a mio padre, Bruno
Prefazione
Avevo 65 anni, quando
arrivai Vescovo di Termoli e Larino e mi fu presentato subito, nel mio
primo incontro a Morrone, come “il teologo”. Mi accorsi subito che lui,
pur tenendoci a questa meritata qualifica, si sentiva solo come Rettore
della sua chiesa che aveva reso bella. Pur non essendo parroco, era
stimato come sacerdote e come operatore di carità.
Più tardi lo vidi
e lo apprezzai come Rettore di S. Maria Casalpiano, una chiesa rustica,
che ho ancora nella memoria per le diverse celebrazioni che vi ho fatto.
La simpatia tra
me e don Peppe nacque immediatamente e fu accresciuta nella mia prima
Visita Pastorale fatta negli anni ‘81-82, quando potei conoscere da
vicino la sua buona sorella, che era per lui un vero angelo consolatore
e consigliere.
Di don Peppe ricordo
ancora la sua umiltà e la sua infinita timidezza, come pure la sua riservatezza
e la difficoltà di non aver potuto esprimere totalmente la sua vocazione
teologica, alla quale da giovane era stato avviato. Era, però, buon
teologo e quando si parlava con lui in privato, manifestava pensieri
alti e profondi, che lasciavano pensare a quali scritti era stato destinato.
Ricordo anche di
averlo incontrato dopo una forte nevicata, che aveva isolato Morrone
dal resto del Molise, con l’interruzione dell’energia elettrica e il
fermo dei panifici. Ero inquieto, perché volevo andare a visitare i
paesi innevati, ma i Carabinieri mi sconsigliarono. Mi rivolsi alla
Polizia e così con una macchina chiodata, arrivai nel centro di Morrone,
dinanzi alla chiesetta di don Peppe; c’erano parecchi uomini anziani
seduti. “Come state? Com’è stata questa nevicata?” La risposta (per
me fu una grandissima lezione) è stupenda: “Monsignore, mai peggio!”.
Non ho mai dimenticato
quella risposta e più volte me ne avvalsi nelle immancabili avversità.
Ma la risposta più bella la dette don Peppe che, avendo visto arrivare
il Vescovo, uscì di casa, tentò di baciarmi la mano e disse: “Monsignore!
Come, con questa neve qui!”
Ed io: “Sentivo
che dovevo venire!”. E lui: “Un padre va a trovare i figli anche in
capo del mondo. Ma state tranquillo, qui non ci manca niente! Quando
c’è Dio, c’è tutto”.
Questo era don Peppe.
Così lo ricordo sempre nelle mie preghiere!
+ Cosmo
Francesco Ruppi
Arcivescovo
Metropolita di Lecce
Presidente
Conferenza Episcopale Pugliese
Introduzione
«Spezzò il pane e disse:
“Questo è il mio corpo”...».
Le campagne si erano
svuotate, i cani dormivano, il silenzio copriva il paese. Uomini, donne
e bambini accorsero alla Maddalena, assiepandosi vicini gli uni agli
altri. Gli uomini tenendo il cappello in mano e con le giacche consunte
dal sole e dall’uso si tenevano pronti ad ascoltare con lo sguardo serio.
Avevano lasciato che le donne si avvicinassero all’altare ed esse, con
i capelli raccolti nei fazzoletti, stringevano innanzi al petto le mani
in preghiera. Per avere la vista dall’alto, i bambini erano invece saliti
sui cumuli di pietra, accoccolandosi alla meglio.
La Maddalena non esisteva
più. L’edificio era crollato una mattina del dicembre 1943; a mezzogiorno,
di colpo, si era sentito un gran fragore, le pietre erano rotolate sul
selciato e il tetto si era accasciato sul pavimento, mentre i vetri
delle finestre andavano in frantumi e la campanella rintoccava scossa
dall’urto. I gatti si erano nascosti lesti, infilandosi nei più sicuri
anfratti o nelle case dei padroni, i cani, tremanti, con la coda fra
le gambe, si addossavano ai muri. Finito il disastro, tra le polveri
dello sfacelo si intravedeva solo una parte dell’abside, ergendosi sulle
rovine come una madre china sul letto del figlio. Il boato aveva spaventato
la popolazione, e come il diapason vibra quando vibra la corda sorella,
così il rumore di quel cedimento aveva risvegliato il ricordo del sibilo
delle bombe, che pure a Morrone avevano provocato tre vittime civili
nell’ottobre dello stesso anno: Angelo Michele Mustillo e Carmine Gabriele
Carbone maciullati dai bombardamenti dell’artiglieria hitleriana in
ritirata e Roberto Pillo ucciso dal fucile di un militare tedesco nelle
campagne a valle del paese. Il silenzio che era seguito al crollo aveva
spaventato le persone, forse più dello schianto, lasciandole per qualche
secondo col fiato sospeso, immobili e curiosi di sapere cosa fosse accaduto.
Subito dopo, tanti volti si erano affacciati alle porte e alle finestre
e, lentamente, in molti avevano raggiunto il luogo del crollo. Di fronte
al disastro, quel giorno, una domanda correva di bocca in bocca, di
cuore in cuore: “Cosa ne sarà della chiesa della Maddalena?”
In realtà il cedimento
doveva essere prevedibile, perché già allo scoppio della Seconda Guerra
Mondiale l’edificio non era più agibile e le ristrettezze causate dal
protrarsi del conflitto non avevano che peggiorato la situazione. La
comunità no era stata in grado di sopperire alle necessarie opere di
consolidamento. Quante coppie avevano detto “sì” in quella chiesa, quanti
bambini vi erano stati battezzati, quante anime vi avevano ricevuto
l’addio al mondo! Come era possibile che al posto di una chiesa restassero
solo delle macerie o, peggio, niente? Le priorità erano tuttavia ben
altre; c’era penuria di tutto, mancavano i beni di prima necessità.
C’era lo sgomento dei reduci, sopravvissuti agli orrori della guerra,
ai campi di prigionia, ai disordini dell’Armistizio, alle rappresaglie
e c’era il dolore di coloro che avevano perso i loro cari. La guerra
si era portata via trenta giovani e chi era tornato portava ferite profonde
nel corpo e nell’anima. I loro nomi sono scolpiti nel marmo del monumento
ai caduti: Giuseppe Ambrosio, Antonio Amoruso, Fortunato Alfonso, Francesco
Cerulli, Michele Cocco, Domenico Colasurdo, Giovanni Colasurdo, Giuseppe
Colasurdo, Domenicantonio Di Iorio, Giuseppe Fabio, Raffaele Faccone,
Nicola Fimiani, Domenico Ioffreda, Giuseppe Ioffreda, Modesto Ioffreda,
Giovanni Iorio, Luigi Iorio, Michelino Iorio, Gabriele Marchitto, Giovanni
Marchitto, Giuseppe Marchitto, Alfredo Mastandrea, Raffaelle Mastrogiacomo,
Angelo Mastromonaco, Biase Mastromonaco, Giuseppe Antonio Mastromonaco,
Giuseppe Mastromonaco, Domenico Mustillo, Guido Taurozzi e Giuseppe
Romano, che cadendo da eroe aveva meritato la medaglia d’oro. E come
se questo inumano sacrificio non fosse bastato, i giovani avrebbero
ripreso presto a partire per emigrare verso le grandi città del nord,
oppure avrebbero varcato i confini verso le acciaierie tedesche, la
Svizzera, la Francia o le miniere del Belgio. A centinaia avrebbero
attraversato l’oceano diretti in Sud America, scegliendo tra Argentina
e Brasile, oppure verso gli Stati Uniti e il Canada. Partivano i giovani
e rimaneva la nostalgia, la solitudine. Mancava il lavoro e mancavano
le braccia forti di coloro che se ne erano andati, proprio quando sarebbero
servite per ricostruire. Nel giro di tre lustri, dal 1936 al 1951, Morrone
perse 1030 abitanti, oltre un terzo della popolazione.
Ma davanti a tutto
quel vuoto, al quale si aggiungeva il vuoto lasciato dal crollo della
Maddalena, don Giuseppe Mustillo, che nel ‘44 aveva 29 anni, non si
arrese e scelse di lottare. Il giovane sacerdote voleva trasmettere
ai suoi concittadini un segno di quella speranza nel futuro e di quella
fiducia nel prossimo che sentiva ancora forte, e per farlo decise di
celebrare, ogni volta fosse possibile, la messa domenicale proprio fra
i resti del distrutto tempio. La chiesa di Santa Maria Maddalena non
esisteva più, ma vi erano le sue pietre e le sue fondamenta.
I morronesi compresero
il suo pensiero, furono conquistati dalla sua contagiosa voglia di ricominciare
e si unirono a lui nella lunga missione della ricostruzione. Di una
celebrazione in particolare, sotto un timido sole primaverile, è rimasto
il ricordo. Era la Pasqua del 1945 e qualcuno scattò una foto di quell’evento,
cogliendo il momento del rito della comunione in un’atmosfera tangibile
di commozione e solidarietà. Seguiranno decenni di lavoro incessante,
spesi nella ricostruzione. Non mancarono i momenti di incomprensione
e di tensione, ma ciò che a noi interessa è l’insegnamento che se ne
trae, ovvero che il cuore degli uomini e delle donne è capace di grande
forza, superiore ad ogni previsione, così come il perdono sa vincere
sull’indifferenza e contro le avversità. Ma occorre sempre che qualcuno
accetti di guidare gli animi e con coraggio si carichi della responsabilità
del buon esempio e dei buoni esiti, nella consapevolezza dei propri
limiti. E’ in questo che vale la pena sempre confidare.
La vocazione
Con queste parole inizia
il breve ricordo che il compianto Vittorio Mastromonaco, che i morronesi
con affetto chiamano ancora don Vittorio, maestro elementare,
giornalista e fine poeta, fa della vita di don Peppe: “Terzo d’una bella
nidiata, don Peppino nacque a metà ottobre del 1915 da Nicola ed Elisa
Mastandrea. Terminate le elementari (…la quarta soltanto, allora, a
Morrone!) e smessi i giochi propri di quell’età e del nostro paese così
ricco di bravissimi artigiani di ogni mestiere, fu collocato a bottega
da un ottimo sarto, perché tale diventasse anch’egli (…e ben rammento
con quale premura badava all’apprendistato, e la riverenza pel maestro).
Ma la Provvidenza aveva altri disegni per lui, e ne aveva predisposte
le doti: intelligenza, amor proprio, costanza… E così Peppino entrò
in seminario, ove quei doni si temprarono. Quanta la commozione allorché
al fronte sulle Alpi Cozie, nel giugno del 1940, mi pervenne l’annuncio
– tuttora conservato – dell’ordinazione sacerdotale e della prima Messa
sua e di don Daniele al paesello: e il rammarico di non poter esser
presente!... Poi con tenacia si laureò e dal Vescovo fu designato a
curare i giovani seminaristi, e quindi a seminare il bene fra la gente
ond’era nato”.
Don Peppe nacque il
30 ottobre del 1915 a Morrone, in corso del Popolo numero 27 ed in realtà
era il quarto di sette figli, giacché la prima sorella era scomparsa
prematuramente. Da pochi mesi era scoppiata la Prima Guerra Mondiale
e tra gli uomini partiti per il fronte vi era anche il sindaco del paese,
Michelino Colasurdo, sostituito nel ruolo da Francesco Antonelli fino
al 1919. Il 1 novembre il ventisettenne Nicola Mustillo si recò in Comune
per registrare la nascita del figlio portando con sé i testimoni Pasquale
Di Iorio, quarantasettenne farmacista, e Giuseppe Romano, possidente
di sessantacinque anni. Dopo sei giorni nacque a Morrone un altro bambino,
anch’egli di nome Giuseppe e anche suo padre, Domenico Ioffreda, di
ventisette anni. La madre si chiamava Maria Michela Cannavina. Stesso
nome, stessa pagina del registro, ma diverso fu il destino per questo
giovane che, richiamato alle armi, tornò dalla Seconda Guerra Mondiale
affetto da malaria e morì dopo molti mesi di sofferenze.
Elisa Mastandrea, la
madre di don Peppe, aveva condiviso il periodo della gravidanza con
la commare Cisalpina Mastandrea, moglie di Antonio Tommaso. Cisalpina
partorì per prima, il 12 ottobre, dando alla luce un paffuto bambino
di nome Pasqualino e inaspettatamente, dopo due settimane, anche Elisa,
che era solo al settimo mese, metteva al mondo Giuseppe, prematuro e
così gracile da far temere il peggio. Le due amiche vollero celebrare
insieme il battesimo, che venne officiato da don Gabriele Colasurdo,
il quale era di animo schietto e prima di iniziare il rito osservò bene
i due pargoli notandone subito la gran differenza di salute. E non ci
dovette riflettere troppo quando d’istinto esclamò: “Qui sì che ci sta
san Martino”, riferendosi al bimbo più cicciottello, con le guance rosee
e gli occhi spalancati sul mondo, mentre il piccolo Giuseppe avvolto
nei panni, tra le braccia della mamma, non dava grandi segni di vita.
Venticinque anni dopo lo stesso padre Colasurdo, ormai anziano, partecipava
alla prima messa celebrata da don Peppe, e colmo di compiacimento per
il giovane esclamava: “E questo è quel bambino!”
Fu una vita passata
lontana dal marito quella della mamma di don Peppe, giacché Nicola,
che faceva il calzolaio, a causa delle difficoltà economiche del primo
dopoguerra, prese ben presto la via dell’emigrazione, verso gli Stati
Uniti dove si richiedevano in gran numero artigiani e operai. Stare
lontano dalla famiglia era stato difficile, un enorme peso, ma riuscì
a tornare diverse volte a Morrone, prima di rientrare definitivamente.
Tanti sacrifici sortirono i loro frutti, perché Elisa e Nicola riuscirono
a garantire una formazione scolastica a tutti i figli. Ma grandissima
era stata la loro sorpresa quando appresero che Giuseppe manifestava
l’intenzione di seguire la via sacerdotale. Pareva contraddittorio che
un ragazzino dal carattere così vivace volesse farsi prete. Il bambino
amava giocare con gli amici, divertirsi a fare innocenti scherzi ai
fratelli e ai vicini di casa, mettendone anche a prova la pazienza,
ma allo stesso tempo era capace di fermarsi a riflettere taciturno senza
che nulla potesse distoglierne i pensieri. E sebbene l’indole si rivelasse
giorno per giorno sempre più riflessiva e vicina a Dio, i genitori non
potevano non essere scettici e se da un lato non gli volevano credere,
dall’altro pensavano che non fosse la cosa giusta per lui. Ma quel giovane
figlio dimostrava una determinazione davvero inconsueta per la sua età,
tanto che un giorno, sconsolato perché incompreso, sbatté la testa contro
la pietra del camino, e strillò, con voce disperata ma tenera: “Io mi
voglio fare prete!” Nicola, d’altronde, aveva ben altri progetti per
lui. Voleva fare di suo figlio un bravo artigiano, voleva che imparasse
un mestiere e aveva scelto uno dei migliori “mastri” del paese, il sarto
Luigi Mastromonaco. Apprezzato soprattutto dai sacerdoti, dimostrava
grande precisione e maestria nel confezionare abiti talari e paramenti
sacri, sempre perfetti in ogni dettaglio, a cominciare dalle lunghe
teorie di bottoni che cuciva sulle nere tonache. Giuseppe, nonostante
non vi si sentisse portato, per rispetto e ubbidienza nei confronti
del padre, aveva accettato di svolgere il suo tirocinio. Ogni giorno
si presentava a bottega, puntuale e pieno di buoni propositi, cercando
di convincersi che era quello il suo cammino. Aveva tentato di immedesimarsi
fino in fondo in quel ruolo, tanto che un giorno provò a fare da solo.
