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I Il Sud e l'unità d'Italia |
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Parte Seconda
8.
Il Sud prima dell'Unità
Industria
metalmeccanica e siderurgica
Flotta
Mercantile e Cantieristica Navale
Produzione
tessile
Cartiere
Industria
Estrattiva e Chimica
L’Industria
conciaria
L’Industria del
corallo
Saline
Vetri e
Cristalli
Agricoltura ed
allevamento
Il sistema
monetario, il costo della vita, la tassazione
Opere
pubbliche
Arte Cultura e
Scienza
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Parte Seconda
8. Il Sud prima dell'Unità
Come risultò dalla Esposizione Internazionale di Parigi del
1856, le Due Sicilie erano lo Stato più
industrializzato d'Italia ed il terzo in Europa, dopo Inghilterra e Francia.
Dal censimento del 1861 si deduce che, al momento
dell'Unità, le Due Sicilie impiegavano nell'industria ad una forza-lavoro pari
al 51% di quella complessiva italiana (1). I
settori principali erano: cantieristica navale,
industria siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica, conciaria, del
corallo, vetraria, alimentare. Nel periodo borbonico (1734-1860) la popolazione si era triplicata ad indicare l'aumentato benessere,
relativamente ai livelli di quei tempi. Nel 1860 vi erano poco più
di nove milioni d'abitanti e la parte attiva era circa il 48%. Le Due Sicilie
erano lo Stato italiano preunitario più esteso: comprendeva tutto il Sud
dell'Italia, la Sicilia, l'Abruzzo, il Molise e la parte meridionale
dell'attuale Lazio. La sua storia era cominciata nel 1130 con l'unificazione
compiuta da Ruggero II d'Altavilla. Il regno durò quindi 730 anni, durante i
quali i suoi confini rimasero in pratica invariati. Le dinastie che si
susseguirono ebbero origini straniere e questo avvenne per l'oggettiva
incapacità di generarne una propria, ma occorre rilevare che i sovrani divennero
in breve dei Meridionali a tutti gli effetti, assumendone la lingua e le usanze (2). Dopo l'Unità, la classe liberale
meridionale contribuì a seppellire sotto una valanga di mistificazioni gli
aspetti positivi del Regno delle Due Sicilie, per giustificare la propria
adesione alla causa unitaria. Francesco Saverio Nitti ai primi del 1900
rilevava: "Una delle letture più interessanti è quella dell'Almanacco Reale dei
Borboni e degli organici delle grandi amministrazioni borboniche. Figurano quasi
tutti i nomi di coloro che ora esaltano più le istituzioni nostre [del regno
d'Italia] o figurano, tra i beneficiati, i loro padri, i loro figli, i loro
fratelli, le loro famiglie
(3)". In realtà l'opera dei
sovrani meridionali fu per molti versi meritoria: con loro il Sud non solo
riaffermò la propria indipendenza ma vide un indiscutibile progresso
dell'economia, lo sviluppo del commercio ed il fiorire dell'industrializzazione.
All'epoca di Francesco II, l'ultimo re, l'emigrazione era sconosciuta, le tasse
molto basse come pure il costo della vita, il tesoro era floridissimo. In campo
culturale Napoli contendeva a Parigi la supremazia europea. "La storiografia
ufficiale continua ancora a sostenere che, al momento dell'unificazione della
penisola, fosse profondo il divario tra il Mezzogiorno d'Italia e il resto
dell'Italia: Sud agricolo ed arretrato, Nord industriale ed avanzato. Questa
tesi è insostenibile a fronte di documenti inoppugnabili che dimostrano il
contrario, ma gli studi in proposito, già pubblicati all'inizio del 1900 e poi
proseguiti fino ai giorni nostri, sono considerati dai difensori della
storiografia ufficiale, faziosi, filoborbonici, antiliberali e quindi non attendibili
(4)". In realtà la Questione
Meridionale, tutt'oggi irrisolta, nacque dopo e non prima
dell'unità.
La politica economica dei sovrani meridionali fu improntata a
diversificare l'economia, allora prevalentemente agricola come nel resto
d'Italia e di gran parte d'Europa, favorendo lo sviluppo dell'industria,
dell'artigianato e del terziario. Come in altri Stati, anche le Due Sicilie
adottarono un iniziale sistema di protezione doganale, che consolidò la nascente
industrializzazione, permettendole di raggiungere dimensioni tali da reggere il
confronto con il mercato. In tale prima fase, l'obiettivo di Ferdinando II era
quello di avere un'industria in grado di soddisfare la domanda interna, per
limitare al massimo le importazioni e quindi la dipendenza dall'estero. Il
protezionismo fu poi gradualmente mitigato dal 1846 per inserire l'industria,
ormai matura, nel meccanismo del commercio europeo: al posto delle vecchie
barriere doganali, si strinsero numerosi trattati commerciali. Grazie alla guida
di Ferdinando II già nel 1843 gli operai e gli artigiani raggiunsero il 5%
dell'intera popolazione occupata (il 7 % alla vigilia dell'Unità), con punte
dell'11% in Campania che divenne la regione più industrializzata d'Italia.
