglio a Giuseppe Cassetta, d’anni 52, il quale, come leggiamo nella Sentenza del 9 febbraio 1865, in nome di sua Maestà Vittorio Emanuele II, per aver dato da mangiare a una "comitiva armata", e quindi colpevole di "complicità al brigantaggio", lo condanna a quindici anni di lavori forzati, all’interdizione dai pubblici ufficii, (…) cadute in confisca le palle di fucile e la zucca formanti corpo di reato ." Se la cavò a più buon mercato un contadino, tal Domenico Ressa, che il 9 gennaio 1861 fu incriminato di "pubblico discorso da eccitare lo sprezzo e il malcontento contro la sacra persona del Re", in realtà aveva gridato in pubblica piazza "Viva Francesco II !"; il 21 gennaio fu condannato per questo a sette mesi di carcere (12). Alcune volte le condanne assumono toni farseschi come quella di "lesa maestà" comminata ad Augusto Iatosti "perché, secondo l'accusa, avrebbe distribuito "grane cinque" ai contadini per farli gridare "Viva Francesco II" ed avrebbe imposto i nomi di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II a due cani di sua proprietà." (13).

    A quei tempi considerazioni che oggi definiremmo razziste erano pienamente legittimate dalla cultura e anche nei rapporti ufficiali gli abitanti del Sud erano paragonati a "incivili beduini", il Mezzogiorno d’Italia era paragonato all’Africa e Massimo d’Azeglio scriveva che "unirsi ai Napoletani è come andare a letto con un lebbroso", dove il termine "napoletano" era riferito a ogni abitante della "Bassa Italia". Il criminologo Cesare Lombroso effettuò misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di ottenere la prova scientifica che i Meridionali avevano una predisposizione innata per il crimine. Il governo piemontese sosteneva che il "brigantaggio" fosse un fenomeno limitato agli Abruzzi, all'area nei pressi della frontiera con lo Stato Pontificio e che non si trattasse di una rivolta spontanea, ma organizzata dai borbonici negli Stati papali, con la connivenza del governo romano, per turbare la pace del Paese e creare difficoltà al governo (solo tra il febbraio e il marzo del 1868 fu firmata a Cassino una convenzione tra lo Stato della Chiesa e il Regno d’Italia per l’estradizione dei briganti rifugiatisi nello stato pontificio). Tale tesi cadde in pezzi davanti all'evidenza delle rivolte che infiammarono tutto il Sud. Il sistema di violenze, massacri e spargimento di sangue non fu denunciato soltanto dai borbonici, anche fra i liberali del Parlamento di Torino vi furono uomini onesti e leali che dichiararono pubblicamente quanto era a loro conoscenza: "Non potete negare", affermava Giuseppe Ferrari nel dibattito del 29 aprile 1862, "che intere famiglie sono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno è fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi". Il 18 aprile 1863 il deputato Miceli, che aveva visto i massacri perpetrati dalle truppe in Calabria, dichiarava che gli uomini erano fucilati senza neppure uno straccio di processo, le sue dichiarazioni furono messe in dubbio dai sostenitori del governo ma a questo punto il generale Bixio, luogotenente di Garibaldi, e, pertanto, fiero nemico della reazione, si alzò per confermarle, dichiarando che quanto aveva affermato Miceli era vero e che poteva attestarlo per cognizione personale. "Un sistema di sangue", egli esclamò, "è stato stabilito nel Mezzogiorno d'Italia. Ebbene, non è col sangue che i mali esistenti saranno eliminati. C'è del vero in ciò che l'onorevole Miceli ha detto: è evidente che nel Mezzogiorno non si domanda che sangue, ma il Parlamento non può adottare gli stessi sistemi. C'è l'Italia, là, o signori, e se vorrete che l'Italia si compia, bisogna farla con la giustizia, e non con l'effusione del sangue". Nicotera, un altro garibaldino, parlò nel medesimo senso dei suoi colleghi Ferrari, Miceli e Bixio. "Il governo borbonico", egli disse, "aveva almeno il gran merito di preservare le nostre vite e le nostre sostanze, merito che l'attuale governo non può vantare. Le gesta alle quali assistiamo possono essere paragonate a quelle di Tamerlano, Gengis Khan e Attila". Citiamo infine le proteste inviate al governo italiano dall'imperatore Napoleone III, che il 21 luglio scriveva da Vichy al generale Fleury: "Ho scritto a Torino le mie rimostranze; i dettagli di cui veniamo a conoscenza sono tali da far ritenere che essi alieneranno tutti gli onesti dalla causa italiana. Non solo la miseria e l'anarchia sono al culmine, ma gli atti più colpevoli e indegni sono considerati normali espedienti: un generale, di cui non ricordo il nome, avendo proibito ai contadini di portare scorte di cibo quando si recano al lavoro nei campi, ha decretato che siano fucilati tutti coloro che sono trovati in possesso di un pezzo di pane. I Borboni non hanno mai fatto cose simili. Firmato: Napoleone". Documenti simili sono incontrovertibili, poiché provengono dagli stessi uomini che, per primi, hanno creato la cosiddetta unità d'Italia ".