Il maestro Luigi si era dovuto assentare e aveva lasciato sul banco
il taglio incompiuto di un paio di pantaloni, il giovane apprendista
inforcò le forbici e zac proseguì sulla linea delle tasche. Sembrava
che tutto fosse andato per il meglio, ma finito il lavoro si accorse
che il segno del gesso era ben più breve e fu tale il timore di essere
redarguito, che si precipitò fuori dal laboratorio, tornando di corsa
a casa. Da allora non ebbe più il coraggio di riaffacciarsi a bottega,
ma proprio quell’episodio e la persistente insistenza di Giuseppe convinsero
Elisa e Nicola ad accompagnare il figlio in seminario.
Dopo gli studi canonici,
don Peppe proseguì con sempre maggiore interesse e il 20 novembre del
1959 completò gli studi presso l’Università di Napoli, sotto il pontificato
di papa Giovanni XXIII. Il 16 marzo 1974 si laureò con lode in Teologia,
presso la Pontificia Università degli Studi “San Tommaso d’Aquino”,
sotto il pontificato di papa Paolo VI, scegliendo per tesi di laurea
il tema della Trinità. E quando nel 1977 la sua tesi fu pubblicata con
il titolo “Le relazioni trinitarie in Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino”,
ne portò una copia all’ormai anziano sarto Luigi Mastromonaco, accompagnando
l’omaggio con una battuta: “Chissà se ci capirete qualcosa!”
Nei primi anni del
sacerdozio di don Giuseppe, la madre Elisa gli restò accanto, sostenendolo
in ogni attività. Ella amava chiamare il figlio “san Luigi”, perché
lo vedeva mite e generoso come il Santo che aveva dedicato la sua breve
vita agli umili e gli ammalati, fino all’estremo sacrificio. Elisa aiutava
il figlio nelle sue incombenze sacerdotali e quando don Peppe intraprese
l’opera della ricostruzione della chiesa di Santa Maria Maddalena, ella
si adoperò con uguale e forse maggiore impegno al suo fianco. Si spendeva
nella ricerca costante delle risorse necessarie per il cantiere, nell’assistenza
agli operai impegnati nei lavori edili e quotidianamente si occupava
dei pasti da preparare per le maestranze. Ogni passo compiuto sembrava
un miracolo, viste le difficoltà, e in alcune occasioni Elisa aveva
riconosciuto la mano della Provvidenza. Amava raccontare di come un
giorno, dovendo preparare la minestra si sentisse avvilita perché non
aveva nemmeno un cucchiaio di olio. Con l’intenzione di chiederne un
po’ si era recata da un’amica, ma il pudore aveva avuto il sopravvento
e invece di chiederle l’olio che le serviva, vedendo che la donna stava
per recarsi nel bosco, le aveva detto: “Tu devi affrontare il freddo,
prendi questa gonna, ti farà comodo!” Si tolse una delle due gonne che
indossava e gliela offrì, tornando a casa sconfortata. Grande fu la
sorpresa quando vide tornare la sua amica a restituirle la gonna, perché
la stessa aveva con sé anche un po’ di olio: “Grazie - le disse - faceva
tanto freddo! Prendi, quest’olio è per te”. Elisa, commossa aveva risposto:
“Un angelo ti ha parlato all’orecchio, perché non ne avevo nemmeno per
condire la minestra che ho preparato per mio figlio prete!”
Mentre i giorni e gli
anni passavano, un pensiero tormentava la donna: come avrebbe fatto
don Peppe a provvedere a se stesso quando lei non ci fosse più stata?
Forse sentiva in cuor suo che non avrebbe potuto seguire a lungo il
cammino del figlio e forse anche don Peppe sentiva che non avrebbe potuto
a lungo contare sull’aiuto della madre. Ma negli stessi giorni la sorella
di don Peppe, Antonietta, aveva cominciato a procurare serie preoccupazioni
alla madre. Sembrava assente, non interessata alle cose che invece facevano
trepidare le sue amiche. Il futuro era ricco di promesse, eppure ella
stava vivendo un tormento nuovo nell’anima, che la rendeva incerta e
ansiosa, tanto da rivolgersi al fratello, confidandogli: “Non so cosa
mi succede. Non sento più le cose del mondo”. Pensando che fosse giunta
la vocazione, Antonietta si era messa in contatto con il convento delle
suore di Morrone. Fece istanza per prendere i voti, ma presto si ammalò.
Passarono molti giorni e quando si fu ristabilita tornò dalla madre
superiora, la quale però nel frattempo aveva molto riflettuto ed era
giunta ad una conclusione: “Antonietta - le disse - tu hai un fratello
prete. E’ quella la tua missione. Lo devi aiutare e sostenere nel suo
apostolato. Avrà bisogno di te”.
Il 30 giugno 1940,
una settimana dopo che era stata officiata da Mons. Bernacchia la consacrazione
di don Giuseppe, il giovane prete confessava alla sorella: “Sai, il
giorno della mia prima celebrazione ho chiesto al Signore la grazia
di poter contare sull’aiuto di una sorella tutta per me”. Ad Antonietta
fu finalmente tutto chiaro e prese la decisione di restare accanto a
lui per la vita. Elisa, ormai gravemente malata, quando apprese della
decisione della figlia, sentì il cuore attraversato da diversi sentimenti,
da una parte il rammarico per il sacrificio che Antonietta era disposta
a fare e dall’altra il conforto di sapere che i due giovani avrebbero
affrontato ogni cosa insieme. Morì il 22 novembre del 1953, giorno di
santa Cecilia, a 62 anni, e queste furono le ultime parole che rivolse
a Giuseppe: “Sono contenta che non ti lascio solo, perché ti lascio
Antonietta”.
Storia di una ricostruzione
La vita di don Peppe
fu scandita, durante il suo lungo cammino, dalla missione della ricostruzione
della chiesa di Santa Maria Maddalena. Con queste parole il maestro
Vittorio Mastromonaco riassume i decenni trascorsi nella faticosa opera:
“Ed ecco affiorar l’intraprendenza, il desiderio di riattare la Maddalena
a gloria del Signore e per favorire gli abitanti nella parte inferiore
del borgo che – specie d’inverno – han difficoltà a salire nella Chiesa
Matrice. Chiamò a collaborare quanti stimava potessero aiutarlo: per
il progetto, per la raccolta dei fondi: con recite, stampe…; la richiesta
del suolo che – me vice sindaco – dal Comune fu dato gratuitamente:
e la costruzione in più lotti, ma man mano che le raccolte lo consentivano…:
ed eccola infine, la chiesa bella, per cantarvi le lodi del Signore;
ecco la parola vibrante di don Peppino a chiarirne gli aspetti e i tempi”.
L’originale edificio
della Maddalena risaliva, secondo il Masciotta, al secolo XVII. Si deve
la prima descrizione della chiesa al vescovo di Larino, mons. Giovanni
Andrea Tria (1676-1761), che nel 1744 ne parla nelle sue Memorie:
“Fuori dell’abitato vi è la Chiesa sotto il titolo di S. Maria Maddalena,
Juspadronato dell’Università, posta sulla salita della montagna distante
da essa Terra 50 passi in circa, e la comunità la provede di tutto il
bisognevole”.
A metà dell’800, come
relaziona don Mario Colavita sulle pagine de Il Morronese, la
chiesetta appariva diroccata e abbandonata. Fu il parroco don Michele
Mastrogiacomo a farsi carico della ricostruzione, con la stessa dedizione
che quasi un secolo dopo avrebbe mostrato don Peppe Mustillo. Conosciamo
la storia di quel tenace parroco da una leggenda firmata di Giuseppe
di Iorio: “Bello è ogni travaglio. Sostenuto per l’amor di Dio e della
S. Religione. Don Michele Mastrogiacomo consumò se stesso e le proprie
sostanze per mantenere sempre difeso gli onori di Dio, fabbricò il calvario
perché il cittadino reduce dalla giornaliera fatica, avesse a chi affidare
i suoi sospiri e le sue miserie. Quasi dalle fondamenta ristabilì la
diruta cappella rurale dedicata alla Maddalena perché la più parte dei
cittadini distaccati dalla chiesa Matrice, avesse ove esercitare il
suo culto religioso e pregare pel bene della morente famiglia. Perdonò
ai suoi nemici, beneficò ai suoi ignoranti, pregò per quelli che gli
pregavano male. Dormi benemerito cittadino. I tuoi benefici renderanno
non moritura la tua memoria nei cuori di coloro che verranno. L’alba
del 6 gennaio 1874 egli fuggì dall’immonda gara di questo secolo corrotto
e, spiegò il suo volo a Dio”.
Nel 1864 il parroco
don Michele Mastrogiacomo volle ripristinare la chiesetta nell’uso e
a tal fine presentò al Consiglio Municipale di Morrone una richiesta
di ampliamento e riattazione. Il 17 luglio l’autorità locale si espresse
in modo favorevole, deliberando che se ne comunicasse l’intendimento
al Sottoprefetto del Circondario di Larino. Questi, dopo una sola settimana,
incaricò l’agrimensore Angelo Mastrogiacomo di redigere la “Pianta topografica
numerica descrittiva” dell’edificio. Il tecnico depositò la documentazione
il 30 luglio, mettendo in luce come l’originale pianta della costruzione
apparisse ben più ampia, elemento che faceva pensare che l’edificio
fosse stato posteriormente ridimensionato, probabilmente a causa di
un crollo. Nel 1868, quattro anni dopo l’inizio dei lavori di ristrutturazione,
lo stesso Mastrogiacomo stilava un documento sullo stato dell’opera
e un preventivo per completarla. La costruzione sarebbe costata 11.190,88
lire, di cui erano già state spese 2.125 lire. La campanella fu fatta
realizzare dopo la morte di don Mastrogiacomo, nel 1884, commissionata
alla Fonderia Marinelli di Agnone dal sacerdote don Olindo De Vito e
da Tomaso Colacarro. Della chiesetta ristrutturata esiste una fotografia
e la descrizione che ne fa nel 1914 Giambattista Masciotta nel suo
Il Molise dalle origini ai nostri giorni: “Edificata nel secolo
XVII, non essendo menzione di essa nell’apprezzo dell’università del
1593. Nella prima metà del secolo era ‘extra moenia’: ora, invece, è
quasi nel centro topografico dell’abitato, dopo il considerevole prolungamento
di questo in virtù degli operosi emigrati in America. Si compone di
una sola nave, e non offre nulla di notevole dal lato artistico”.
Carlo Iorio la descrive
così: “La ricordiamo anche noi che era più piccola di altro stile e
senza campanile, non era nemmeno rettangolare; il muro frontale misurava
50 cent. di meno da quello posteriore. Nei muri laterali c’era un arco
che ci faceva capire che anticamente la chiesa era ancora più piccola
e mediante quest’arco salvava il peso ai muri vecchi per la sopraelevazione.
Il muro di prospetto era nuovo con l’agiunto ai fianchi attaccato al
muro vecchio”.
In seguito furono eseguiti
altri lavori di ordinaria manutenzione, come lo stesso Iorio ricorda:
“Dopo del M. Rev. Arciprete Mastrogiacomo possiamo credere che ci è
stata sempre qualche anima buona che ha avuto cura della chiesetta della
Maddalena [...] Come nel precedente: Il M. Rev. Arciprete Don Domenico
Mastrogiacomo, poi il Rev. Don Olindo De Vito, più tardi il Rev. Don
Angelo Mastandrea se ne occuparono per il mantenimento di questa chiesetta
della Maddalena. Prima, “Cappella rurale” e poi man mano è divenuta
chiesa dell’abitato [...] Ricordo all’età mia ne ebbero cura a rifare
la copertura. Iorio Domenicantonio, nipote del Tomaso Colacarro e il
Sac. Don Angelo Mastandrea. Non’ostante questa cura durante la guerra
mondiale 1942-45 la detta chiesetta crollò. Prima del crollo le autorità
fecero trasportare dalla Maddalena alla Chiesa di San Roberto le statue
che ivi esistevano che se non sbaglio erano: Statua di S. Anna, statua
di S. Donato, e la statua della titolare della Maddalena e, nella stessa
chiesa di S. Roberto si celebrava la messa domenicale che era consuetudine
celebrarsi nella chiesa della Maddalena che era molto più comoda per
i fedeli dell’abitato”.
Il 27 dicembre del
1943, l’edificio si era accartocciato su se stesso e Iorio racconta
di come don Peppe decida di impegnarsi nella ricostruzione “Ora dobbiamo
dire dello zelo del Rev. Don Giuseppe Mustillo: Don Giuseppe Mustillo,
giovane sacerdote pieno di indusiasmo per questa Chiesetta, la vedeva
crollata. Tutta la copertura caduta, giaceva sul pavimento. Il prospetto
si manteneva ancora. La porta chiusa a chiave, ai apriva solamente quando
l’incaricato si recava a tirare la fune della campanella posta sul muro
stesso ancora intatto per dare il segnale ai ragazzi di andare a scuola.
Nessun culto religioso si poteva svolgere. Don Giuseppe Mustillo, considerò
il caso del frutto spirituale che i fedeli venivano a perdere per mancanza
di questa Chiesa. Vi era allora nel nostro paese un nascente Circolo
Cattolico con sede in una vecchia casa di proprietà dei fratelli
Giambattista fu Michelangelo che possiamo raffigurarla in una fotografia
della processione del 15 Agosto tirata dal fotografo Cialì nel 1950
(detto da noi Cimitierio) invece oggi ci è la palazzina del commerciante
Pasqualino Parente”.
E’ nel giorno del 15
agosto 1944 che il popolo di Morrone passa all’azione, come ci fa sapere
ancora Iorio: “Nella festa più bella di Morrone, 15 Agosto 1944, Luigi
Tommaso, socio del Circolo Cattolico, partì ben presto da Morrone, corse
a Petrella dalla tipografia Lembo per far stampare i manifesti formato
protocollo per l’appello a tutti i Morronesi, vicino e lontano, in Americhe
e nell’esercito, ovunque si fossero trovati a venire in aiuto nella
loro possibilità per la ricostruzione di questa chiesa. I manifesti
portano la firma: Il Presidente del Comitato Arciprete Gabriele Colasurdo.
Nella messa alta di mezzogiorno, Don Giuseppe Mustillo che tenne il
panegirico durante la messa cantata intrecciò tra le Lode più belle
alla Vergine Assunta in Cielo la necessità della Chiesa della Maddalena,
implorante ad ogni cittadino l’aiuto possibile per la riedificazione
della detta Chiesa della Maddalena. Durante la processione appena dopo
la S. Messa, i fedeli che accompagnavano la venerata e bella statua
della Vergine Assunta, fresche e scottante le parole di Don Peppino
vedevano già i manifesti attaccati ai muri che invitavano a tutti i
Morronesi vicino e lontano e in qualunque ranco degli Eserciti venire
in aiuto per la ricostruzione della Maddalena. Il dopo pranzo di quel
giorno stesso, i dirigenti del Circolo Cattolico convocarono una riunione
nella loro sede di tutti coloro che credettero idonei a dare un parere
sulla ricostruzione della detta Chiesa, intervennero anche qualche sacerdote
compreso D. Peppino”.