Complessivamente, per quanto riguarda la parte continentale del Regno, nel 1860
vi erano quasi 5000 opifici. All'epoca era il datore di lavoro a fissare salario
ed orario, e il ceto operaio del Sud fu il primo in Italia ad acquisire
coscienza, reclamando aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro (5). In occasione del Congresso degli
Scienziati, tenutosi a Napoli nel 1845, si cercò di arginare le rivendicazioni
affermando che essendo nelle Due Sicilie "più facile e meno caro il vitto, non è
il caso di apportare variazioni salariali (6)".
Al momento dell'Unità la bilancia commerciale del Regno delle Due Sicilie
presentava un bilancio era attivo di 35 milioni di ducati (pari a circa 560 milioni di Euro)
(7). Sempre nel 1861 la
percentuale dei poveri nel Sud era pari al 1,34% (come si ricava dal primo
censimento ufficiale) in linea con quella degli altri stati preunitari. Per
attuare la sua politica di sviluppo, Ferdinando II creò grandi aziende statali,
ma incentivò anche il sorgere di aziende con capitale suddiviso in azioni di
piccolo taglio, per coinvolgere nella proprietà anche i ceti medi. Nel 1851 fu
istituita la "Commissione di Statistica generale pe' reali domini continentali"
allo scopo di guidare la politica economica del Paese, cui si affiancavano le
Giunte Statistiche costituite in ogni provincia e circondario. Altra importante
istituzione governativa fu l'Istituto d'Incoraggiamento che incentivava
l'iniziativa degli imprenditori privati. Da parte sua il Ministero dei Lavori
Pubblici si dedicò allo sviluppo delle comunicazioni interne: di fronte ad una
simile politica economica, capitali e imprenditori, nazionali ed esteri,
accorsero nel Regno. La critica liberistica ha denunziato gli elevati costi di
produzione dell'industria statale delle Due Sicilie, sottacendo l'organica
visione dell'economia ferdinandea, in cui si privilegiava lo sviluppo
occupazionale senza spostare masse dai luoghi di origine. Lo sviluppo guidato
dallo Stato rappresentò un modello originale, e per certi versi pericoloso, in
quanto metteva in crisi le logiche meramente liberiste, all'epoca prevalenti.
Per questo motivo la propaganda liberale si scagliò contro tale modello di
sviluppo. Il rapporto privilegiato del Re con i ceti popolari fu presentato come
paternalismo che, assieme al protezionismo, fu bollato dalla
storiografia ufficiale quale espressione di una politica miope e retrograda. Si
trattò di un modo per nascondere la verità, ad uso e consumo dei vincitori: i
proprietari terrieri, eredi del feudalesimo, e la inconcludente borghesia dei
"paglietti" contro di cui Ferdinando II aveva invano combattuto. Passiamo ora ad
esaminare le varie fonti di ricchezza economica del Sud.
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Industria metalmeccanica e
siderurgica
Nei pressi di Napoli, a Pietrarsa, era attiva la
più grande industria metalmeccanica d'Italia, estesa su
una superficie di oltre tre ettari. Tra l'altro, era l'unica fabbrica italiana
in grado di costruire motrici a vapore per uso navale
(8). A Pietrarsa fu istituita anche la
"Scuola degli Alunni Macchinisti" che permise alle Due Sicilie, unico Stato
della Penisola, ad affrancarsi dalla necessità di disporre di macchinisti navali
inglesi. A Pietrarsa venivano costruiti cannoni ed altri armamenti; venivano
realizzati prodotti meccanici per uso civile, vagoni, locomotive ed i binari
ferroviari (di cui in Italia solo Pietrarsa disponeva della tecnologia
costruttiva). Lo stabilimento, inaugurato nel 1840, precedeva di 44 anni la
costruzione della Breda e di 57 quella della Fiat. Era uno stabilimento rinomato
in tutta Europa e lo Zar Nicola I, dopo averlo visitato, lo prese come esempio
per la costruzione del complesso di Kronstadt. Accanto a Pietrarsa sorgevano la
Zino ed Henry (poi Macry ed Henry) e la Guppy, entrambe con 600
addetti. Quest'ultima fornì, tra l'altro, il supporto delle 350 lampade per
l'illuminazione a gas di Napoli (che fu la terza città europea ad averla, dopo
Londra e Parigi).Viceversa al Nord, alla vigilia dell'unità, solo l'Ansaldo di
Genova era a livello di grande industria (aveva 480 operai contro i 1.000 di
Pietrarsa). Nel 1861, al momento dell'unità, vi erano tre fabbriche in Italia in
grado di produrre locomotive: Pietrarsa e Guppy nelle Due Sicilie ed Ansaldo a
Genova: l'efficienza e la concorrenzialità delle aziende del Sud è comprovata
dal fatto che prima dell'unità esportassero in Toscana e anche in Piemonte (nel
1846 nelle Officine di Pietrarsa furono realizzate sette locomotive per il Regno
di Sardegna: Pietrarsa, Corsi, Robertson, Vesuvio, Maria Teresa, Etna e
Partenope)
(9).