    Le carceri erano strapiene di decine di migliaia di detenuti politici che versavano in condizioni disastrose " L'On. Ricciardi con un suo intervento, nella tornata parlamentare del 18 e 20 aprile 1863, affronta il problema generale sia dello stato disumano delle carceri, che del lento corso della giustizia e dell’arbitrio delle forze di polizia e porta a conoscenza dell'Assemblea dati di fatto incontrovertibili. Solo a Palermo imputridiscono "seminudi e tra vermi" 1.400 prigionieri; alla Vicaria di Napoli sono stipati ben 1.000 " I più fra questi non sono stati neppure interrogati, e giacciono poi tutti in carceri orribili tanto quanto le carceri di Palermo. Alcuni si trovano imprigionati da 22 mesi! Santa Maria Apparente è una villeggiatura in confronto di tutte le altre che ho visitate [...] Il pane che si da ai carcerati è tale che io non l'augurerei al conte Ugolino [...] La vita e la libertà dei nostri concittadini dipende dal capriccio di un capitano, di un luogotenente, di un sergente, di un caporale". Il perché di questo elevatissimo numero di prigionieri è attribuito dal Ricciardi a tre cause fondamentali: "la leggerezza veramente colpevole con cui si procede agli arresti, da un lato dalla Polizia, dall'altro dall'autorità militare; la lentezza, che chiamerò forzosa, dell'istruzione di tanti processi, stante il piccolo numero d'istruttori; citerò in 3° luogo il doversi per piccoli reati aspettare il giudizio delle Corti d’Assise, anziché quello dei Giudici di Mandamento o dei tribunali dei circondari." (14).

    Le condizioni delle carceri sotto il governo piemontese furono oggetto di discussione anche al parlamento inglese. Lord Henry Lennox, reduce del suo viaggio nelle province napoletane, riferì nella seduta dell'8 maggio 1863 (15): "Sento il debito di protestare contro questo sistema. Non mi curo se fatti tenebrosi come questi abbiano avuto luogo sotto il dispotismo di un Borbone, o sotto lo pseudo liberalismo di un Vittorio Emanuele. Ciò che è chiamata unità italiana deve principalmente la sua esistenza alla protezione e all'aiuto morale dell'Inghilterra - deve più a questa che non a Garibaldi, che non agli eserciti stessi vittoriosi della Francia - e però, in nome dell'Inghilterra, denuncio tali barbare atrocità, e protesto contro l'egida della libera Inghilterra così prostituita".

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    L’emigrazione, la diaspora meridionale