Si era dunque formato
un Comitato che, presieduto dall’anziano don Gabriele Colasurdo, nel
pomeriggio del 15 agosto si riunì nella sede del Circolo Cattolico.
L’Arciprete consegnò le 50 lire e 50 centesimi raccolti, aggiungendo
un’offerta personale di mille lire, seguito nell’esempio e con generosità
da tutti i presenti. E poiché si andava incontro all’inverno si decise
di partire dalla produzione della calce. Fu individuato nei pressi della
Fonte Nuova, nel campo di Modesto Iorio (soprannominato Olerio),
il luogo adatto per la call’cara, la fornace nella quale si sarebbero
dovute cuocere le pietre per tre notti e due giorni. Tutti si offrirono
di contribuire al lavoro che consisteva nel trasportare sul posto le
pietre e il materiale da ardere. Partecipavano anche i bambini, che
seguivano don Peppe e, imitandolo, con le loro piccole mani raccoglievano
le pietre e le lanciavano nella fornace. Don Peppe accettava quell’aiuto
e li ringraziava regalando loro gassosa e caramelle. Sembra di cogliere
l’orgoglio di chi partecipa a una buona missione nelle espressioni dei
bimbi che guardano con curiosità la prima fila di pietre di quella che
sarà l’abside.
Tra le principali figure
che ispirarono don Peppe nel suo apostolato, forse la più amata era
quella di don Bosco che ai più giovani aveva dedicato il suo intero
apostolato. Don Peppe ne condivideva il messaggio educativo, sintetizzato
nelle parole ragione, religione, amorevolezza, e si era impegnato,
come aveva fatto il Santo, non solo nella formazione bensì anche nell’offrire
occasioni di gioco e di svago ai più piccoli. A tal fine si era ripromesso
di realizzare uno spazio pensato per i giochi e trovato il locale adatto,
vi aveva allestito una sala per l’oratorio. Una volta ricostruita anche
la chiesa della Maddalena, vi aveva ricavato uno spazioso vano per il
medesimo scopo. Si inaugurò così la nuova “Sala Don Bosco”: furono invitati
tutti i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze e i loro genitori
che vi trovarono, oltre ai dolcetti preparati dalla sorella Antonietta,
anche un calcio balilla, il tavolo da ping pong e degli strumenti musicali:
una batteria, una pianola e una chitarra. Da allora, ogni 31 gennaio,
si festeggiò la festa di San Giovanni Bosco, per la quale don Peppe
coinvolgeva gli insegnanti delle scuole elementari e medie, mentre Antonietta
preparava i dolci. Finita la festa, don Peppe faceva visita agli ammalati
e portava loro un po’ di prelibatezze.
Di bambini parla con
tenerezza don Peppe in un articolo in lingua inglese dedicato ad un
viaggio fatto in America: “Le ore più belle che passai negli U.S.A.
e in Canada furono quelle trascorse con i bambini. Una volta avevo vicino
alle ginocchia un bambino (il nipote di Peter D’Amato). Gli accarezzai
il viso e i riccioli d’oro. Il bimbo era felice e improvvisamente mi
disse: prendimi in braccio. Un’altra volta stavo parlando al figlio
undicenne di Josephine Giambusso del suo servizio in Chiesa, quando
improvvisamente il fratello più piccolo, di circa 5 anni, puntando l’indice
verso di me, disse: anche tu sei stato un chierichetto? Un’altra volta
mentre ero in viaggio nell’auto di Joseph Ambrosio e suo figlio era
seduto sul sedile posteriore, io vidi una mucca nel prato e non ricordando
quale fosse la parola in inglese lo chiesi a Joseph. Il bambino (sulla
destra nella foto) improvvisamente urlò: La mucca fa il latte. La lingua
inglese nella bocca di un bambino mi sembrava una dolce melodia. Amavo
stare con loro e ricordavo le parole di Gesù: lasciate che i bambini
vengano a me, non respingeteli; il regno di Dio appartiene a loro. In
verità vi dico, l’uomo che non accoglie il regno di Dio come un bambino,
non vi entrerà mai. Noi, con la forza della nostra volontà, dobbiamo
rendere i nostri cuori come quelli dei bambini”.
L’attenzione verso
i bambini era acuita dalla consapevolezza che i mezzi delle famiglie
erano quasi sempre limitati, soprattutto nel periodo del dopoguerra.
A volte la povertà era tale da mettere in forse la stessa sopravvivenza
dei più piccoli. Donare il mantello, come aveva fatto san Francesco,
era una eventualità che si presentava spesso al giovane sacerdote. Una
sera don Peppe stava uscendo dalla chiesa della Maddalena, quando scorse
nella penombra del mattino tre uomini che si rivolgevano a lui dicendo:
“Abbiamo freddo e fame, veniamo dall’est”. Don Peppe guardò i profughi
macilenti e tremanti, si tolse il mantello e lo appoggiò sulle spalle
del più malandato dei tre. Poi rientrò in chiesa, aprì le scatoline
delle offerte e ne trasse poche lire che consegnò loro: “E’ tutto quello
che c’è”, disse. Infine li condusse a casa e li fece accomodare:
“Antonietta hai preparato qualcosa? Abbiamo degli ospiti”. I tre consumarono
il latte caldo e il pane, che Antonietta aveva preparato per il fratello,
e una volta rifocillati, salutarono, ringraziarono e ripresero il loro
cammino.
Spesso invece occorreva
prendere una decisione ‘saggia’, anche se non ortodossa, pur di evitare
il peggio. Doveva aver pensato così don Peppe, quando accettò di celebrare
segretamente le nozze tra un uomo e una donna, vedova di guerra. Il
matrimonio religioso non doveva essere palesato, per evitare che a lei
fosse revocata la pensione e quindi il sostentamento per i tre figli:
un maschio e due femmine.
Non era necessario
chiedere, don Peppe restituiva in silenzio tutto ciò che riceveva e
la vita dei santi non era per lui un affascinante racconto, bensì un
esempio da seguire. Un giorno, quando era già anziano, cadde dalle scale
e la sorella Antonietta, che era intenta a tritare le mandorle per i
dolci, sentì il tonfo e accorse per aiutarlo e fu così che vide a terra
sei bollettini postali: don Peppe aveva appena donato in beneficenza
tutto il denaro che possedeva.
D’altronde i meno fortunati
avevano un posto speciale nei suoi pensieri. I malati aspettavano con
sollievo la sua visita, ancor più gradita quando si recava spontaneamente
al loro capezzale. A volte qualche familiare di idee ostili non gradiva
quella che considerava una intrusione. Il marito di una donna malata
era arrivato a dire ad Antonietta: “Tuo fratello è proprio scocciante”,
riferendosi alle sue visite quotidiane. Ma don Peppe non se ne curava,
perché vedeva la gratitudine negli occhi degli infermi e questo era
un sufficiente lasciapassare anche nei casi più difficili.
Furono molte le iniziative
promosse per invogliare altri generosi contributori a sostenere la ricostruzione
della Maddalena, compresa la diffusione di cartoline con il rendering
del progetto e l’atmosfera era sempre di festa e solidarietà, come ricorda
Iorio: “Eravamo appena dalla disastrosa seconda guerra mondiale, tutto
scarseggiava, ma agli operai della calcara non gli mancava nulla. Le
buone donne, le figlie di Maria giravano per le case delle amiche e
tutto usciva = farina, olio, vino, uova, peperoni e anche qualche coniglio,
perché gli operai alla fornace mangiassero più saporite la pasta fatta
di casa. Loro stesse le giovanette impastavano cucinavano e i più adatti,
col canestro sulla testa ad uso Morronese portavano alla calcara. Gli
operai vedendo tutto questo endusiasmo, come lavoravano contenti! Spesso
si vedeva qualche buona donna all’alba con caffettiera avvicinarsi agli
operai che tutta la notte per turno avevano infornate spini e paglia
alla bocca infuocata della calcara [...] E come possiamo dimenticare
l’atto di Antonietta Credico (ora ha avuto già la ricompensa dal Signore)
e di Rosa Maria Lalla. Più notte si alzavano verso le due e andavano
ad essiccare con secchi la vasca della fonte nuova per spegnere la calce
viva dopo sfornata dalla calcara. Con questo indusiasmo si fece il primo
passo nella seconda metà del 1944 per la ricostruzione della chiesa
della Maddalena”.
Sul perché di questa
attività infaticabile che ha consentito alla comunità di Morrone del
Sannio di usufruire di nuovo della chiesa della Maddalena, lo stesso
don Peppe dichiara le sue motivazioni in un articolo dal titolo Perché
ho lavorato e continuo a lavorare: “Ma non è soltanto per fare una
bella casa al Signore ho lavorato, non soltanto per portare Gesù Eucaristia
alla parte bassa del paese ed aprire dal Tabernacolo una nuova sorgente
di acqua viva zampillante alla vita eterna. Non è solo perché il Tempio
con la sua religiosa e artistica attrattiva elevi lo spirito a Cristo
e alla Vergine Santa e sprigioni una scintilla di religiosità dal cuore
dei vostri figli e nipoti che verranno a Morrone. Il mio motivo è anche
un altro ed è il più importante. Io ho richiesto il vostro sacrificio
per coinvolgervi nel mio apostolato, nella mia missione di conquista
delle anime e dell’avvento del Regno di Dio. Il motivo più importante
che mi ha spinto ad essere importuno ed a picchiare alle vostre case
per la richiesta di offerte è stato quello di spingervi a lavorare con
me per il Signore, a porvi davanti un ideale, un traguardo che servisse
a formare la vostra personalità umana e cristiana, a farvi conquistare
meriti per il Cielo e benedizioni per i vostri cari, a vivere insieme
il mio e il vostro dramma, il dramma di Cristo, di morte salvifica e
di resurrezione alla gloria. Perché ricordatevi: tutto passa come un’ombra,
tutto sarà sommerso in un eterno silenzio. Solo quello che avremo fatto
per amore di Gesù non perirà. “Le opere ci seguiranno” (Apocalisse di
San Giovanni 14-13). “In fin di vita si raccoglie il frutto delle opere
buone” ha lasciato scritto San Giovanni Bosco”.
Il Comitato intanto
si riuniva regolarmente nel Circolo Cattolico, che nel frattempo però
aveva cambiato sede, trasferendosi in corso Umberto I nel seminterrato
della casa di Luigi Iorio, fratello di Carlo. L’ingegnere Cesare Antonelli
si offrì di curare la direzione dei lavori gratuitamente, come gratuita
era spesso la manodopera (che all’epoca veniva remunerata con 150 lire
la giornata). L’11 marzo 1945 si iniziò a rimuovere le macerie e il
23 aprile la campanella trovò una prima seppur precaria collocazione:
dalla sommità di un palo avrebbe suonato per le messe celebrate all’aperto,
come quella immortalata nella foto del 1° maggio 1945.
L’anziano ma esperto
Luigi Romano sovrintendeva i lavori e finalmente, il 13 giugno del 1945
fu posta la prima pietra: “Di propria persona S. Ecc. Mond. Vescovo
Otto Bernacchia doveva venire a predicare a Morrone nella festa di S.
Antonio 13 Giugno. Volemmo approfittare di quest’occasione. Il Comitato
con l’accordo del capo mastro, Luigi Romano, fece del tutto a riuscire
all’intento. Scavarono le fondazioni dove doveva collocarsi la prima
pietra precisamente all’angolo del prospetto a vico Cantù, prepararono
la pietra ben riquadrata con l’incavo per la pergamena. La voce correva
tra il popolo che il 13 giugno si svolgeva una funzione mai vista a
Morrone; era una novità che ognuno voleva assistere. Arrivò il 13 giugno.
S. Ecc. venne a tessere il panegirico del Santo di Padova e il dopo
pranzo col ripartire svolse la funzione della benedizione della prima
pietra. Luigi Romano coadiuvato dal comitato preparò tutto quel che
occorreva per la funzione: la calce, cazuola, la pietra già attaccata
al parangolo in un trepiede. Il popolo si calcava sempre più, si dovette
ricorrere a un steccato con fune. Visto tale affollamento gli uomini,
specie i più giovani, si adagiarono sui tetti circonvicini. Arrivò il
momento della funzione ed il popolo si stringeva sempre più. Ecco arrivò
il Vescovo coi sacerdoti del luogo, Don Peppino giunse con la pergamena,
senza leggerla la collocarono in un vetro nell’incavo della pietra,
il Vescovo benedisse e la pietra scese all’angolo dell’edificio. Dopo
Mons. Vescovo salì su una pedana già preparata dal Comitato e con la
sua chiara parola finì da indusiasmare l’animo dei Morronesi incoraggiandoli
a concorrere a quanto bisognava per la ricostruzione della chiesa da
parte sua si dispose di cento: Oggi 13 giugno 1945 abbiamo benedetto
la prima pietra, con l’aiuto di Dio e con la Vostra buona volontà, fra
non molto ritorneremo a benedire tutte le pietre che compongano questa
chiesa. Questa singolare funzione si avrebbe voluto tenere più presente
con fotografie e altro, ma era il momento che mancava di tutto. Si trovava
in licenza un soldato Americano figlio di un altro Luigi Romano residente
a Syracusa Stati Uniti d’America. Sapevamo che i soldati americani abbontavano
di tutto. Antecedentemente a questa funzione li chiedemmo che quando
tornava a Reggimento ci avesse fatto il favore di spedirci una pellicola
6x9 da servirci a questa funzione. Il soldato fu puntuale ci spedì la
pellicola e un ‘foot ball’ per i giovani sportivi di Morrone. Non mancava
solo la pellicola, ma in quel tempo scarseggiava anche chi doveva adoperarla;
riuscì bene solo l’ultima posa... Ho voluto ricordare poco prima, che
chiusero la pergamena senza leggerla... ed ecco le parole che furono
scritte W CRISTO RE. Anno Domini millesimo novigentesimoquadragesimo
quinti, Idibus Iunii.Pio papa XII feliciter regnante, auspice Dei Genitrice
Maria, nec non Sancta Maria Magdalena, orbe universo arma odraque deponente,
tempoli Luius, ut oppidi civium vota compleret.Oddo Bernacchia, Episcopus
Larinensis christiane pretatis incrementum exoptans, magno populi concursus,
initium fecis Oddo Bernacchia Gns. Larinese Arc. Gabriele Colasurdo,
Sac. Angelo Cieri, Sac. Angelo Mastandrea, Sac. Daniele Fimiani, Sac.
Giuseppe Mustillo, Sac. Raffaele Faccone”.
Il Comitato era molto
attivo nella ricerca di fondi, promoveva collette di olio e di
grano, merci che poi venivano rivendute; Raffaele Iorio, figlio di Carlo,
organizzava rappresentazioni teatrali; don Peppe sollecitava le offerte
quando si trovava a celebrare messa nelle parrocchie viciniori. Spesso,
in occasione delle feste, si organizzavano giochi popolari allo stesso
fine e anche il ricavato delle tessere di adesione al Circolo di San
Giovanni Bosco, presieduto da Carlo Iorio, veniva destinato alla causa.
Nel corso del 1945
i lavori procedevano spediti. Si ultimarono le fondamenta e si eressero
le pareti esterne della saletta ricavata nel seminterrato della chiesa.
Una immensa roccia occupava molto spazio e, quindi, si dovette procedere
a modellarla per far spazio ai muri. Agli inizi del ‘46 fu appaltato
il lavoro di zoccolatura, che si aggiudicò l’impresa di Giovanni Fimiani.