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La ferriera di Mongiana sorgeva nei dintorni di Serra
San Bruno, nel cuore dell'aspra montagna calabra ricca di minerale di ferro, ed
occupava un'area di più di un ettaro. Poco distante, fu più tardi costruita
Ferdinandea: oggi Mongiana è un borgo di pochi abitanti e Ferdinandea è
spopolata, ma nel trentennio che precedette la fine del Regno il fermento era
vivissimo. Nel marzo del 1861, quando fu proclamato il Regno d'Italia, gli
addetti allo stabilimento di Mongiana erano 762 e si produceva ghisa e ferro
malleabile d'ottima qualità che servì per la realizzazione delle
catene, da circa 150 tonnellate, dei due magnifici ponti sul Garigliano e sul
Calore (realizzati rispettivamente nel 1832 e nel 1835). Il complesso
siderurgico calabrese di Mongiana e Ferdinandea era, fino al 1860, il maggiore
produttore d'Italia di ghisa e semi-lavorati per l'industria metalmeccanica:
produsse a pieno regime 13.000 cantaja di ghisa annue (circa 1.150 tonnellate).
Altri impianti metallurgici erano attivi in tutti il Sud ma è "impossibile
elencare tutti i piccoli e medi opifici metalmeccanici sorti grazie
all'intraprendenza degli artigiani locali o di imprenditori del settore tessile
interessati ad acquistare le macchine necessarie" (10).
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Flotta Mercantile e Cantieristica
Navale
Le Due Sicilie disponevano di una
flotta mercantile pari ai 4/5 del naviglio italiano ed era la quarta
del mondo: ne facevano parte oltre 9800 bastimenti ed un centinaio di questi
(incluse le militari) erano a vapore (11);
fu la prima flotta italiana a collegare l'Italia con l'America ed il
Pacifico. Con circa quaranta cantieri di una certa rilevanza, era nettamente in
testa rispetto al resto d'Italia. Il primo vascello a vapore del
Mediterraneo fu costruito nelle Due Sicilie nel 1818 e fu anche il primo al
mondo a navigare per mare e non su acque interne: era il Ferdinando I,
realizzato nel cantiere di Stanislao Filosa al Ponte di Vigliena presso Napoli.
l'Inghilterra dovette aspettare altri quattro anni per metterne in mare uno, il
Monkey, nel 1822. All'epoca fu tanto grande la meraviglia per quella nave, che
fu riprodotta dai pittori in numerosi quadri, ora sparsi per il mondo, come ad
esempio quello della Collezione MacPherson e l'altro della Camera di Commercio
di Marsiglia. Il cantiere di Castellammare di Stabia, con 1.800 operai,
era il più grande del Mediterraneo. Al momento della conquista piemontese
stava attrezzandosi per la costruzione di scafi in ferro. L'arsenale-cantiere di
Napoli, con 1.600 operai, era l'unico in Italia ad avere un bacino di
carenaggio in muratura lungo 75 metri.
Sono patrimonio delle Due Sicilie anche: la prima compagnia
di navigazione a vapore del Mediterraneo (1836), che svolgeva un servizio
regolare e periodico compreso il trasporto della corrispondenza; navi come il
"Real Ferdinando" che potevano trasportare duecento passeggeri da Palermo
a Napoli; la prima convenzione postale marittima d'Italia; la stesura del
primo codice marittimo italiano del 1781 (ad opera di Michele De Jorio di
Procida, che fu copiato da Domenico Azuni il quale se ne assunse la paternità),
frutto di una tradizione che risaliva ai tempi delle Tavole della Repubblica
Marinara di Amalfi e delle legislazioni meridionali successive. Le principali
scuole nautiche erano a Catania, Cefalù, Messina, Palermo, Riposto (CT),
Trapani, Bari, Castellammare, Gaeta, Napoli, Procida, Reggio
(12). Fu riattivato il porto di Brindisi
(1775) che era chiuso da secoli. Nel 1831 entrò in servizio la nave "Francesco
I" che copriva la linea Palermo, Civitavecchia, Livorno, Genova, Marsiglia. La
stessa nave anche effettuò la prima crociera turistica del mondo, nel
1833, in anticipo di più di 50 anni su quelle che seguirono: durò tre mesi con
partenza da Napoli, arrivo a Costantinopoli (dove destò l'ammirazione del
sultano) e ritorno con diversi scali intermedi. La crociera fu così splendida
per comodità e lusso che fece dire " Non si fa meglio oggi" e " Il Francesco I è
il più grande e il più bello di quanti piroscafi siansi veduti fin d’ora nel
Mediterraneo, gli altri sono inferiori, i pacchetti francesi "Enrico IV" e "
Sully" hanno le macchine di forza di 80 cavalli (mentre la macchina del
Francesco I è di 120) (...) i due pacchetti genovesi si valutano poco, il "Maria
Luisa" (del Regno di Sardegna) è piccolo, la sua macchina non oltrepassa la
forza di 25 cavalli, e quantunque una volta siasi fatto vedere nei porti del
Mediterraneo, adesso è destinato per la sola navigazione del
Po." (13). Nel 1847 fu introdotta per la prima
volta in Italia la propulsione a elica con la nave "Giglio delle Onde".
Erano operativi regolari servizi passeggeri che collegavano i principali porti
delle Due Sicilie: isole come Ponza, Ustica, Lampedusa, Linosa furono ripopolate
affrancando la popolazione residente dall'incubo delle incursioni dei pirati
barbareschi.