    Fu una delle più grandi ondate migratorie di tutti i tempi: alle popolazioni meridionali, sconfitte e colonizzate altro non rimaneva che battere la via dell’oceano: "Partetemmo pè mmare, eravamo sciumme!" [partimmo per mare ed eravamo un fiume]. I porti di Napoli e Palermo diventarono i più grandi centri di espatrio dei Meridionali, (Genova lo fu per i Settentrionali). Pasquale D’Angelo così descriveva il suo commiato dalla madre: "Mi gettò le braccia al collo singhiozzando e mi strinse a sé. Serrato nel buio di quell’abbraccio stretto, chiusi gli occhi e piansi. Piangevamo entrambi, fermi sui gradini, ed ella mi baciava e ribaciava le labbra. Sentivo le sue lacrime calde irrigarmi il volto. "Tornerò presto", le dicevo singhiozzando "Tornerò presto". Ma non fu così. I timori della mamma presagivano la verità. Non ritornai più. Mi strinse ancora fra le braccia, quasi volesse farmi addormentare sul suo petto. E tornò a baciarmi. Così rimanemmo a lungo finché su di noi discese una gran pace" (16). Disse lo statista lucano Nitti: "Io vorrei fare, io farò forse un giorno una carta del brigantaggio e una dell’emigrazione, e l’una e l’altra si completeranno e si potrà vedere quali siano le cause di entrambi (…) la miseria non ha ucciso le intime energie della razza, l’anima essenziale della stirpe; il brigante e l’emigrante con la rivolta e l’esodo sono la prova di una mirabile forza espansiva. "Che cosa farai?" io chiedeva al vecchio contadino che partiva, "Chi lo sa!" egli mi rispondeva; non chiedeva nulla, non voleva nulla, andava a lottare, a soffrire: aspirava alla sazietà. In altri tempi sarebbe stato brigante o complice; ora andava a portare la sua forza di lavoro, il suo misticismo doloroso nella terra lontana, a costituire forse con i suoi compagni quella che dovrà essere la nuova Italia ." (17). Gli emigranti arrivavano sulla costa orientale degli Stati Uniti dopo trenta giorni di navigazione a vapore (prevalentemente in terza classe), terre "assai luntane" di cui ignoravano la lingua. La maggior parte di loro non aveva mai vissuto in una grande città e l’85% dichiarava all’ufficio dell’immigrazione di essere agricoltore. Nonostante ciò, presto si trasformarono in operai, minatori o ferrovieri (le strade ferrate erano in rapidissima espansione). Essendo privi di denaro non riuscivano infatti ad acquistare le terre che le leggi fondiarie americane mettevano a disposizione a buon mercato. Inoltre "nel decennio 1870-1880 le retribuzioni offerte dalle fabbriche e dalle miniere superarono quelle offerte dalla media azienda agricola americana" (18). Alcuni emigrati si adattarono ai lavori più disparati, compresi i più umili, che però rendevano, come salario, il triplo di quello d’Italia, con un costo della vita solo di poco superiore. Ma le origini non si dimenticavano! Dopo qualche anno infatti, un buon numero di loro lasciò le grandi metropoli della costa orientale americana e fece il gran salto verso le terre sconfinate del Far West, perché "la cosa di cui gli italiani più si struggevano era di diventare padroni del loro pezzetto di terra e della loro casa. Diventare proprietario di terra significava dare la prova del proprio valore. Non c’era sacrificio troppo grave per uno scopo simile. Frugale all’eccesso, l’italiano non sprecava niente (si diceva che "risparmiavano religiosamente il denaro") (…) sa vivere di tanto poco che chiunque, salvo forse il cinese, morirebbe di fame (…) quando l’italiano acquista un pezzo di terreno incolto, impiega il suo tempo a zapparlo e a prepararlo per la coltura (…) tutta la sua famiglia lavora spesso da mattina a sera e per parecchie ore della notte (…) paga in contanti lo scavo della cantina e la pompa per l’acqua, e al costruttore che gli tirerà su la casa dà una o più cambiali". Il sogno della terra, coltivato in Patria per secoli, finalmente diventava realtà e con esso arrivava il benessere tanto che i meridionali riuscivano, insieme ai "pacchi alimentari e di vestiario", ad inviare in Italia parte dei risparmi per aiutare le famiglie di origine. "Il successo è così normale, fra gli italiani, che pochi sono quelli che non hanno un conto in banca e non mandano regolarmente del denaro in Italia". L'emigrazione non fu, quindi, solo una valvola di sfogo per l'eccesso di lavoratori, ma anche un preziosissimo strumento per lo Stato italiano per rastrellare valuta pregiata. Si trattò di cifre enormi: due miliardi di lire all'anno dal 1896 al 1900, più di quattro miliardi all'anno dal 1909 al 1914. Molti emigrati giunsero in vetta: citiamo i fratelli Di Giorgio che diventarono i più grandi distributori di frutta del mondo. Ricordiamo Amedeo Pietro Giannini che da venditore ambulante e possessore di un primo "banco" formato da un asse poggiato su due barili, conquistò la fiducia di piccoli risparmiatori fornendo prestiti a bassi interessi. La Bank of Italy di Giannini divenne prima l’istituto più grande della California, poi degli Stati Uniti ed infine del mondo sotto il nuovo nome di Bank of America. Anche in politica gli italiani fecero strada e ci furono momento in cui i sindaci delle principali città delle due sponde degli Stati Uniti (S.Francisco e New York) erano emigranti della Penisola.