Il 2 settembre del 1947 fu stipulato il contratto con Vittorio Ruscitti,
titolare della cava di Petrella, per l’acquisto della pietra rosa (a
lire 9.000 al metro cubo) con la quale realizzare i finestroni.
Nella primavera del ‘48 il materiale lapideo fu consegnato e il primo
a lavorarlo fu lo scalpellino Orlando Fimiani “gratuitamente per ricordo
e in suffragio del fratello morto in guerra”.
Il lavoro fu poi proseguito da Francesco Martinini e poi, alla sua morte,
dal figlio Manfredo. Alla fine del ‘48 l’elevazione era giunta all’altezza
dei finestroni e nel ‘52 era completata. Si susseguirono diverse squadre
di muratori: dapprima Giuseppe Lombardi, seguito da Giovanni La Selva
(entrambi di Castellino) e infine Arcangelo Colasurdo. Carlo Iorio nel
suo memoriale fa presente come in un triennio si fossero triplicati
i costi di costruzione e come fosse difficile raccogliere i fondi necessari
per l’acquisto dei materiali, in particolare per realizzare il tetto.
Si cercava di risparmiare e spesso si coprivano lunghe distanze per
acquistare i materiali: la capriata in ferro fu procurata dall’architetto
Antonelli presso una ditta di Roma, il cornicione fu acquistato dal
Comitato a Guardialfiera, Carlo Iorio e Michele Antonelli si recarono
a Pescara per travi e tavole in legno, mentre le tegole furono scelte
presso la ditta Primiani di Baranello. Eppure, nonostante la buona volontà
di tutti, sia nella raccolta fondi sia nella gestione oculata degli
stessi, i soldi non bastavano; in un decennio (1945-’55) erano stati
spesi 18 milioni, in parte frutto della generosità dei parrocchiani
e in parte messi a disposizione personalmente da don Peppe e dallo stesso
Vescovo.
Nel luglio del 1949
don Peppe si rivolgeva all’on. Giacomo Sedati, democristiano eletto
il 18 aprile del 1948 alla Camera dei Deputati, nel quinto governo De
Gasperi, per chiedere allo Stato di intervenire con un contributo. Sedati
rispose a stretto giro di posta il giorno 16 dello stesso mese, garantendo
attenzione all’istanza, ma facendo anche presente che la legislazione
al proposito era chiara e ogni azione doveva essere concordata con le
autorità ecclesiastiche. Don Peppe non perse tempo e il giorno dopo
aver ricevuto quella lettera inviò una urgente missiva al vescovo di
Larino e Termoli, mons. Bernacchia, per chiederne l’autorevole intervento
presso l’ingegnere capo del Genio Civile di Campobasso, così come suggerito
da Sedati. Purtroppo la pratica ebbe un iter estremamente lento, come
testimonia la fitta corrispondenza che intercorse tra il Vescovo, il
Ministero e la Prefettura di Campobasso, ancora negli anni 1955-’57.
Nel 1953 don Peppe
si recava a Lourdes in pellegrinaggio. Tornando in treno, seduto nel
suo scompartimento teneva d’occhio l’involucro che aveva posizionato
nel portaoggetti. Si trattava di una statua raffigurante la Madonna
di Lourdes, alta circa 50 cm. Non senza difficoltà era riuscito nell’intento,
soddisfatto di portare quell’omaggio agli abitanti di Vallecupa, una
contrada di Morrone, lontana dal centro abitato e dalle chiese del circondario.
Don Peppe percepiva il bisogno di quei contadini - una quindicina di
famiglie - di una presenza al cui cospetto fermarsi per un pensiero
o una breve orazione. Fu così che tornato a Morrone si recò da loro,
accolto entusiasmo e gratitudine. Ma la statua della Madonna di Lourdes
aveva bisogno di un luogo adeguato, che la riparasse dalle intemperie
e fu così che i più abili costruirono una nicchia in pietra, intorno
alla quale nel tempo fecero crescere una pergola a difesa dal sole.
Don Peppe fece stampare anche una immaginetta che recava sul retro la
“Canzoncina alla Madonna di Vallecupa” che egli stesso aveva composto
e da allora, ogni anno mantenne la tradizione. Passata la notte in casa
dei coniugi Raffaele e Antonietta, arrivava l’alba di un giorno tutto
dedicato a quella piccola comunità: don Peppe parlava con tutti, ne
ascoltava le storie, le gioie e i dolori, confessava i fedeli e infine
li raccoglieva per la messa davanti alla Madonna di Lourdes. La sera
era dedicata al divertimento e ai giochi, ai quali non si sottraeva,
sottoponendosi anche alle prove più divertenti, come lo “schiaffo del
soldato”. Ma non era quella l’unica occasione in cui don Peppe raggiungeva
Vallecupa, dove si recava sempre accompagnato dalla sorella Antonietta,
anche per impartire il catechismo ai bambini.
Il legame tra don Peppe
e i suoi compaesani era molto forte, ovunque essi abitassero, a Morrone
o all’estero. Quando ne aveva il tempo si avviava da solo verso Santa
Maria in Casalpiano per pregare e meditare. Maria Mastromonaco che abitava
nei pressi del convento di San Nazario, un giorno lo vide da lontano
e si spaventò: il sacerdote, scalzo, con gli orli dei pantaloni ripiegati,
un lembo della veste talare in una mano, mentre nell’altra teneva le
calze e le scarpe, stava camminando sui rovi che lo stesso marito di
Maria, per ripulire il bordo della strada, aveva da poco tagliato. La
donna si mise a correre verso don Peppe, dicendo a gran voce “Ma vedi
cosa stai facendo?”, indicandogli i piedi nudi, che sanguinavano sulle
spine. “Come Gesù Cristo…” si era limitato a dire il sacerdote. All’amico
Giovanni Mastromonaco che risiedeva in Canada, conoscendone la vena
poetica, don Peppe aveva chiesto di comporre dei versi da dedicare alla
Madonna. Giovanni si era schermito: “Don Peppe, tu sei teologo e chiedi
a me una poesia?”, poi però si era impegnato realizzando un testo che
piacque molto.
Alla
Madonna Assunta
Col tuo
celeste manto
cosparso
di stelle d’oro
come
un brillante cielo
di primavera,
col tuo
volto
d’Immacolata
rosa
lo sguardo
è fisso
verso
l’eternità.
O Madre
di Dio,
Madre
dei mortali,
Tu nel
tuo braccio sorreggi
Gesù,
nostro Redentore.
L’umanità
tutta intera
t’adora
e t’ammira
e ai
tuoi piedi s’inchina.
Regina
dei Cieli
Madre
di umili esseri,
il Tuo
nome vive perenne
nel cuore
dei tuoi figli.
Sui mari
e continenti
e nell’universo
intero
la tua
immagine
sfida
i secoli
e gloriosa
affiora
sulle
mortali cose
e sulle
miserie umane.
Oh Madre,
Madonna mia!
Pensando
a Te,
fervente
di Fede
battono
le mie ciglia,
e nel
pianto, ancora una volta
la pace
in me ritorna8.
Nel giugno del 1955
la chiesa della Maddalena aveva finalmente un tetto, ma il lavoro da
fare era ancora lungo. Il campanile era fermo all’altezza dei muri della
chiesa e mancava il portale. L’uscio alto 4 metri e largo 2 e mezzo
era tamponato con semplici tavole. Nel 1956 furono montati i vetri ai
finestroni e nello stesso anno, finalmente, sul pavimento costituito
dalla fredda gittata in cemento si tornò a celebrare la messa domenicale,
usando per altare umili tavoloni. La popolazione continuava a dare il
suo contributo di braccia e buona volontà, ma mancavano ancora circa
5 milioni per terminare i lavori. Il Ministero, il 6 dicembre del 1957,
comunicava di poter contribuire solo per la cifra di un milione e mezzo
di lire. Come accade spesso nelle opere di edilizia il consuntivo aveva
superato il preventivo e purtroppo le Istituzioni potevano basarsi solo
sulle previsioni di spesa. Ci volle molta determinazione per affrontare
tutti i problemi che uno alla volta, e talvolta tutti insieme, si presentavano.
E alle difficoltà materiali si aggiungevano quelle personali, perché
don Peppe non godeva di buona salute, come ebbe a relazionare mons.
Oddo Bernacchia, dopo la visita pastorale effettuata a Morrone il 28
ottobre del 1954: “Don Giuseppe Mustillo... tiene gli uomini di Azione
Cattolica... Sarebbe assistente di plaga... La plaga comprende Morrone,
Ripa, Casacalenda, Provvidenti... Malato. Merita tutto l’appoggio perché
possa superare la sua crisi di sofferente”.
Nel ‘58 l’impresa di
Peppino Niro completava il campanile e la posa in opera degli stipiti
del portale. In tanti anni il Comitato, coordinato sempre dal presidente
Carlo Iorio (padre del medico Raffaele Iorio), e costituito da Gabriele
Mastandrea, Luigi Tommaso, Angelo Mustillo e Michele Antonelli
che fungeva da cassiere, non si era mai stancato di fare incetta
di grano, olio e qualsiasi bene. L’obiettivo era ambizioso, servivano
ancora altri fondi per la ricostruzione della Maddalena e don Peppe
aveva deciso di varcare l’oceano, per andare a presentare il progetto
ai morronesi residenti in America. Ne aveva chiesta licenza il 23 maggio
del 1952 al cardinale Piazza, al quale aveva esposto su bella carta
intestata Chiesa nuova della Maddalena i vari scopi del viaggio,
che - oltre a quello già citato - erano di recare conforto ad un suo
fratello sofferente per una crisi matrimoniale, di visitare gli emigrati
e portare loro la “parola di un sacerdote della loro terra”, e infine
di poter trarre beneficio per la propria malferma salute.
Ma purtroppo proprio
la malattia gli impedì di intraprendere il viaggio. Nel 1954 appariva
chiaro che don Peppe doveva concedersi una pausa. Fu ricoverato a Re,
piccolo centro della Valle Vigezzo, in provincia di Novara, a 7 chilometri
dal confine con la Svizzera e a 710 metri di altitudine. Gli era stato
ordinato l’assoluto riposo e un’attività manuale che lo aiutasse a rilassarsi.
Fu così che don Peppe imparò a ricamare. Solo quando fu certo di riuscire
ad affrontare nuovamente i ritmi che lo attendevano a Morrone, partì
per tornare a casa.
Una sera del 1959 la
sorella Antonietta stava seduta in cucina, le lacrime le solcavano le
guance, mentre silenziosa stava immobile. “Antonietta cos’è successo?”,
le chiese don Peppe, che tornava dal Seminario di Larino, dove insegnava.
“Maria Teresa, la figlia adottiva dei Notarmaso, sta male - lei rispose
- è stata colta da encefalite e ora è in coma. I medici dicono che le
restano poche ore di vita, povera ragazza”.
Sembrava impossibile
che quella giovane volenterosa fosse in fin di vita. Rispettosa ed educata,
frequentava i corsi di cucito di Antonietta, che ne aveva apprezzato
la serietà e l’impegno nelle ore di insegnamento. Don Peppe, come faceva
nei momenti più difficili, quando ogni speranza sembrava perduta, si
rivolse in preghiera al beato Roberto da Salle (1273-1341), il discepolo
di papa Celestino V, che a Morrone del Sannio aveva vissuto i suoi ultimi
anni. Ciò che accadde dopo lo apprendiamo da una commossa cronaca pubblicata
nel 1961 da Gino Parente, nel volume dedicato al beato Roberto: “A Morrone
del Sannio, nell’anno del 1959, la giovanissima Maria Teresa Notarmaso,
di anni 21, da oltre quattro giorni giaceva irrigidita nel suo piccolo
lettuccio e non prendeva alcun cibo. Veniva nutrita con supposte. Il
dott. Mastandrea Giovanni, medico curante, non soddisfatto della sua
opera, convocò al capezzale della paziente i medici Iorio Raffaele e
Colasurdo Achille. In seguito fu fatto venire da Campobasso il prof.
Salvatore Saggese, il quale diagnosticò “encefalite”, ma nulla potè
fare. I genitori, abbandonata ogni speranza, fecero somministrare alla
giovane la estrema unzione e si attendeva la morte. Il Rev. don Giuseppe
Mustillo ebbe l’ispirazione. Ricorse alla intercessione del Beato Roberto
ed inviò, tramite la sorella Antonietta una reliquia del Beato all’inferma,
raccomandando di depositarla sotto il guanciale. Così fu fatto. Il giorno
successivo la giovinetta ritornò alla vita con guarigione completa tanto
da riprendere cibo e stare bene. Per tutto il Molise si gridò al miracolo
e ceri furono accesi all’altare del Beato e sante Messe furono celebrate
in tutte le chiese dell’abitato di Morrone”.
Fu così che da allora
i devoti del beato Roberto si recano ogni anno, nella giornata
del 18 luglio in pellegrinaggio al santuario di Salle, suo paese natio.
Finalmente, nel 1963,
don Peppe riuscì a partire per gli Stati Uniti, chi non c’era più era
il fratello Michele, chiamato “Mike”, morto il 22 febbraio 1953. I morronesi
accolsero il loro sacerdote con grande affetto, rispondendo generosamente
all’appello per la ricostruzione della Maddalena. A Newburgh don Peppe
fu integrato nelle funzioni ecclesiastiche, operando al servizio della
comunità per nove mesi. E’ ancora vibrante di emozioni il racconto che
egli fa del suo viaggio su L’Eco della Maddalena del 1966: “A
New York e Jersey. Su nave mercantile sono andato in America. Per nessuno
dei miei lettori è avvenuto questo. Ma nelle interminabili giornate
della nave da carico, nella visione sterminata e continua dell’oceano,
la mia anima ha saziato in parte la sete della solitudine nella quale
Dio parla al cuore. Per chi – mi chiedevo – ha creato il Signore questi
tramonti d’oro che quasi mai alcuno vede? Per chi ha creato il Signore
queste meravigliose aurore selvagge sulla punta irritata dei flutti
dell’oceano in tempesta? Seduto a poppa, di tanto in tanto, rallegrato
dalla visione di coste azzurre, sulle quali avrei voluto approdare con
cuore di apostolo, l’anima purificata dalle sofferenze del mal di mare
si sentiva più bianca, sposa di Cristo e Tempio dello Spirito Santo
e mi gorgogliavano nel cuore le parole di Sant’Agostino: Tardi ti ho
amato, o bellezza, tanto antica e sempre nuova. Sbarcando a New York
avevo in tasca 50 dollari, ma non ne spesi neanche uno. Quando venne
a prendermi il marito di Incoronata Mustillo, di felice memoria, volevo
regalare 5 dollari all’autista. Si schermì. Io non conoscevo ancora
il buon cuore degli americani. A Rutherford in una delle casette che
mi sembravano di fate, dormii saporosi sonni, ma sentivo ancora nelle
vene lo spasmodico beccheggio e rullìo della nave. Sembrava che il letto
si dondolasse. Poi il cervello e i nervi si placarono e, riposato, spalancai
gli occhi sul mondo nuovo: l’America. Quanta affabilità ho trovato dovunque!