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Produzione tessile
Prima dell’Unità il settore cotoniero vantava quattro
stabilimenti con 1.000 o più operai (1425 alla Von Willer di Salerno, 1160
in un’altra filanda della provincia, 1129 nella filanda di Pellazzano, 2159 in
quella di Piedimonte e un migliaio nella Aninis-Ruggeri di Messina); nello
stesso periodo gli stabilimenti lombardi a stento raggiungevano i 414 operai
della filatura Ponti. Tutto il Salernitano divenne il comprensorio in cui si
concentrò per eccellenza l’industria tessile, che fiorì anche ad Arpino nella
valle del Liri, nel circondario di Sora. "Un particolare riferimento va fatto
per il lino e la canapa: con quest’industria, nella quale trovavano impiego ben
100.000 tessitrici e 60.000 telai, fu così dato lavoro a tutto un mondo rurale
prevalentemente femminile" (14).Il medesimo sviluppo coinvolse la produzione della lana grazie
all'introduzione di capi razza "merino", conservando la manifattura i caratteri
di industria domestica. Il Sud era inizialmente indietro nella produzione della
seta, che incideva solo per il 17,5% della produzione complessiva italiana. In
seguito all’incremento delle piantagioni di gelsi ed all’allevamento del baco si ebbe dal 1835
(15) un rinnovato sviluppo
dell’industria della seta e nuove filande sorsero in Calabria, in Lucania, in
Abruzzo. Molto famoso in tutta Europa era l’opificio di San Leucio, che godeva
di un particolare statuto, redatto da re Ferdinando I. Ricordiamo anche gli
stabilimenti di Nicola Fenizio che davano lavoro a più di 4 mila persone e che
esportavano in tutto il mondo, tanto che i concorrenti arrivarono a contraffarne
il marchio.
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Cartiere
Le cartiere meridionali erano fiorenti a livello
internazionale. Ricordiamo quella di Fibreno, la più grande d'Italia e
una delle più note d'Europa con 500 operai, oltre a quelle del Rapido, della
Melfa, della costiera amalfitana. Nella sola valle del Liri
(16) il giro d'affari delle nove cartiere
della zona era di 8-900 mila ducati annui, grazie anche agli ingenti
investimenti fatti per dotarle delle migliori tecniche dell'epoca. Le cartiere
avevano destato l’ammirazione dei maggiori industriali del ramo: nel 1829
Niccolò Miliani, proprietario delle note cartiere di Fabriano, visitò la Valle
del Liri e si meravigliò di vedere "un foglio di carta grande come un lenzuolo",
e si chiese "come diavolo si potevano ottenere formati così grandi". Le cartiere
del Sud, grazie all’elevata qualità del prodotto esportavano sia nell’Italia
settentrionale che all'estero.
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Industria Estrattiva e
Chimica
Il Sud disponeva dell'importantissima produzione dello
zolfo siciliano, che copriva il 90% della produzione mondiale e da sola
assorbiva il 33% degli addetti di tutta l'industria estrattiva italiana. Aveva
un peso economico notevolissimo e ancora negli anni immediatamente post-unitari
provenivano dal Sud i 2/3 delle produzioni chimiche italiane. La chimica
industriale dell’800 era quasi del tutto basata sullo zolfo, specialmente
l'industria degli esplodenti per le armi: è pertanto chiaro l’enorme valore
strategico di tale produzione ed il conseguente atteggiamento dell’Inghilterra
nella questione "degli zolfi siciliani". A Napoli e dintorni sorsero anche
fabbriche di amido, di cloruro di calce, di acido nitrico, di acido muriatico,
di acido solforico ed infine di colori chimici. Le risorse del sottosuolo
(zolfo, ferro, bitume, marmo, pozzolana) erano sapientemente sfruttate a livello
industriale.
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L’Industria
conciaria
Era un settore sviluppato e di gran pregio: a Napoli, a
Castellammare, a Tropea, a Teramo; in Puglia erano sorte concerie per i cuoi che
giungevano nel Regno per l’ultima finitura. Venivano prodotti finimenti di
cavalli e carrozze, selleria, stivali, cuoi di lusso, esportati in Inghilterra,
Francia, America. Nell’ambito della lavorazione delle pelli ci si specializzò
nella produzione di guanti. A questa lavorazione e dovuto il nome ad uno dei più
centrali quartieri di Napoli: "I guantai nuovi". I guanti napoletani
erano reputati i migliori d’Europa (se ne producevano il quintuplo di
Milano, Torino e Genova messe assieme) e costavano meno di quelli prodotti in
Francia: per questo si esportavano ovunque, anche in Inghilterra dove l’Arsay,
redigendo le leggi del perfetto gentiluomo, asseriva la necessità dell’uso di
sei diverse paia di guanti al giorno.