    Non era, però, tutto rose e fiori perché il successo degli immigrati italiani era inevitabilmente destinato ad alimentare i rancori degli americani "indigeni" e delle altre nazionalità emigrate in America; ci furono molti episodi di violenza xenofoba e alla fine si costruì lo stereotipo dell'Italiano mafioso. "La massima parte degli italiani detestava e respingeva con sdegno questa immeritata nomea, di cui ben presto gli Al Capone e i Lucky Luciano li avrebbero bollati. I molti immigranti onesti e ossequienti alla legge consideravano i sindacati della violenza come un prodotto degli slum americani (…) l’americano medio non si rese mai conto del fatto che la percentuale di condanne per cause criminali fra gli immigrati italiani degli Stati Uniti era e rimase a lungo suppergiù eguale a quella degli altri gruppi nazionali e addirittura inferiore a quella dei "nativi". Ciò non impedì che i delitti commessi dagli italiani ricevessero particolare pubblicità da parte della stampa. In qualche modo gli italiani e soprattutto i meridionali, sembravano più "drammatici" nel commettere i loro delitti, e così evocavano lo spauracchio dell’italiano assetato di vendetta e di sangue". Le differenze somatiche, di usi e costumi tra gli emigranti italiani provenienti dalle varie regioni della Penisola erano marcatissime "Fra italiani del Nord e italiani del Sud continuavano a manifestarsi secolari e non sopiti conflitti (…) agli italiani del Nord non piaceva che l’immagine dell’italiano tipico, che andava formandosi nella mente degli americani, corrispondesse a quella dell’italiano del Sud, piccolo e bruno (…) e l’italiano del Sud, che si vedeva trattato con alterigia dall’italiano del Nord, lo chiamava tight (spilorcio), e mean (meschino e con la puzza sotto il naso) (…) La United States Immigration Commission era solita tenere distinte le cifre degli immigrati del Nord e del Sud d’Italia, mentre non usava fare altrettanto per nessuna delle altre nazionalità ". Per quanto riguarda il numero degli emigrati, sebbene vi siano dati ufficiali solo a partire dal 1875, le tabelle Nitti ci offrono, comunque, per il periodo precedente, una eloquente panoramica: 1861: 5.525; 1862: 4.287; 1863: 5.070; 1864: 4.879; 1865: 9.742; 1866: 8.790; 1867: 18.447; 1868: 18.120; 1869: 23.325; 1870: 15.473; 1871: 15.027; 1872: 16.256; 1873: 26.183; in quei primi anni l’85% degli emigrati proveniva dalle regioni del Nord d’Italia, fu solo dopo la crisi agraria degli anni ’80 che i meridionali presero il sopravvento. Nell’anno 1900 l'emigrazione italiana complessiva aveva già raggiunto la enorme cifra di 8 milioni di individui di cui 5 milioni provenivano dalle ex Due Sicilie (di essi 3.4 milioni andarono oltreoceano); espatriò dal Sud oltre il 30% della popolazione; "Nel 1901 il sindaco di Moliterno, in Lucania, porgendo il saluto della città al capo del governo, venuto a visitarla, diceva:" La saluto in nome di ottomila concittadini, tremila dei quali risiedono in America, mentre gli altri cinquemila si preparano a seguirli"; nel 1898 l’Italia era già balzata al primo posto, tra tutti i paesi, per numero di emigranti in America; nel successivo decennio 1901-1910 partirono per nave più di 350.000 persone all'anno, poi aumentarono negli anni successivi e nel solo 1913, che fu l'anno della più forte emigrazione, lasciarono l'Italia per le Americhe 560.000 persone, cui si devono aggiungere 313.000 partenze per Paesi europei. Ancora negli anni '50 e '60 del Novecento altri sei milioni di meridionali emigrarono dal Sud verso il Nord (d’Europa e d’Italia), ai giorni nostri la diaspora continua e ben 90mila meridionali sono costretti a lasciare ogni anno le loro terre; la "questione meridionale", dopo più di 140 anni, non si riesce a risolvere (il meridionalista Nicola Zitara dice non si vuole risolvere per lasciare perennemente il Sud allo stato di "colonia interna" del Nord).