Sembrava che un angelo invisibile mi preparasse la strada. Sempre una
casetta accogliente che mi ospitava, sempre una macchina pronta che
mi portava da un luogo all’altro. Appassionate scorribande sulle immense
strade di New Jersey, dall’Empire State Building di New York alla White
House di Washington, feci sulla macchina di John Ambrosio, un mio parente
che presi a voler bene come un papà. A Jersey fu organizzato un incontro
con i paesani la sera del 20 ottobre nella sala “La Nuova Vista”. Dovetti
rilevare in quella cordiale riunione l’elevatezza dei sentimenti, la
nobiltà, la gentilezza degli emigrati Morronesi a Jersey. Pronunziai
un breve discorso che fu riportato nel notiziario interno del “Progresso”.
(Segue lista delle offerte). A Vancouver. Questo angolo di mondo mi
diede la sensazione di essere il panorama più incantevole che abbia
mai visto. Montagne coperte di neve e pianure interminabili. Città raccolta
e sognante sulle rive pittoresche di una insenatura del Pacifico. Casette
di compaesani linde e graziose sui cui tappeti spesso scivolavo. Giardini
dalle graziose aiuole, cascate di tremolanti luci a sera per le lunghe
vie, ma soprattutto cuori affettuosi, affabilità di Angelina Giambattista
e Gabrieluccia Faccone, buone con me come mamme. (Segue lista delle
offerte) A Cleveland. Pochissimi gli amici e parenti a Cleveland. Ma
il soggiorno fu bellissimo per l’affetto che mi lega ai cugini Domenico
Immucci e Rita Mastandrea e la famiglia Taurozzi-Fimiani. A Syracuse.
La puntata più a nord degli U.S.A. Tre giorni in amabile compagnia con
Tony Romano e Angelo Ianzito. A Philadelphia. A Philadelphia il soggiorno
fu reso piacevole e gradito dalla conoscenza di antichi emigrati (le
famiglie Blescia e Amoruso) e dalla ospitalità di Luigi Iorio e consorte
Maria Domenica Carbone, nomi scritti all’Albo d’Oro della Carità. A
Newburgh. In questa città è la tomba del mio fratello Mike. Vi passai
l’inverno alla Sacred Heart Rectory dove conobbi il valore e la bontà
dei sacerdoti americani di origine italiana (Mons. Caluro ora porta
la Croce di Protonotario Apostolico, tanti auguri!) E il buon amico
Silvio Eanni che fa? Grande affetto trovai nei cognati di mio fratello:
Carmela Russo, l’incomparabile Albert Diamanti e Peter, il povero Peter
D’Amto, che ora riposa anche lui sotto le zolle del Cimitero di Newburgh.
Questi cari parenti mi offrirono 500 dollari per la Chiesa. A Montreal.
Mi sembrava di essere a Morrone quando venne a rilevarmi alla Bus Station
una frotta di compaesani. Angelo Michele Marino mise a disposizione
la sua casa , ma poi mi fu offerta una bellissima stanza alla Rettoria
di S. Raimondo. O festa di luci accese sulle rive del San Lorenzo! O
piacevoli sferzate del freddo tagliente sul volto nelle belle contrade
della metropoli canadese dove imparai a rintracciare da solo le case
dei compaesani. La Pasqua la passai tra i compaesani. In una dolce intimità,
solo per loro, celebrai la S. Messa nella sala della Rettoria. Vollero
organizzare una serata danzante in mio onore alla Rettoria. E fui presente
fino alle due di notte. Qualche malpensante fantasticherà! Io vi dico
che non ne potevo più per la stanchezza. E quando andai a letto pregai
tutti i santi dle cielo affinché mi facessero grazie di un po’ di sonno
ristoratore, il quale venne finalmente quando il sole faceva già capolino
nell’orizzonte. O cari amici, io vi ho tutti nel cuore. Risparmiatemi
di nominare quelli che più si sacrificarono. Fate tutto non per me,
ma per il Signore il quale solo può farvi le più belle grazie”.
Nel 1958, anno del
centenario dell’apparizione della Madonna di Lourdes, giunsero molte
offerte da oltre oceano: da Jersey City, 877 dollari per l’acquisto
dei candelieri e anche un altoparlante a due trombe da posizionare sul
campanile, i dischi con i vari suoni delle campane e un microfono per
il celebrante, e poi altre collette fruttarono oltre 16.000 dollari,
mentre in paese si raccolsero 160.000 lire in grano. Da Vancouver arrivarono
360 dollari per l’acquisto della statua della Madonna Maria Ausiliatrice,
opera di un artista della Val Gardena, Insam Prinoth. La statua fu benedetta
dal più giovane vescovo d’Italia, mons. Costanzo Micci, come si può
leggere nella fotonotizia di Vittorio Mastromonaco su “Il Tempo” del
26 novembre 1960.
Fu quindi la volta
dell’intonaco e dell’impianto elettrico, poi la scalinata della sagrestia
e la pavimentazione del piano di sopra, lavori curati dai fratelli Paolo
e Giovanni Moscatello.
Nel 1961 la ditta Angiolillo
e Terzani di Campobasso consegnò il portale in legno. Orlando
Fimiani si occupò invece della pavimentazione, realizzata grazie alle
cospicue rimesse giunte dai morronesi di Montreal e finalmente, una
domenica di luglio del 1962, la statua di Santa Maria Maddalena, che
da anni stava nella chiesa del beato Roberto, fu riportata in processione
nella sua chiesa. Fu allora che don Peppe ordinò l’architrave del portale,
con incisa la frase “Sancta Maria Magdalena dicata”.
Nel 1965 Carlo Iorio
scriveva la sua relazione: “In quest’anno, 8 dicembre 1965, solenne
chiusura del concilio Vaticano II vediamo la nostra tanta desiderata
chiesetta della Maddalena, nuova, ampliata, illuminata da 56 finestrelle
alla sommità e 10 finestroni sufficiente per arricchire di luce tutta
la chiesa. Il proporzionato soffitto viene ornato da 34 lunette. Oggi
la chiesa misura m. 16,20x8,60 per il popolo e m. 6,50x5,75 il presbiterio
per il clero e l’altare. Sotto l’attuale sacrestia abbiamo riscontrato
una fossa sepoltura vergine e in ottimo stato che misura appena m. 2,50x2,50
(potrebbe essere usata come deposito cacciando la porta a vico Cantu).
Sotto la chiesa avremmo voluto ricavarci una magnifica sala per espletare
tutte le necessità cattoliche; per la roccia che occupa tutto il suolo
della chiesa abbiamo potuto ricavare solo qui davanti un vuoto di circa
m. 8,60x5, sufficiente per una sala mediocre”.
E’ agli emigrati che
don Peppe si rivolge nuovamente in uno scritto del 1966: “Cari compaesani
degli Stati uniti d’America, cari amici del Canadà, fratelli del Venezuela
e dell’Argentina, emigrati in Svizzera e Germania, dopo tanto tempo
la mia voce, che si era fatta fioca, si leva di nuovo per raggiungere
i vostri cuori e alimentare la fiamma più ardente: quella della Fede
e dell’amor di dio. La fiamma della fede e dell’amore del Signore è
nel vostro spirito la più ardente, perché conoscono il vostro cuore
generoso; dovrà sempre essere la più ardente, perché sola rimarrà eternamente
nel finale silenzio delle cose umane. Io, Voi, negli anni più belli
della nostra vita abbiamo ingaggiata una battaglia e dobbiamo vincerla,
abbiamo mirato ad una meta e dobbiamo conquistarla. Voi comprendete
a che alludo: E’ la candida mole. È la nuova bianca Chiesetta che abbiamo
costruito al paese, è il Tempo di Santa Maria Maddalena. L’abbiamo costruita
con tanti sudori e dobbiamo completarla all’interno. E’ l’estremo sforzo.
E voi lo farete tanto più volentieri in quanto questo modesto contributo
dei vostri sacrifici continuerà a farci sentire fratelli, servirà a
tenerci sempre uniti nel cammino verso la Patria che non tramonta: il
Cielo. Voi cari emigrati, nelle immense regioni del mondo, vi avete
costruito una meravigliosa casetta, vi siete formato una posizione sociale
invidiabile, vi avete assicurato il pane per la vecchiaia, avete dato
ai vostri figli la possibilità di un brillante avvenire. Ma voi alimentate
nel cuore una vita ideale, perché non di solo pane vive l’uomo, perché
il cristiano non pensa solo alla propria casa, ma anche al Tempio del
Signore. Voi alimentate nel cuore una vita ideale che vuol dire: immagine
incancellabile del luminoso paese nativo: Morrone nel Sannio, terra
di Santi e di antichissime cristiane tradizioni. E a Morrone il vostro
pensiero corre all’opera più bella della presente generazione, il monumento
più caro che lasceremo ai posteri: la graziosa Chiesa di Santa Maria
Maddalena, la costruzione che ha visto i vostri entusiasmi più grandi,
i vostri sacrifici più rilevanti, le vostre gioie più pure. Ma ricordate
che per me quella Chiesa è soprattutto un simbolo. E’ il simbolo dell’amore
che ci lega. E’ l’amore che mi ha spinto sulle strade sterminate del
Nord America, nonostante la mia fragile salute. Ho rovistato in tutti
gli angoli delle grandi città degli Stati Uniti e del Canadà per scoprire
il cuore di un Morronese. E spesso la scoperta ha fatto scendere lacrime
dai nostri occhi, perché per me la malattia che non mi abbandona mai
è quella del cuore, è la malattia dell’amore: amore puro, disinteressato,
religioso, sacerdotale, ansioso di vedervi umanamente felici ed ansioso
soprattutto di assicurare la salvezza eterna della vostra anima. In
questi anni non sono mancate difficoltà e contrasti. Ma non ho paura
per quella forza morale che mi viene dalla coscienza incorrotta, e dall’ideale
che sempre mi brilla davanti: l’amore di Dio e la salvezza delle anime.
Gli entusiasmi dei primi anni sono a poco a poco scomparsi e mi sono
trovato a sostenere un peso diventato spesso enorme per due motivi specialmente:
la mia nuova occupazione in Seminario di Padre Spirituale dei piccoli
seminaristi e il grande flusso emigratorio del paese che vi ha dispersi
in tutto il mondo. E’ appunto per le mie numerose occupazioni che ho
trascurato di farvi annualmente un resoconto. Nonostante che voi da
buoni amici avete fiducia in me e che la mia povertà sia a tutti nota,
ho pensato di fare un resoconto del mio viaggio in America, perché non
può mancare al paese chi crede che in America chi sa quali somme favolose
abbia raccolto. In America ho fatto sempre notare che io non ero andato
a fare l’accattone, ma principalmente per trovare i miei buoni amici,
i compaesani. Le offerte mi furono date spontaneamente. Non ho mai chiesto
niente a nessuno, sebbene un tacito desiderio fosse palese a tutti:
quello di completare la Chiesa”.
Ma non sempre i lavori
di costruzione soddisfacevano don Peppe: “La Chiesa che abbiamo costruita
è tanto bella, ma in pochi anni l’avrebbe rovinata l’umidità. Per mancanza
di fondi abbiamo pensato troppo a risparmiare e, nonostante il bel disegno,
dell’Architetto Antonelli, i lavori sono riusciti spesso male. E’ mancata
durante i lavori la sorveglianza di un tecnico. I 56 finestrini superiori
erano e sono di grande effetto estetico. Ma alla base dei finestrini
mancava la pendenza e l’umidità penetrava dovunque. I telai non erano
stati fatti con criteri razionali e dai bei vetri gialli ogni volta
che soffiava il nostro impetuoso favonio, due o tre andavano in frantumi.
Sono stati il mio Calvario. E’ così che mi sono deciso a sventrare i
56 finestrini per una soluzione radicale. Ho fatto mettere in ogni finestrino
mensoline di pietra di Trani, inclinate e convenientemente ritagliate
per lo scolo dell’acqua. Ai finestrini laterali, ai vetri ho sostituito
lastre di plastica giallo-rosso. Alla parte ovest, le grondaie che prima
erano interne al muro le ho fatte collocare fuori e tra gli interstizi
delle pietre ho fatto fare la stuccatura a cemento. Quindi l’umidità
alla parte di Favonio è del tutto scomparsa. Alla parte della strada
nuova non mi sono deciso a mettere fuori le grondaie per l’estetica,
ma ho fatto collocare lastre di piombo sotto la grondaia, non avendo
però questa la pendenza, non sono ancora tranquillo. Quest’anno dovrò
fare anche la stuccatura di cemento tra gli interstizi delle pietre
alla parte della strada nuova. Anche dal terrazzino penetrava umidità
nell’abside. Vi ho fatto stendere tre strati di bitume con cartone catramato
con la pavimentazione di mattonelle e, a quattro finestrini dell’abside,
più investiti dal vento, ho fatto mettere quattro solidissime contro-finestre.
Come vedete, cari emigrati, ho bisogno ancora del vostro aiuto. Se tutti
quelli che ho conosciuto in America, offriranno un dollaro o due, potrò
dare un grande respiro di sollievo nelle mie difficoltà economiche.
Perché il mio disinteresse possa risvegliare la vostra generosità. Fo
rilevare che le spese dei miei viaggi furono coperte col mio danaro
personale. Il danaro raccolto durante le S.S. Messe alla Chiesa (in
media lire 600 la domenica) e quello nei giorni dei morti (in media
lire 10.000) è utilizzato per la pulizia della Chiesa, l’acquisto dei
ceroni per la lampada del SS. Sacramento, delle candele dell’altare,
della luce, dei fiori. Se sopravanza qualche cosa, il danaro è adoperato
per l’acquisto di oggetti più propriamente sacri. Così ultimamente ho
acquistato un leggio di metallo (lire 27.000) un piattino per la S.
Comunione, una teca”.
E ancora dalle pagine
dell’Eco della Maddalena si ricava una cronaca vivida di ciò
che accadeva durante i giorni della ricostruzione nel 1966: “Traduzioni.
Sul frontale della porta della vecchia cappella che abbiamo ricostruito
era scritto: Mihi et amicis meis – Per me e per i miei amici.
Sul frontale del nuovo artistico portale ho fatto scrivere: Sanctae
Mariae Magdalenae dicata – Dedicata a S. Maria Maddalena. Quando
avrò danaro, all’abside farò fare una pittura in cui S. Maria Maddalena
sia una figura di primo piano... Notizie Gradite. Abbiamo la gioia di
pubblicare che il Consiglio Comunale di Morrone ha deliberato la costruzione
della controporta della Chiesa della Maddalena. Al Sindaco, Ins. Silvio
Oto e ai bravi consiglieri le più vive grazie. Josephine Giambusso a
Jersey ha raccolto il danaro per comprare la Via Crucis. Nono sarà mesto,
ma bello il tuo ultimo giorno, se saprai sollevare chi è nel bisogno.
Why, if anyone gives you a cup of water to drink
in my name, because you are Christ’s, I promise you, he shall not miss
his reward (Mark 9, 41)”.
La chiesa della Maddalena
venne benedetta dal vescovo mons. Pietro Santoro in un uggioso 27 dicembre
del 1967, giorno di San Giovanni Apostolo, al quale la chiesa è anche
dedicata. Nello stesso giorno fu consacrato l’altare di marmo, all’interno
del quale il muratore Paolo Moscatello suggellò le sacre reliquie, che
come racconta Carlo Iorio “corse una voce che furono quelle di santa
Lucia, san Modesto e san Fortunato”. Alla messa cantata parteciparono
numerosi sacerdoti: don Giulio Mastrogiacomo, arciprete di San Martino
in Pensilis, don Salvatore Mucci, vicario vescovile e parroco di Larino,
don Ottavio, parroco di Ripabottoni, don Daniele Fimiani, parroco di
Morrone, le suore di San Paolo, giunte da Campobasso, le suore
dell’asilo di Morrone e la tanto amata suor Caterina dell’ordine di
San Giuseppe di Larino. I canti furono intonati dagli allievi del Seminario
di Larino. Tra le autorità civili vi era il segretario comunale Francesco
Burgarella e il commissario prefettizio, Armando Cimino, essendo il
sindaco Silvio Oto temporaneamente sospeso.