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L’Industria del
corallo
Particolarmente pregiati i coralli del mare in prossimità
di Trapani, della penisola sorrentina, di Capri. Erano dei più vari colori, dal
bianco marmoreo, al rosso, al nero d’ebano ed erano destinati all’oreficeria e
all’ornamento di arredi e oggetti sacri. La pesca, faticosa e pericolosa, era
effettuata calando delle speciali reti lanciate in mare dalle barche in
movimento. I più arditi erano i corallari di Trapani, seguiti da quelli di Torre
del Greco che vantavano dalle tre alle quattrocento feluche con sette uomini
ognuna. Michele di Iorio, insigne autore del "Codice di navigazione" sotto
Ferdinando IV, redasse anche un "codice corallino". Fu istituita la "Compagnia
del corallo" per facilitare il credito, e furono fondate fabbriche-scuola per la
lavorazione a Torre del Greco ed a Napoli. L’industria del corallo era così
fiorente che si arrivò in breve a quaranta fabbriche con 3.200 operai. Fu
istituita anche un’apposita fiera, dal primo all’otto maggio di ogni anno, molto
frequentata da compratori stranieri.
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Saline
Situate in Puglia ed in Sicilia erano le più importanti
d’Europa. Le prime erano considerate dai Borbone "la perla della loro
corona", soprattutto da Ferdinando II che le visitò più volte e migliorò le
condizioni di vita dei salinari. Nel 1847, in località San Cassiano, fondò la
colonia agricola di San Ferdinando di Puglia (nel 1879 ribattezzata "Margherita
di Savoia"), popolandola con i lavoratori delle Saline e distribuendo
gratuitamente i terreni ed i capitali per le case popolari. Così, in vent’anni,
la popolazione locale raddoppiò di numero. Il sale della Puglia era molto
apprezzato, tanto da essere preferito a quello spagnolo ed era sfruttato sia per
scopi alimentari sia per usi industriali. Di straordinaria importanza erano
anche le saline siciliane "nella sola area di Stagnone (bacino marino antistante
Trapani) si trovavano trentuno saline con centinaia di mulini a vento (quelli a
sei pale in legno di tipo olandese) che davano una produzione annua di ben
110mila tonnellate di sale" (17).
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Vetri e
Cristalli
A Napoli sorgevano due grandi fabbriche di vetri e
cristalli, per le quali si erano fatti venire operai e macchine dall’estero; in
breve la produzione del Regno poté competere con quella di Francia e Germania e
i quattro quinti della richiesta nazionale erano soddisfatti dall’industria
napoletana, parte dei vetri prodotti era esportata a Tunisi, ad Algeri e
persino in America. Ci sembra poi superfluo soffermarsi sulla fabbrica di
porcellane di Capodimonte, voluta da Carlo III e famosa in tutto il
mondo.
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Agricoltura ed allevamento
I dati (18)
indicano che nel 1860 il Sud, che conta il 36.7 % della popolazione d’Italia,
pur non avendo nulla che si possa paragonare alla pianura padana produce il
50.4% di grano; l’80.2% di orzo e avena; il 53% di patate; il 41.5% di legumi;
il 60% di olio, favorito in questo anche dal clima che consente spesso due
raccolti l’anno; si svilupparono le coltivazioni di agrumi e di piante
idonee al suolo arido: l'olivo, la vite, il fico, il ciliegio
ed il mandorlo (19). Nelle Due Sicilie l’ultima vera grande
carestia fu negli anni 1763-64 e successivamente, dai dati complessivi si ricava
che un meridionale, tra grano e granaglie aveva una razione quotidiana di 418
grammi di carboidrati. Nella restante parte della Penisola la razione si
riduceva a 270. La dieta del meridionale dell’epoca era quella tipica
mediterranea, ricca di verdura, ortaggi, frutta, pesce, latte e derivati, pane e pasta.
(20). Particolare risalto è da dare all’opera
di Carlo di Borbone che introdusse riduzioni delle tasse per i proprietari che
avessero coltivato i loro terreni ad uliveto. Fu così che nella buona terra
pugliese misero radici gli ulivi: oggi su 180 milioni di alberi italiani ben 50
milioni sono localizzati in Puglia, la regione olivicola più importante del
mondo con il 10% della produzione totale di olio. Un decreto emanato il 12
dicembre 1844 da Ferdinando II prescriveva la necessità di un "certificato di
origine" per l’olio di oliva che era esportato in tutto il mondo, Stati Uniti
compresi. L’industria alimentare era legata all'ottima produzione di grano duro
e vantava i migliori pastifici d’Italia, circa cento (provincia di Napoli,
Crotone e Catanzaro) che esportavano in molti paesi stranieri, compreso Russia,
America, Svezia e Grecia. Un accenno alla pizza che, pur presente da secoli
sulle tavole mediterranee, ha celebrato i suoi trionfi proprio nella Napoli
capitale delle Due Sicilie; presente anche nella mensa dei re Borbone, questi
l’apprezzarono ma non imposero nessun nome di famiglia
(21)
Per quanto riguarda l’allevamento, considerando il numero dei
capi, il Sud era in testa in quello ovino, caprino, equino e dei maiali, poco
al di sotto del resto dell’Italia per quello caprino e molto al di sotto per
quello bovino (22). Tra gli Abruzzi e la Puglia continuava,
come fin dall’epoca romana, la transumanza delle greggi che si svolgeva
su sentieri chiamati tratturi e che era regolata da un codice molto
particolareggiato che prevedeva il pascolo nel Tavoliere dal 29 settembre
all’otto maggio. In quel mese si svolgeva la grande fiera zootecnica di Foggia
alla quale era tradizione partecipasse il Re, vestito alla maniera paesana.