     

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    Note al capitolo 11:

    1. Angela Pellicciari, op. cit. (dal Journal des Debats ", novembre 1860) torna al testo

    2. "Sulle condizioni morali e materiali delle province del Mezzogiorno d’Italia", Napoli, Stab. Tipografico Largo Trinità Maggiore riportato da De Jaco "Il brigantaggio meridionale ", Editori Riuniti, Roma, 1969, modif. torna al testo

    3-4-7-10. De Jaco, op. cit., modif. torna al testo

    5. da "Ordine Nuovo" del 1920 torna al testo

    6. L'Archivio dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, a Roma, conserva gli atti, documenti, rapporti e foto inerenti il Brigantaggio post-unitario; la consultazione dell'intero complesso è oltremodo ardua, in quanto soggetta a particolari autorizzazioni e nulla osta dell'Autorità. La storia dei documenti è la seguente: nel 1866 il comando delle truppe piemontesi di Napoli inviò all'archivio di Firenze 73 fascicoli privi di indici e senza ordine contenenti rapporti militari, processi, relazioni, foto, cartine geografiche, manifesti e disegni; nel 1871 le suddette cartelle furono inviate, senza effettuare alcuna catalogazione, all'Archivio militare di Roma; tra il 1892 ed il 1894, furono inviati a Roma i restanti documenti di Napoli inerenti il brigantaggio, compreso i diari di guerra del luogotenente Cialdini. Giunsero altri documenti dalla Calabria, Sicilia, Puglia e dalla Lucania. Un tal tenente Gilberti fu assegnato all'archivio con il compito di mettere in ordine i documenti, ma questi si limitò a dividere le materie e nel 1897 fu spostato ad altro incarico; nel 1908 fu assegnato il compito ad un certo capitano De Bono che riuscì a sistemare i documenti del periodo 1860 - 1862, poi nel 1913 lasciò l'incarico al capitano Cesari che completò l'opera, selezionando la parte "accessibile" dell'archivio. Molti documenti furono distrutti nel "forno della carta" torna al testo

    8. Michele Topa, op. cit. torna al testo

    9. AA.VV. "La storia proibita", Controcorrente, 2001 torna al testo

    11. "La rivolta di Montefalcione " (ed. Nazione Napoletana, 1997) torna al testo

    12. Archivio di Stato di Avellino, Pretura di Bagnoli Irpino, sentenze penali, vol. 77 tratto da " Manifestazioni antisabaude in Irpinia " di Eduardo Spagnolo, Edizioni Nazione Napoletana, 1997 torna al testo

    13. Luigi Braccilli, " Briganti d’Abruzzo", Edizioni dell’ Urbe, 1988 torna al testo

    14. le citazioni riportate sono tratte da Fulvio Izzo, "I lager dei Savoia", Controcorrente editore torna al testo

    15. da O'Clery, op.cit. torna al testo

    16. Andrew F.Rolle, "Gli emigrati vittoriosi", BUR, 2003 torna al testo

    17. riportato da Michele Topa, op. cit. torna al testo

    18. Andrew F.Rolle, op. cit. da cui sono tratte anche tutte le citazioni successive. torna al testo

     

    Gli autori ringraziano per i contributi ed i suggerimenti: Aldo Musacchio, Alessandro Romano, Antonio Ciano, Antonio Pagano, Augusto Santaniello, Camine Colacino, Giulia Tagliatatela, Maria Russo Dixon, Marina Salvadore, Mauro Tacca, Nicola Zitara e Umberto Pontone.

     

     

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