La vita di don Peppe
si snodava attraverso i numerosi impegni della sua missione. Padre spirituale
presso il Seminario di Larino, egli si divideva tra le attività di formazione
e quelle parrocchiali, mai risparmiandosi. Ed è proprio il lavoro uno
dei temi più presenti negli scritti di don Giuseppe Mustillo. Il pensiero
correva spesso agli emigrati che avevano solcato gli oceani, abbandonando
la loro terra per affrontare l’ignoto. Questo articolo, dal titolo
Morrone passione del cuore, fu scritto nel 1985, nel giorno di
San Giuseppe: “Ho iniziato a scrivere questi pensieri a voi oggi, 19
Marzo, festa di San Giuseppe, mentre un tiepido sole, dopo una invernata
rigida, ci riscalda con i suoi benefici raggi. Si vede per le strade,
vivificate da un soffio di primavera, qualche donnetta col piatto di
legumi e qualche ragazzo con la pagnottella, tradizionali doni della
devozione a San Giuseppe. Le montagne all’interno sono ancora tutte
coperte di neve, e nella conca di Santa Maria Casalpiano non ancora
appare il prodigio di tanti mandorli fioriti, simili, alla sommità del
fusto, a cascate di fuochi d’artifizio, ma con i petali bianchi e rosa
al riflesso del sole nascente. Non ancora le siepi sono fiorite d’albaspina,
sono ancora poche e timide le pratoline alle rive dei ruscelli. Ma verranno
i fiori più belli a rallegrarci, verranno le rondini, verrà il bel cielo
azzurro, tesissimo, risciacquato di fresco dall’acquazzone di Maggio,
il bel cielo di Morrone così bello, quant’è bello, così splendido, così
in pace. Oggi, San Giuseppe, ho celebrato due Messe alla Maddalena,
una alle 8 del mattino e una alle cinque del pomeriggio, e tutte e due
affollate dal popolo raccolto in preghiera nel pensiero devoto del dolcissimo
patriarca. Nella benedizione alla fine della Messa, la mia mente è andata
oltre le mura della Chiesa, oltre il paese, lontano lontano, oltre gli
oceani, è andato a voi cari emigrati per benedirvi con tanto amore e
tanta passione”.
Egli stesso infaticabile nelle occupazioni quotidiane, non cessava mai,
infatti, di sottolineare l’importanza di mantenere un sano equilibrio
tra l’impegno verso le cose materiali e l’attenzione verso quelle spirituali.
In questo articolo dal titolo Consonanza col supremo magistero,
si rivolge ai morronesi per sollecitarli ad affrancarsi dalla materialità
e a perseguire non solo legittimi obiettivi terreni ma anche il
benessere dell’anima: “Le mie parole sul lavoro, scritte il 19 marzo,
trovano una superiore conferma in espressioni ben più alte e profonde
che il Papa Giovanni Paolo II, celebrando quest’anno San Giuseppe con
i lavoratori della Marsica, ha pronunciato in un messaggio al mondo
da Telespazio nella piana del Fucino. Il lavoro è una dimensione
fondamentale dell’esistenza umana. Il lavoro perfeziona l’uomo, lo rende
più uomo. Il lavoro è fonte di ricchezza e di benessere.
Il lavoro diventa in qualche modo prolungamento e compimento del
progetto di Dio nel creato. Ma non basta il lavoro per realizzare la
vocazione dell’uomo. Proprio nel sistema del lavoro adombrato dai giorni
della creazione risuona il comando del Signore: Il settimo giorno è
per onorare il Signore Dio Tuo. E’ proprio questo comando del Signore
che i nostri agricoltori maggiormente trascurano. E allora sarebbe poco
riconosciuta la dignità dell’uomo. Ci sarebbe il declino verso l’abbrutimento.
I nostri agricoltori morronesi e di tutta l’Europa, nella grande maggioranza,
non sono più agricoltori, sono imprenditori agricoli, provvisti dei
più moderni mezzi di lavoro. La zappa e gli scarponi non sono più simbolo
degli agricoltori. I campi sono tutti intersecati da strade camionabili.
I lavoratori possono fare una enorme quantità di lavoro in più. Ma invece
di ringraziare il Signore trascurano la Messa e il precetto del riposo
festivo. Così l’altra dimensione del lavoro, quella cristiana è trascurata.
L’uomo diventa schiavo del lavoro. Non è più signore ma servo”.
Egli era peraltro attento
alla stridente dissonanza tra l’incalzante consumismo e la sofferenza
umana: “Quando vediamo il progresso delle conquiste scientifiche, le
immense metropoli simili, nella notte, ad oceani di piccole luci, la
conquista degli spazi, le avventure cosmiche, proviamo quasi lo stesso
stupore del primo prodigio della creazione. Ma le conquiste della tecnica
sono conquiste del lavoro umano. Ammiriamo i tecnici e i lavoratori
dell’immenso cantiere terrestre. Molte volte però penso ai malati, agli
emarginati, ai sofferenti, agli esclusi da queste audacie del progresso
che portano anche un più elevato tenore di vita personale e forse un
nome e una risonanza nella storia. Agli ammalati, ai poveri, agli esclusi
vorrei porgere una parola di conforto. Voi non siete ai margini della
vita, siete al centro della vita. Voi non siate gli esclusi del progresso,
ma i veri protagonisti dell’esistenza, purché sappiate unire le vostre
sofferenze alle sofferenze di Cristo, che con la sua croce è al centro
della storia, è il vero propulsore del progresso, perché è l’Autore
della vita e del cosmo rinnovato. Vi è un mondo invisibile più bello
di quello visibile: vi è il mondo della grazia, della bellezza dell’anima,
dell’eroismo morale, della fortezza cristiana, della gloria che un giorno
si aprirà ai vostri occhi. Nella sventura, nella solitudine, nel dolore,
nelle angosce, perseverate nell’unione all’agonia di Cristo e conquisterete
anche voi un popolo, avrete con Gesù in eredità le genti. Sarete voi
i veri artefici della pace del mondo. L’apostolato della sofferenza
è il più bello. Cristo imparò l’ubbidienza dalle cose che patì.
Una ubbidienza edulcorata dal successo e dal trionfalismo ha scarso
valore. Una povertà decorosa, e una malattia rassegnata e offerta sono
un tesoro per la Chiesa di Dio e controbilanciano l’edonismo, il consumismo
e anche l’avidità di domino e di sopraffazione nei governanti, riscattando
l’armonia tradita”.
Era il 1985, la ricostruzione
durava già da quarant’anni ed ecco l’ipotesi di decorare la sommità
delle pareti della Maddalena con vetrate istoriate, idea formulata dall’architetto
Antonelli e accolta con entusiasmo dallo stesso don Peppe, come leggiamo
sul n. 4 della rivista Eco della Maddalena: “Da questo giornalino
mandiamo un saluto e un ringraziamento all’Ingegnere Dott. Cesare Antonelli,
architetto della Chiesa, a cui si deve l’idea di collocare vetrate con
scene della storia della salvezza, suggerimento che io accolsi subito
con grande entusiasmo e scelsi i soggetti. Abbiamo fiducia che il Prof.
Signorini, che esegue il lavoro, si ponga nell’alveo della grande tradizione
artistica fiorentina”. Nello stesso numero della pubblicazione don Peppe
si rivolgeva di nuovo agli emigrati: “L’ultimo traguardo. Cari emigrati
morronesi del Canadà, degli Stati Uniti, del Venezuela, dell’Argentina,
della Germania, della Svizzera, del Nord Italia e residenti al paese.
Ancora una volta la mia voce si fa viva in mezzo a Voi. Non è più la
voce di un giovane. Siamo infatti al tramonto e non all’alba, alla sera
e non al mattino. Ma il tramonto ha per me un particolare fascino. Quando
dal nostro Castello vedo dense nubi dove il sole tramonta, nuvole color
rosso vivo o rosa pallido e altre oscure e minacciose, con qualche raggio
luminoso che filtra tra esse, lo spettacolo si abbina sempre nella mia
mente a un grande scenario come sfondo a una crocifissione, con una
croce di colossali dimensioni e su di essa Gesù sanguinante e dolorante.
Il mio cuore sussulta e sospira e sento un forte invito alla contemplazione,
all’amore e al saggio operare perché quando l’Agnello verrà per le nozze
ci trovi con la lampada accesa delle buone opere. Non vogliamo morire
con le mani in mano, ma vogliamo operare sempre più intensamente, lavorando,
pregando o soffrendo. Dunque cari amici la mia penna ha ancora da dirvi
parole fiammanti. Non direte: ecco una nuova predica, una nuova sinfonia
di Don Peppe con le note conclusive di una richiesta di aiuto. Non direte
questo, perché voi tutti che mi conoscete, guardando indietro, alla
vostra giovinezza, ricorderete come gli anni più blandi e tranquilli,
animati da grande entusiasmo e allietati da sincera gioia, sono legati
al ricordo dell’aiuto che mi avete dato per la costruzione della Chiesa
di Santa Maria Maddalena. Noi abbiamo costruito un gioiello di Chiesa
che parlerà di noi alle future generazioni di Morrone, e sarà un mezzo
di formazione e trasformazione spirituale, continuerà il nostro apostolato
quando non saremo più. Tutti quelli che guardano all’interno e all’esterno
della Maddalena rimangono ammirati e soggiogati da uno stile sobrio,
animato, ricco e aperto a ulteriore sviluppo artistico. Ultimamente
abbiamo pensato di collocare, nei dieci finestroni a punta di diamante,
10 vetrate d’arte con le scene e le figure più significative della Storia
della Salvezza: - La cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre;
- Il sacrificio di Abramo; - Mosè con le tavole della legge; - Il Re
David; - La Natività di Gesù; - Il Battesimo di Gesù; - Il Discorso
della Montagna o delle Beatitudini; - L’Ultima cena; - Il Getsemani;
- Gesù risorto che appare alla Maddalena. Sono uno sviluppo artistico,
corale e armonioso, istruttivo e pacificante con figure e scene incise
su vetri colorati dalla Ditta Fontana di Sesto Fiorentino (Firenze)
che sta già eseguendo 4 finestroni con le scene della Natività di Gesù,
del Battesimo di Gesù, del Discorso della Montagna, dell’Ultima Cena.
Con le vetrate d’arte la Chiesa sarà uno scrigno luminoso per la custodia
della Santa Eucaristia dell’originale Tabernacolo posto accanto all’altare,
e per la celebrazione della Santa Messa, l’atto centrale del culto cristiano
dove ci immoliamo con Gesù al Padre per la nostra salvezza e la salvezza
del mondo. Quando saranno complete le rifiniture e i lavori necessari
per togliere le macchie di umidità, la Chiesa sarà un purissimo e caldo
riflesso del nostro purissimo e caldo amore a Gesù “Che bell’altare”
disse il nostro Vescovo, Mons. Cosmo Francesco Ruppi quando venne due
anni fa per la Visita Pastorale. Ma voi sapete quanti sacrifici ho fatto
per l’altare perché per esso mi sono recato negli Stati Uniti a raccogliere
offerte”.
IN quella stessa estate
la ditta Fontana Quentin di Sesto Fiorentino procedeva alla produzione
delle dieci vetrate artistiche, realizzate in vetro antico Saint Just,
dipinte con grisaglia, cotte a gran fuoco, rilegate in trafila di piombo
e inserite in climalit (camera d’aria). Ogni vetrata, alta tre metri
e larga 75 cm, aveva un costo di 2.642.000 lire che era comprensivo
della posa in opera di cui si doveva occupare il geom. Domenico Iorio,.
Mai dimentico dei giovani
don Peppe a loro indirizza questo scritto: “L’avvenire è dei giovani”
ripete spesso il Papa Giovanni Paolo II. Ma a condizione che essi sappiano
vivere con serietà la loro vita, operando una scelta fondamentale: quella
del Signore Gesù, del suo insegnamento. Della sua sequele, della sua
luce, ed anche della sua croce, quando ci chiama a una vocazione di
sofferenza. Perché tutto è bello nella vita quando si vive nella luce
e amore di Cristo. Dio sarà infallibilmente fedele se noi saremo fedeli.
Orbene guardando al vostro passato, alla vostra giovinezza, all’aiuto
che mi avete dato nella costruzione della Chiesa, come all’aiuto che
avete dato alle opere religiose della Nazione che vi ospita, voi vi
accorgerete che è proprio questo impegno per le opere buone che vi darà
la sensazione di aver vissuto con serietà la vostra giovinezza. Sarà
proprio l’impegno per il bene, nel sostegno dell’azione pastorale dei
vostri della stessa razza e della stessa religione che si combattono
fino allo sterminio vicendevole, il solo mezzo per non sentirci disertori,
è di prendere il nostro posto in trincea: quello del cristiano che sa
sacrificarsi per la sua famiglia e insieme per il prossimo che è nel
bisogno, quello di saper morire per un ideale, quello del seme che,
come dice Gesù, sa marcire nel terreno perché spunti il segno perenne
della vita: la spiga biondeggiante, una vitalità irresistibile di benedizione”.
Dopo oltre quarant’anni
di operosa attività, giunge il documento ufficiale dal Vescovado di
Larino, con il quale si conferisce la rettoria della chiesa della Maddalena
al rev. don Giuseppe Mustillo. Alla comunicazione il vescovo Ruppi acclude
una affettuosa nota di ringraziamento per il grande lavoro svolto.
di Giovanni Mastromonaco
La
Maddalena
Dai ruderi
sorge
imponente
e pregiata
in pietra
intagliata
la Maddalena.
Con braccia
ferree
mani
artigiane
e la
volontà tenace
di Don
Peppe pure:
il miracolo
appare!
Fra le
sue mura
il Vangelo
risuona,
la Fede
si rifugia.
E la
Maddalena vive
nella
storia,
nei cuori.
Ammirata
dal passante
baciata
dal sole,
accarezzata
dal vento
e da
esotici aromi.
E così
sfiderà il Tempo:
sempre
più grigia,
sempre
più bella!
Nel 1989 don Peppe
sente avvicinarsi l’ora dell’addio e scrive il suo testamento spirituale:
“Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo Stendo questo
Testamento per quanti mi vogliono bene e per il popolo di Morrone per
il quale ho esercitato il mio apostolato per lo spazio di 40 anni e
per il quale ho costruito una Chiesa Nuova. Lo compongo soprattutto
per la gloria di Dio per dimostrare il mio amore a Gesù. Al limite della
mia vita e al termine dei miei 74 anni non mi riconosco sacerdote fervoroso.
Penso alla maggioranza dei confratelli più riusciti di me nel campo
dell’apostolato e con più vasto raggio di azione e più profondità e
più coerenza di vita. Ma intendo vivere quel che mi rimane ancora con
totale dedizione a Dio e con l’offerta amabile delle mie pene e sofferenze.