Vivacissima era anche l’attività dei caseifici la cui lavorazione riguardava
particolarmente il latte di pecora, ma il cui fiore all’occhiello era
naturalmente la mozzarella di bufala; numerosissimi gli stabilimenti ittici (ad
esempio le tonnare di Favignana), del pomodoro, famose le fabbriche di
liquirizia in Calabria e dei confetti a Sulmona. Infine segnaliamo la
coltivazione e la lavorazione del tabacco dove il Sud era all'avanguardia con la
importante manifattura di Napoli che occupava agli inizi degli anni 1850 più di
1.700 operaie (poi ridotte per introduzione di macchinari più moderni), e che
esportava in tutta Europa. Inoltre dal primo censimento della popolazione
d’Italia del 1861 (a pochi mesi dall’Unità) si ricava che il Sud, che contava
36.7% della popolazione italiana, aveva il 56,3% dei braccianti agricoli e il
55,8% degli operai agricoli specializzati. Quando nel 1887-88 il protezionismo
chiuderà gli sbocchi esteri, l’agricoltura del Sud subirà un colpo mortale.
Quella non era, infatti, solo un’agricoltura di sussistenza e autoconsumo,
bensì mercantile, destinata all’esportazione: a quel punto la enorme massa
di operai agricoli non ebbe più lavoro e non poté far altro che
emigrare.
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Il sistema monetario, il costo
della vita, la tassazione
Il 20 aprile del 1818 Ferdinando I emanò una direttiva che
uniformava il sistema monetario della parte continentale ed insulare del regno
delle Due Sicilie. La moneta, la più solida d’Italia, era il Ducato,
presente in circolazione in coni aurei da 3, 4, 6, 15, 30. Il Ducato era
suddiviso in 10 Carlini, che equivaleva a sua volta a 10
Grana. Vi era poi il Tornese (2 tornesi equivalevano a un grano,
cioè ad un centesimo di Ducato) e infine il Cavallo (6 cavalli
equivalevano ad un Tornese). In Sicilia la moneta era l'Oncia, circolante
in coni da 1 e da 2, e valeva 3 Ducati. Era suddivisa in 30 Tarì, ovvero
in 300 Baiocchi. Il Grano (pari a mezzo Baiocco, o a 6
Piccioli) valeva quindi 2 Grana napoletani. Il cambio nel 1859 era 1
Ducato = 4,25 Lire. Il coefficiente d'aggiornamento ISTAT, opportunamente
ricalcolato per tener conto dell'anno 1860, è pari a 7.346,7. Pertanto, un
Ducato Napoletano equivale a lire 31.223,47, pari ad Euro 16,13. L'Oncia
siciliana valeva 48, 39 Euro. Le monete erano coniate in oro, argento e rame. I
maestri incisori della Regia Zecca a S. Agostino Maggiore erano così rinomati in
Europa, per la bellezza delle realizzazioni, che i saggi di conio dell’istituto
d’emissione inglese erano spesso inviati a Napoli per un parere tecnico.
Tutto il sistema monetario nel suo complesso era garantito in oro nel
rapporto uno ad uno, la lira piemontese invece era garantita nel rapporto tre ad
uno (ogni tre lire in circolazione erano garantite da una sola lira oro). La
storia numismatica delle Due Sicilie risaliva a 2500 anni prima con le zecche
della Magna Grecia, quando in molte parti d’Italia e del mondo era ancora in uso
il baratto in natura! Ci pensò Garibaldi con il decreto del 17 agosto 1860 a
sopprimere il millenario sistema monetario siciliano e successivamente il
governo unitario mise fuori corso il Ducato con la legge del 24 agosto 1862,
triplicando in un sol colpo la massa monetaria incamerata con l'annessione del Sud
(23).
Il costo della vita era basso rispetto agli altri Stati
preunitari e lo si può dimostrare paragonando i salari con il costo dei generi
di prima necessità: la giornata di lavoro di un contadino era pagata il
corrispondente odierno di 3 € (15-20 Grana di allora), quella degli operai
generici valeva in media 5 € che salivano a 6,50 € per quelli specializzati (dai
20 ai 40 grana); 13 € spettavano ai maestri d’opera (80 grana). A tali
retribuzioni veniva aggiunto un soprassoldo giornaliero di 10-15 grana per il
vitto. Un impiegato statale percepiva 15 ducati al mese, la paga di un
colonnello di fanteria era di 105 ducati (1680 €), quella di un tenente di
fanteria 23 ducati (370 €). Sul versante dei costi riportiamo che un rotolo di pane (800 grammi)
(24) costava 6 grana (1 €) , un
equivalente di maccheroni 8 grana (1,30 €) , di carne bovina 16 grana (2,5 €),
un litro di vino 3 grana (0.50 €), tre pizze 2 grana (0,32
€) (25).
Il livello impositivo era il più mite di tutti gli Stati
Italiani (sulla tomba di Tanucci, ministro delle finanze per 40 anni,
troviamo scritto che non impose nuovi balzelli) (26).
La contribuzione diretta era praticamente basata solo sull’imposta fondiaria,
quella indiretta solo su quattro tributi.
Tav.1 – Il prelievo fiscale diretto
nelle Due Sicilie ( 27).