L’unico rincrescimento è quello di non essermi fatto santo. Ma spero
di vivere santamente la prova suprema con l’aiuto di Dio. Mi esamino
nelle virtù. L’amore a Dio e al prossimo. Mi riconosco deficiente nell’uno
e nell’altro. Per amare veramente Dio è necessario il distacco non solo
dal peccato, ma anche dal fascino delle cose create. La bellezza delle
creature oscura il bene e travolge l’animo senza malizia (Sapienza 1-16).Spero
di aumentare nell’amore con l’aumento delle sofferenze. Specialmente
all’approssimarsi della fine le sofferenze purificano l’anima nel mentre
la distaccano dalle cose mondane. L’amore al prossimo. Non ho avuto
modo di aiutare i bisognosi e così crescere nell’amore del prossimo.
Ho modo però di arricchirmi tacendo dinanzi alle numerose critiche ricolte
a tutto il settore del mio operare. Spero di diventare migliore perdonando
a tutti e chiedendo perdono a tutti. Dalle molte tribolazioni deduco
che Gesù mi ha associato alla sua morte e quindi a compiere il più grande
atto di amore verso il prossimo”.
Una delle ultime azioni
di don Peppe fu quella di donare dieci milioni di lire all’infanzia
abbandonata, accompagnando il gesto con semplici parole: “Il fondo Culto
mi ha dato questi soldi e al fondo Culto li restituisco”. L’atto di
generosità colpì molto la sensibilità del Papa, che volle ringraziarlo
con una lettera.
Don Peppe morì il 21
giugno del 1997 a 82 anni, nel giorno di quel Santo al quale la madre
lo aveva tante volte accostato per la dedizione e il coraggio, san Luigi.
I funerali furono officiati dal vescovo mons. D’Ambrosio e venti sacerdoti,
nella commozione dell’intera comunità.
Così lo ha ricordato,
in un articolo dal titolo Don Peppe, figura da ricordare sulle
pagine di un quotidiano locale, Michele Urbano: “Ordinato da Mons. Bernacchia
56 anni fa, don Mustillo ha lavorato alla formazione dei giovani seminaristi
nei seminari di Termoli e Larino come Padre spirituale, Professore di
latino e di greco, Dottore in sacra teologia, scrittore di alcune pubblicazioni
di ampio respiro teologico. Ha pubblicato nel 1977 Le relazioni trinitarie
in Sant’Agostino e San Tommaso, dove traspare la sua profonda conoscenza
teologica arricchita dalla conoscenza delle lingue antiche e moderne.
Don Peppe, come veniva chiamato a Morrone, ha insegnato alla gente le
cose della fede. Ha parlato con il loro linguaggio dell’evangelio, quello
semplice che fa breccia nel cuore di ogni uomo. Un’intera generazione
è stata formata dalla sua testimonianza discreta e umile. Bambini, giovani,
adulti, tutti hanno beneficiato dell’insegnamento di don Peppe. Un uomo
di vera carità, avvalorata da gesti concreti, di solidarietà sinceri
e segreti. Se abbiamo perso un uomo di saggezza e di sapienza, ha detto
don Mario Colavita, parroco, abbiamo guadagnato un intercessore presso
Dio. La testimonianza di don Peppe non passerà e questo la gente di
Morrone lo sa”.
Vittorio Mastromonaco,
nel suo personale ricordo di don Peppe, scrisse: “L’esempio della sua
vita è ora un incoraggiamento, una speranza per tutti noi che gli volemmo
e gli vogliamo ancora bene; e tutti i morronesi, sotto ogni cielo, ne
conserveranno in futuro il ricordo”.
E questo fu il discorso
del sindaco allora in carica, Angelo Iorio: “Con la dipartita dalla
vita terrena di don Giuseppe Mustillo, oggi salutiamo la coscienza morale
di Morrone, salutiamo il professore, il teologo, salutiamo colui che
ha lavorato tanto perché la nostra comunità progredisse e si sviluppasse
nel nome e sull’esempio tracciato da Nostro Signore e soprattutto perché*
conservasse intatti ed inalterati i valori fondamentali dell’esistenza
umana: la famiglia, il rispetto del prossimo, il senso del lavoro e
il vivere cristiano, salutiamo lo scrittore, il filosofo cha ha propagandato
la cultura, anche morronese, al di là dei confini della nostra regione.
Salutiamo il sacerdote, il missionario, il pastore, l’essere umano.
Con la sua proverbiale modestia e umiltà ha saputo sempre dare a tutti
indistintamente non solo un esempio di vita cristiana ma anche una parola
di conforto, di incoraggiamento e di speranza. Lo vogliamo ricordare,
anche come giovane ed intraprendente sacerdote, che, lasciando tante
volte il paese natio, ha svolto con abnegazione ed altruismo la missione
pastorale, tra i numerosi emigranti morronese nelle lontane Americhe
del Nord e del Sud, dove, spinto anche da un profondo spirito di iniziativa,
ha raccolto fondi e contributi per portare a compimento, con immensi
sacrifici la Chiesa della Maddalena. Tale caratteristico tempio, costruito
in pietra locale, dagli artigiani scalpellini morronesi, resterà per
sempre, per noi tutti e per le future generazioni, non solo un luogo
di preghiera, di raccoglimento e di culto, ma sarà la perenne e vivente
testimonianza della sua attività e della sua opera meritoria ed instancabile
sempre in direzione della diffusione della parola e dell’insegnamento
di Cristo. Ci piace dare atto anche del suo essere umile, schivo, generoso,
sempre pronto e disponibile per svolgere l’alta funzione di discepolo
del Signore in mezzo ai contadini, agli umili ai più bisognosi e ai
giovani morronesi.Caro don Peppe, tu ci hai insegnato, in tante occasioni,
che la morte porta via l’uomo, la persona, la materia, ma non certamente
le sue idee, le sue opere, il suo insegnamento. Tu hai sempre detto,
durante le omelie pronunziate in occasione della morte dei nostri cari,
di non disperarsi, di non soffrire, di non addolorarsi, di non piangere
perché nell’aldilà ci aspetta una vita sicuramente migliore. Oggi questa
stessa tua frase la rivolgiamo forte forte, profondamente commossi e
costernati soprattutto alla tua diletta sorella Antonietta e a tutti
i tuoi cari ma anche a quanti soffrono per la tua scomparsa terrena.
Caro don Peppe tu ci lasci in eredità, oltre alla chiesa della Maddalena,
oltre innumerevoli esempi di bene, oltre i pregevoli scritti, che adesso
assumono un significato ancora più profondo, ci lasci soprattutto il
ricordo della tua umiltà, semplicità, della generosità... difficile
sarà dimenticarti certi, però, dell’esempio che hai voluto dare alle
nuove generazioni. Arrivederci don Peppe e grazie, dal profondo del
cuore per quanto hai fatto per l’intera nostra comunità e soprattutto
grazie per quello che ci hai insegnato”.
di san Luigi Gonzaga
Guardati
dall’offendere
l’infinita
bontà divina,
piangendo
come morto
chi vive
al cospetto di Dio
e che
con la sua intercessione
può venire
incontro
alle
tue necessità
molto
più che in questa vita.
La separazione
non sarà lunga.
Ci rivedremo
in cielo
e insieme
uniti all’Autore
della
nostra salvezza
godremo
gioie immortali,
lodandolo
con tutta la capacità dell’anima
e cantando
senza fine le sue grazie.
Egli
ci toglie quello
che prima
ci aveva dato
solo
per riporlo
in un
luogo più sicuro
e inviolabile
e per
ornarci di quei beni
che noi
stessi sceglieremmo.
Alcuni pensieri spirituali di Don Peppe
Tutto concorre al bene di quelli che
amano il Signore. Quindi in tutte le circostanze della vita bisogna
avere sempre fiducia (31 ottobre 1988)
Tante croci, tante sofferenze, tante
umiliazioni, tante incomprensioni possono essere il segno che Dio ci
assegni una meta più alta di santità e una corona più fulgida (31 ottobre
1988)
In tante circostanze abbiamo il desiderio
quasi invincibile di chiarire, di difenderci, di accusare gli altri.
Non è meglio tacere e far parlare la realtà? Non colui che si raccomanda
da sé è approvato da Dio, ma colui che Dio raccomanda (21 novembre 1988)
Chi persevererà sino alla fine sarà
salvo. Preziosa al cospetto del Signore è la morte dei suoi santi. La
morte è come il martirio. Chi l’accetta con la pace e nell’amore dà
una testimonianza a Gesù come nel martirio. Vive in pieno l’insegnamento
del Signore. Vale più la sofferenza rassegnata e offerta per le anime
che tutti i tesori e la gloria del mondo (6 dicembre 1988)
Signore Gesù, tu non puoi più soffrire.
Eccomi per fare la Tua volontà. Accetta le mie pene e i miei dolori
per la salvezza delle anime e la diffusione del Tuo Regno. Vergine Immacolata,
in questo poco tempo che mi rimane a vivere, fa che io sia un piccolo
riflesso della Tua bontà e purezza. Fiducia, sempre fiducia. Madre mia,
fiducia mia (7 dicembre 1988)
Quando l’offerta della nostra vita al
Signore è totale, allora la sua presenza diventa crocifiggente ma anche
trasformante e santificante (16 dicembre 1988)
Il passaggio attraverso la Croce è condizione
necessaria per arrivare alla creazione nuova. (Giovanni Paolo II). Ma
i cieli nuovi e la terra nuova ci sono già quando la mano e il cuore
sono carità (11 maggio 1989)
San Bartolomeo. Il tempo che mi resta
da vivere si accorcia. Voglio vivere nell’amore. E’ la sofferenza che
sostiene il mondo. Con tutte le forze voglio aiutare Gesù a salvarlo.
Mai avrei potuto salvare le anime come in questi giorni, senza speranze
umane e pieni di sofferenze fisiche e morali (24 agosto 1989)
Qual è l’insegnamento più bello di San
Francesco? E’ la gioia nelle pene, nelle sofferenze. La letizia nella
suprema rinunzia. “Beati quelli che sopporteranno infermitate e tribolazione.
Beati quelli che le sopporteranno in pace, che da te altissimo saranno
incoronati”. In Francesco non c’è solo la letizia nei mali che il Signore
ci manda, ma anche la letizia nel dono spontaneo delle privazioni liberamente
scelte che culminano sul “duro sasso della Verna”. In Francesco la santità
è mundizia e castitate angelica e le sue ascesi verso Dio sono come
il volo dell’angelo. Ma l’amore è la fiamma più grande. Lo spogliamento
completo da tutto è divenuta ricchezza che ha alimentato una infinità
di opere in tutti i tempi per alleviare le sofferenze dei poveri, messaggero
di pace. Dove è odio che io porti amore (4 ottobre 1989)
Il tempo che non soffro mi pare tempo
inutile, il tempo che soffro mi sembra di valore eterno. Certo se non
si ha salute non si può lavorare. Ma se il Signore ci chiama sostituirlo
sulla Croce, facciamolo con amore e gioia (1 ottobre 1989)
Signore, quanto soffro! Ma ti prego
con Sant’Agostino: “Qui taglia, qui brucia, qui non perdonare, perché
tu possa perdonare eternamente” (10 ottobre 1989)
Signore non voglio essere felice senza
di Te. Non vorrei essere ricco senza di Te. Non vorrei essere triste
senza di Te, perché essere ricco senza di Te è disperazione. Essere
sapiente senza di Te è buio fitto di una notte senza stelle e ignoranza
somma (23 maggio 1992)
Quando sei tentato pensa a Gesù in Croce,
non ti allontanare da Lui e supererai la prova. Sembra una cosa ovvia.
Eppure la dimentichiamo (23 febbraio 1993)
Testimonianze
Don Peppe, esempio di vita
di Roberta
Colasurdo
Quando si inizia un
viaggio nelle pieghe della memoria, per ricordare un evento, una vicenda,
una persona, come in questo caso, le cose che emergono sono episodi,
frasi, risa e sembra tutto confuso, le immagini fanno a botte fra loro
per quella che deve emergere più prepotentemente, avendo l’impressione
che sia quasi difficile poter ricordare con chiarezza. Volendo ordinare
i tanti ricordi posso iniziare questo mio piccolo racconto su che cosa
è stato per me, per la mia vita da ragazzina, e poi da adolescente,
la persona di Don Giuseppe Mustillo.
Don Peppe, così familiarmente
da tutti chiamato, è stata la persona che mi ha permesso di scoprire
la fede e la voglia, da adulta, di essere un’educatrice, la persona
che ha fatto sentire importante me come tutti i ragazzini miei coetanei.
Don Peppe era la persona sempre disposta a trascorrere del tempo coi
giovani, a dar loro fiducia, a regalare spensieratezza, a dar loro un
luogo dove incontrarsi (la sala Don Bosco sottostante la chiesa della
Maddalena), per giocare o semplicemente per non stare buttati in mezzo
ad una strada. Infatti, la Sala Don Bosco era arredata con tanti giochi
e strumenti musicali, non risparmiandosi di comprarne sempre di nuovi.
Don Peppe era una persona
silenziosa, discreta, ma indimenticabili sono le sue risate ed i suoi
insegnamenti canori (ricordo ancora l’inno di “Don Bosco” o il canto
“13 maggio” sulla Madonna cui lui era molto devoto) o le tombolate natalizie
con la possibilità di vincere torroni, panettoni e caramelle. L’idea
era di creare un oratorio con tanti ragazzi così come aveva fatto S.
Giovanni Bosco e di trasmettere quello spirito goliardico e religioso
del santo. Non a caso il 31 gennaio era sempre festa per noi ragazzi
e per chi volesse partecipare alla messa ed ai festeggiamenti “culinari”
nella Sala a lui dedicata. Riusciva a raccogliere attorno a sé ragazzi
e giovani senza troppe parole, la sua fede era semplicemente stare con
loro, stare con noi.
La prima cosa che ricordo
e dalla quale tutto è iniziato è l’ACR (Azione Cattolica Ragazzi). A
quel tempo i nostri educatori erano Dora Cinelli, Maria Assunta Alfieri,
Vanna Minotti e Antonio Colasurdo. Attraverso l’ACR noi ragazzini abbiamo
scoperto che si poteva stare insieme, giocare, ridere ed anche pregare;
abbiamo conosciuto un Dio tenero, accogliente, amorevole pronto a sostenerci,
seppur in quei tempi di tutto questo non eravamo ancora consapevoli..
C’incontravamo, cantavamo,
giocavamo, pregavamo e tutto aveva un sapore speciale perché eravamo
insieme ai nostri amici e c’erano delle persone sempre disponibili e
vicine a noi. Iniziarono così le prime esperienze dei campi scuola,
gli incontri diocesani con altri ragazzi, i raduni.
La presenza discreta
di Don Peppe, fece sì che gli impegni di noi ragazzini nella Parrocchia
diventassero sempre più importanti: le mansioni di chierichetto, riservate
però, per espresso volere del sacerdote, ai soli ragazzi; le prime letture
in Chiesa; la rappresentazione del Presepe vivente durante le funzioni
natalizie; le letture durante i venerdì di quaresima della Via Crucis;
le pulizie della Chiesa della Maddalena (lasciando a noi ragazzine le
chiavi e la possibilità di andarci come e quando volevamo); la devozione
alla Vergine Maria, vivendo il mese di maggio, imparando e recitando
il Santo rosario.
A questo proposito
è doveroso ricordare anche la sorella di don Peppe, Antonietta Mustillo.
La sua presenza è stata sempre costante e vicina al fratello sia nella
preghiera sia nell’organizzare dolcetti in occasione della festa di
S. Giovanni Bosco o pranzetti per i partecipanti del mese di maggio,
pranzo che diventava sempre una gita in campagna per trascorrere così
una giornata in allegria e spensieratezza.
Ricordo con un po’
di stretta al cuore, e questo perché i ricordi si intrecciano un po’
più da vicino con quelli della mia famiglia, anche la messa durante
il mese di maggio, presso la Madonna di Vallecupa. Un po’ di nostalgia
mi assale perché molte di quelle persone impegnate affinché ogni anno
durante il mese di maggio fosse celebrata una messa presso la piccola
Madonnina posta sui tufi di Vallecupa, ora non ci sono più.
Da quando Don Peppe
non ebbe più le forze di andare dai “vallacupari”, mangiare con loro,
confessarli e vivere il mistero dell’eucaristia la tradizione gradualmente
è scomparsa, così come le persone che l’hanno realizzata negli anni.
Pensare a tutto questo può mettere un po’ di malinconia: ricordare un
periodo sereno e spensierato come può essere quello che si vive da ragazzini,
pensare a persone che ora non sono più visibili nel nostro cammino,
ma in fondo ai ricordi resta la concreta consapevolezza di un grande
insegnamento di vita che nessuno potrà cancellare, che mi ha permesso
di essere la persona che sono oggi e di come tante mie scelte sono state
fatte alla luce di una fede acquisita, non con tante parole, ma con
tante esperienze, con tanta preghiera e con un esempio reale che è stato
Don Giuseppe Mustillo.
.
Non è certamente passato invano...
di Gennaro
Barone (21 giugno 2000)
Ricorre in questi giorni
il terzo anniversario della scomparsa di don Peppe Mustillo, un’altra
indimenticabile pietra miliare di Morrone, che certamente ha contribuito
in larga parte a caratterizzarne la storia di questi ultimi anni.
Questa non è una sua
biografia: non sarei in grado di stenderla non avendo i necessari approfonditi
elementi conoscitivi. Voglio però in questo contesto sottolineare alcuni
aspetti della sua personalità, ovviamente a me noti, che gli hanno consentito
di avere con Morrone e i suoi abitanti un rapporto del tutto particolare,
probabilmente da riscoprire senza alcun tornaconto, sfidando in qualche
occasione anche ingiuste incomprensioni.
Lo avevo ascoltato
numerose volte nelle sue prediche caratterizzate più che altro da quella
inconfondibile voce possente ed impostata, forse mai modulata da un
invalidante calo dell’udito che gli causava qualche problema di comunicazione
con gli altri. E proprio quella singolare modalità di parlare mi aveva
sovente distolto dal seguire i contenuti delle sue animose omelie, giudicate
forse dagli ascoltatori (me compreso) più per le improvvise impennate
di voce che per i messaggi che essa voleva trasmettere.
Un po’ per questo,
un po’ perché “nemo est propheta in patria”, il caro don Peppe, seppur
amato in vita, è andato ad infoltire la numerosa schiera di coloro che
sono apprezzati e rimpianti per quello che effettivamente valgono, solo
quando non ci sono più.
Di animo semplice,
trasparente, coerente fino alle conseguenze estreme, si è prodigato
nell’ultima parte del suo apostolato sacerdotale, esclusivamente per
la sua Morrone, vivendo in umiltà e sorretto da un incrollabile spirito
di servizio. Il non avere incarichi ufficiali, lo ha ovviamente privato
di mezzi di sostentamento costanti e sicuri e ciò, bisogna sottolinearlo,
nobilita e avvalora di più il suo essere stato pastore di anime, anche
senza avere in affidamento uno specifico gregge.
Da quando ho cominciato
a frequentare Morrone, mi aveva sempre incuriosito quella figura di
altri tempi vestito in modo tradizionale, rigido nei principi, riservato,
attento a non destare negli altri la benché minima critica, essenziale
nel saluto e nel rapporto col prossimo.
Negli anni in cui si
leggeva don Milani, si diffondevano le Comunità di Base, ci si ispirava
a Don Franzoni e ai Cristiani per il Socialismo, agli occhi di chi (come
me) dava prioritaria importanza all’impegno sociale della chiesa, il
povero don Peppe appariva come un concreto esempio di chiesa pre-conciliare
attenta in gran parte alla forma e alle sole cose dello spirito.
E in effetti lui era
un vero asceta, incline alla meditazione probabilmente praticata anche
durante le lunghe passeggiate, fatte in solitudine sulla rotabile che
porta al cimitero, stringendo immancabilmente tra le mani i grani del
suo Rosario. In un paese in rapido calo demografico, dove a chi vuole
lavorare altro non resta che cambiare residenza o nazionalità, mi chiedevo
che ruolo positivo potesse avere la chiesa se i suoi rappresentanti
operavano come don Peppe. Mi sbagliavo...
Un giorno di qualche
anno fa, avendolo incontrato per strada, colsi nel suo consueto rispettoso
saluto, l’intenzione di fermarsi e di scambiare qualche parola. Lo feci
volentieri prendendo al volo l’occasione di soddisfare tante mie curiosità
su quel particolare prete.
Parlammo a lungo (credo
un paio d’ore senza che me ne accorgessi) spaziando da argomenti di
etica a problemi esistenziali di un certo spessore. Mi sentii
veramente a mio agio, sorpreso di trovarmi di fronte ad una persona
che credevo fosse diversa. Inevitabilmente si parlò del paese, dei suoi
problemi, dei malati, degli anziani soli, della solitudine... Erano
temi sui quali in effetti doveva aver a lungo “meditato”, vista la precisa
analisi che ne faceva, con chiarezza quasi scientifica. E poi i giovani,
la carenza di valori, la disgregazione delle famiglie, il dramma della
disoccupazione, la mancanza di solidarietà...
Ma dov’era l’improduttivo
asceta? Ma chi mi trovavo di fronte?
Piacevolmente sorpreso
da quella inaspettata scoperta, da quel giorno seguii con maggiore attenzione
i “movimenti” di don Peppe che comunque in giro, cosa nota a tutti,
si mostrava poco.
Lo vidi qualche settimana
dopo (erano circa le 13) con un pentolino ben chiuso stretto tra le
mani, inforcare una “ruera di capemmont” e sparire furtivo in un umile
portoncino, bene attento a non farsi notare.
Chiesi informazioni
in merito ad un’anziana signora che, abitando in quella zona, stava
seduta davanti casa sua, con un occhio sul lenzuolo che stava ricamando
e con l’altro pronto a registrare quanto accadeva nel circondario. Seppi
da lei che da tempo don Peppe divideva il suo frugale pranzo con un
anziano malato, offrendogli così anche il conforto di un po’ di compagnia.
Toccai con mano come
il giudizio formulato su una persona, nella realtà potesse essere totalmente
sbagliato.
Posi così maggiore
attenzione alle sue omelie ascoltandole al di là della voce impostata
e possente e delle sue improvvise impennate. Capii che don Peppe non
poteva non esistere e che per Morrone era davvero importante. Le sue
opere non sbandierate, silenziose e discrete, credo che siano le cose
più preziose che resteranno di lui.
Non mi dilungo più
per non cadere in una retorica celebrativa.
Don Peppe nel 1981
curò la preparazione al matrimonio dei giovani fidanzati di quell’epoca.
Lo frequentai di buon grado e con vivo interesse.
All’ultimo incontro
colle fare un dono a tutti noi, “un qualcosa - disse - che avrebbe dovuto
accompagnarci per l’intera vita e che non avremmo mai dovuto dimenticare”.
Tirò fuori dalle tasche del suo lungo abito scuro, sette foglietti e
li consegnò ai futuri “capi-famiglia” dopo averne letto il contenuto.
Sul foglietto che toccò a me (era una pagina di un vecchio quaderno)
era riportata, scritta di suo pugno questa frase tratta dai Promessi
Sposi: “...Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba
mai la gioia de’ suoi figli se non per prepararne loro una più certa
e più grande...”
Era fatto così don
Peppe, umile pastore di anime, fedele operaio della vigna del Signore,
operoso nel silenzio, riservato e semplice. Non è certamente passato
invano...
Alcuni ultimi pensieri spirituali di
Don Peppe
Tutto concorre al
bene di quelli che amano il Signore. Quindi in tutte le circostanze
della vita bisogna avere sempre fiducia.
31 ottobre 1988
Tante croci, tante
sofferenze, tante umiliazioni, tante incomprensioni possono essere il
segno che Dio ci assegni una meta più alta di santità e una corona più
fulgida.
31 ottobre 1988
In tante circostanze
abbiamo il desiderio quasi invincibile di chiarire, di difenderci, di
accusare gli altri. Non è meglio tacere e far parlare la realtà? Non
colui che si raccomanda da sé è approvato da Dio, ma colui che Dio raccomanda.
21 novembre 1988
Chi persevererà
sino alla fine sarà salvo. Preziosa al cospetto del Signore è la morte
dei suoi santi. La morte è come il martirio.
Chi l’accetta con
la pace e nell’amore dà una testimonianza a Gesù come nel martirio.
Vive in pieno l’insegnamento
del Signore. Vale più la sofferenza rassegnata e offerta per le anime
che tutti i tesori e la gloria del mondo.
6 dicembre 1988
Signore Gesù, tu
non puoi più soffrire. Eccomi per fare la Tua volontà. Accetta le mie
pene e i miei dolori per la salvezza delle anime e la diffusione del
Tuo Regno. Vergine Immacolata, in questo poco tempo che mi rimane a
vivere, fa che io sia un piccolo riflesso della Tua bontà e purezza.
Fiducia, sempre fiducia. Madre mia, fiducia mia.
7 dicembre 1988
Quando l’offerta
della nostra vita al Signore è totale, allora la sua presenza diventa
crocifiggente ma anche trasformante e santificante.
16 dicembre 1988
Il passaggio attraverso
la Croce è condizione necessaria per arrivare alla creazione nuova.
(Giovanni Paolo II). Ma i cieli nuovi e la terra nuova ci sono già quando
la mano e il cuore sono carità.
11 maggio 1989
San Bartolomeo.
Il tempo che mi resta da vivere si accorcia. Voglio vivere nell’amore.
E’ la sofferenza che sostiene il mondo. Con tutte le forze voglio aiutare
Gesù a salvarlo. Mai avrei potuto salvare le anime come in questi giorni,
senza speranze umane e pieni di sofferenze fisiche e morali.
24 agosto 1989
Qual è l’insegnamento
più bello di San Francesco? E’ la gioia nelle pene, nelle sofferenze.
La letizia nella suprema rinunzia. “Beati quelli che sopporteranno infermitate
e tribolazione. Beati quelli che le sopporteranno in pace, che da te
altissimo saranno incoronati”. In Francesco non c’è solo la letizia
nei mali che il Signore ci manda, ma anche la letizia nel dono spontaneo
delle privazioni liberamente scelte che culminano sul “duro sasso della
Verna”. In Francesco la santità è mundizia e castitate angelica e le
sue ascesi verso Dio sono come il volo dell’angelo. Ma l’amore è la
fiamma più grande.
Lo spogliamento
completo da tutto è divenuta ricchezza che ha alimentato una infinità
di opere in tutti i tempi per alleviare le sofferenze dei poveri, messaggero
di pace. Dove è odio che io porti amore.
4 ottobre 1989
Il tempo che non
soffro mi pare tempo inutile, il tempo che soffro mi sembra di valore
eterno. Certo se non si ha salute non si può lavorare. Ma se il Signore
ci chiama sostituirlo sulla Croce, facciamolo con amore e gioia.
1 ottobre 1989
Signore, quanto
soffro! Ma ti prego con Sant’Agostino: “Qui taglia, qui brucia, qui
non perdonare, perché tu possa perdonare eternamente”.
10 ottobre 1989
Signore non voglio
essere felice senza di Te. Non vorrei essere ricco senza di Te. Non
vorre essere triste senza di Te, perché essere ricco senza di Te è disperazione.
Essere sapiente senza di Te è buio fitto di una notte senza stelle e
ignoranza somma.
23 maggio 1992
Quando sei tentato
pensa a Gesù in Croce, non ti allontanare da Lui e supererai la prova.
Sembra una cosa ovvia. Eppure la dimentichiamo.
23 febbraio 1993
Guardati
dall’offendere
l’infinita
bontà divina,
piangendo
come morto
chi
vive al cospetto di Dio
e
che con la sua intercessione
può
venire incontro
alle
tue necessità
molto
più che in questa vita.
La
separazione non sarà lunga.
Ci
rivedremo in cielo
e
insieme uniti all’Autore
della
nostra salvezza
godremo
gioie immortali,
lodandolo
con tutta la capacità dell’anima
e
cantando senza fine le sue grazie.
Egli
ci toglie quello
che
prima ci aveva dato
solo
per riporlo
in
un luogo più sicuro
e
inviolabile
e
per ornarci di quei beni
che
noi stessi sceglieremmo.
San
Luigi Gonzaga
Ringraziamenti
Ringrazio don Gabriele
Tamilia e don Mario Colavita per avermi incoraggiata sul cammino. Un
pensiero speciale al compianto Mons. Ruppi, che accolse con favore l’opera
acconsentendo a scriverne la prefazione.
A Tonio, che con
affetto sempre mi sostiene e aiuta in ogni iniziativa.
A mia madre Jolanda,
per avermi trasmesso l’amore per questa terra e per la nostra cultura
e a mia sorella Claudia e suo marito Stefano per il loro esempio.
A Saverio e Maria,
per i consigli e la generosità.
Un grazie all’instancabile
amico della cultura Giuseppe Storto, per aver concesso la riproduzione
del suo prezioso archivio documentale e iconografico.
Ad Angela Mastromonaco
e a suo marito Gianni Fortunato per aver messo a disposizione i testi
del papà Vittorio Mastromonaco.
Per la squisita
gentilezza un grazie al responsabile dell’Archivio diocesano di Termoli
e Larino, Giuseppe Mammarella.
Agli amici Padovo
Alfonso, Gennaro Barone, Giovanna Colasurdo, Roberta Colasurdo, Renato
Immucci, Giovanni Mastromonaco, Maria Mastromonaco e Angelo Mustillo
per le testimonianze, i documenti e i ricordi che hanno voluto condividere
con i lettori di queste righe.
Un grazie postumo
al buono e paziente Carlo Iorio che affidando ad un quaderno le sue
memorie ha permesso di ricostruire le fasi della ricostruzione della
chiesa di Santa Maria Maddalena.
Grazie soprattutto
a don Peppe, per averci consegnato un ricordo così prezioso, modello
di virtù e di impegno e alla sua amatissima sorella Antonietta, per
avermi consentito di raccontare una storia così bella. A lei va il mio
abbraccio affettuoso, con il grande rammarico di non essere riuscita
a completare questo umile lavoro prima che ci lasciasse.
Stefania
Pedrazzi
La Maddalena
di
Giovanni Mastromonaco
Dai ruderi
sorge
imponente
e pregiata
in pietra
intagliata
la Maddalena.
Con braccia
ferree
mani
artigiane
e la
volontà tenace
di Don
Peppe pure:
il miracolo
appare!
Fra le
sue mura
il Vangelo
risuona,
la Fede
si rifugia.
E la
Maddalena vive
nella
storia,
nei cuori.
Ammirata
dal passante
baciata
dal sole,
accarezzata
dal vento
e da
esotici aromi.
E così
sfiderà il Tempo:
sempre
più grigia,
sempre più bella!