Imposta fondiaria,
Addizionale per il debito pubblico,
Addizionali per le Province,
Esazione
Tav.2 – Gli strumenti fiscali
indiretti nelle Due Sicilie
(28)
-
Dazi (dogane e monopoli).
- Imposta del Registro e bollo.
- Tassa postale.
- Imposta sulla Lotteria.
Entrambi questi tipi di tributi diretti ed indiretti, pur non
essendo stati più aumentati né in numero né in aliquota, determinarono un
aumento delle entrate da 16 milioni di ducati del 1815 ai 30 milioni del 1859,
questo a dimostrazione della crescita generale di quella fiorente economia.
Viceversa nel periodo 1848-1860 il governo piemontese impone ben 22 nuove tasse
(29).
Le banche ( "i banchi") nel 1700 erano sette (S.Giacomo, del
Salvatore, S.Eligio, del Popolo, dello Spirito Santo, della Pietà e dei Poveri)
e le loro condizioni si mantennero floridissime fino alla fine del '700. Nel
1803 ci fu un primo accorpamento che fu completato il 12 dicembre del 1816 con
la creazione del "Banco delle Due Sicilie" che successivamente si chiamò "Banco
di Napoli" nella parte continentale del regno e "Banco di Sicilia" nell’Isola;
in questi istituti si aprivano conti correnti e si concedevano prestiti a mutuo
o su pegni come negli antichi banchi (30).
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Opere pubbliche
Tra le più importanti realizzazioni ricordiamo il ponte
Ferdinandeo sul fiume Garigliano del 1832: è stato il primo ponte sospeso in
ferro d'Italia (tra i primi del mondo), costruito in 4 anni con 68.857
chilogrammi di ferro (31) e collaudato dallo stesso Ferdinando II
che ci fece passare sopra due squadroni di lancieri a cavallo e sedici carri
pesanti di artiglieria; orgoglio delle Due Sicilie, resistette fino al 1943
quando i tedeschi, dopo averci fatto transitare il 60 % della propria armata in
ritirata, compresi carri e panzer, lo distrussero. Fu seguito dalla costruzione
di un ponte simile sul fiume Calore, inaugurato nel 1835.
Segnaliamo poi: il Primo telegrafo elettrico d’Italia
(1852), la Prima rete di Fari con sistema lenticolare (1841), la
Prima ferrovia e Prima stazione d’Italia Napoli Portici (1839): lungo
questa prima linea si sviluppano nuovi agglomerati urbani che costituiscono la
struttura del nascente polo industriale attorno alla Capitale. L’anno successivo
fu inaugurata dagli Asburgo la Milano-Monza, nel 1845 la prima ferrovia veneta
(Padova-Vicenza) e addirittura bisognerà aspettare nove anni per vedere la prima
piemontese (Torino-Moncalieri) e la prima toscana (Firenze-Prato).
L’ingenerosa critica storica ha fatto prevalere la tesi della
costruzione ferroviaria borbonica per esclusiva vanità della corte di collegare
la capitale alle residenze reali di Caserta e di Portici, altri ancora
sostennero che la ferrovia fu realizzata per spostare più velocemente le truppe
della guarnigione di Capua, in caso di disordini a Napoli; è certamente vero che
tutte le ferrovie dei diversi stati nacquero anche con finalità
strategiche e militari
(32) ma in realtà gli scopi principali erano
ben diversi. Ferdinando II, nel discorso pronunciato nell’ottobre 1839,
all’inaugurazione della Napoli-Portici, ebbe a dire: "Questo cammino ferrato
gioverà senza dubbio al commercio e considerando che tale nuova strada debba
riuscire di utilità al mio popolo, assai più godo nel mio pensiero che,
terminati i lavori fino a Nocera e Castellammare, io possa vederli tosto
proseguiti per Avellino fino al lido del Mare Adriatico"
(33). La ferrovia raggiunse nel 1840 Torre del Greco, Castellammare di Stabia
nel 1842, Nocera nel 1844, contemporaneamente un altro tronco puntava a nord
raggiungendo Caserta nel 1843 e Capua nel 1844; in questo stesso anno sulla
Napoli-Castellammare transitarono ben 1.117.713 viaggiatori, in gran
parte "pendolari" che quotidianamente si recavano nella capitale per lavoro, le
tariffe erano basse sia per il trasporto dei passeggeri (diviso in tre classi)
che delle merci .
Dalla cronaca del "Giornale delle Due Sicilie"
(34) dell’epoca si legge: "Ad un segnale dato
dall’alto della Tenda Reale parte dalla stazione di Napoli il primo convoglio
composto di vetture sulle quali ordinatamente andavano gli invitati, gli
ufficiali, i soldati e i marinai (...) S.M. con la Real Famiglia prese posto
nella Real Vettura". "Le popolazioni di Napoli e delle terre vicine - si leggeva
sulla cronaca di altri giornali - accorrevano in grandissimo numero come ad uno
spettacolo nuovo, tutte le deliziose ville attraversate dalla strada si andavano
riempiendo di gentiluomini e di dame vestite in giorno di festa (...) con tanto
entusiasmo traesse d’ogni parte sulla nuova strada e giunto colà facesse
allegrezza grande come per faustissimo avvenimento"; erano 7411 metri che furono
percorsi in quindici minuti (velocità 20 km/h) dal convoglio guidato dalla
locomotiva "Vesuvio".
Dobbiamo ricordare il progetto borbonico di una rete
ferroviaria diretta a collegare il Tirreno all’Adriatico con due arterie
principali a doppio binario: la Napoli-Brindisi, che tagliava in due
parti quasi esatte il regno, e la Napoli-Pescara. Le concessioni furono
stipulate il 16 aprile del 1855, con un dettagliato protocollo che prevedeva
tempi e modi di realizzazione. La ferrovia avrebbe accorciato notevolmente i
tempi di collegamento (previsti in quattro ore al posto dei giorni di
navigazione via mare). Erano previste nuove arterie stradali comunicanti con le
stazioni ferroviarie in modo da favorire il trasporto sia dei passeggeri che
soprattutto delle merci e del bestiame, come pure delle diramazioni per
collegare le nuove linee ferrate a quelle dello Stato della Chiesa e di
conseguenza a quelle degli altri stati italiani preunitari e del resto d’Europa.
Furono anche progettate due litoranee: una da Napoli alla Calabria
meridionale con diramazione a Taranto e l’altra da Brindisi ad Ancona (e da lì
comunicante con Bologna e Venezia).
L’ultimo re Francesco II diede un’accelerazione alla
costruzione delle strade ferrate ma non ebbe il tempo di completarle e così, se
è vero che la lunghezza complessiva delle ferrovie meridionali, al momento
dell'Unità, era inferiore a quella di altri stati italiani preunitari (37), anche per le caratteristiche
del territorio prevalentemente montuoso che in nulla assomigliava alle pianure
del Nord e che non ne facilitava la costruzione, è comunque accettato da tutti
che come qualità tecnico-costruttiva fossero le migliori.
Per ciò che concerne, invece, le strade, esse erano
senza dubbio insufficienti, ma anche in questo campo le Due Sicilie pagavano lo
scotto della conformazione del Paese, prevalentemente montuoso, che rendeva più
rapido ed economico lo sviluppo delle vie marittime; comunque il governo
borbonico si era seriamente impegnato nella costruzione di nuovi tracciati
progettati da ingegneri che erano alle dirette dipendenze dello Stato, tra di
essi ricordiamo Carlo Afan de Rivera e Ferdinando Rocco. Alcune arterie sono dei
veri e propri capolavori come la Civita Farnese (tra Arce e Itri) che, pur
correndo quasi completamente in territorio montano, in nessun tratto superava la
pendenza del 5% il che permetteva l’agevole trasporto di merci su carri, e la
Pescara-Sulmona-Napoli dove ancora oggi si possono osservare le pietre miliari
che indicano la distanza dalla antica capitale. L’ossatura di alcune strade
borboniche viene attualmente sfruttata per il passaggio di veicoli molto pesanti
come i TIR a testimonianza della validità dei loro progetti.
Altre interessanti realizzazioni furono l’illuminazione a
gas di Napoli, prima in Italia (1840) e terza in Europa (dopo Londra
e Parigi). Napoli fu anche la prima città d’Italia in cui fu organizzato nel
1852 un esperimento d’illuminazione elettrica; la bonifica e conseguente
sistemazione idrogeologica delle paludi Sipontine (Manfredonia), di quelle
di Brindisi, del bacino inferiore del Volturno e della Terra di Lavoro (Regi
Lagni): in quest’ultimo territorio furono restituite al lavoro agricolo 53
miglia quadrate di paludi, realizzati 100 miglia di canali di bonifica, muniti
d'argine e controfossi, lungo i quali furono posti a dimora 150.000 alberi;
costruite 70 miglia di strade, e furono piantati altri 120.000 alberi che
attraversavano la campagna in tutti i sensi.
Ricordiamo inoltre la realizzazione del confine
terrestre: col trattato firmato a Roma il 27 Settembre 1840 e ratificato il
15 Aprile 1852 fu stabilita la linea di separazione con l’unico stato
confinante, quello Pontificio. Papa Gregorio XVI e re Ferdinando II decisero di
posizionare nel terreno ben 686 cippi che partivano da Gaeta sul Tirreno e
giungevano fino a Porto d’Ascoli sull’Adriatico. Erano piccole colonne
cilindriche in pietra con incisa sulla sommità la direzione del confine: sul
lato dello Stato Pontificio due chiavi incrociate e l’anno di apposizione (1846
o 1847) e verso il regno borbonico un giglio stilizzato ed il numero progressivo
della colonnina, crescente verso il nord. Alti un metro, del diametro di
quaranta centimetri e del peso di 700/800 chili, i cippi furono realizzati da
ambedue i confinanti; e sotto ciascuno di essi fu sotterrata una medaglia di
lega metallica recante lo stemma dei due Stati. Questa semplice, ma allo stesso
tempo elegante e civile demarcazione fu abbattuta all’arrivo dei Piemontesi.
Alcuni di essi sono stati di recente restaurati e riposizionati grazie all’opera
di un gruppo di ricercatori coordinati da Argentino D’Arpino..
Menzioniamo ancora l’istituzione dei Monti di Pegno e
Frumentari in tutto il Regno, veri e propri crediti agrari che prestavano
denaro ad interessi bassissimi. Va ricordata infine la
creazione del primo Corpo dei vigili del fuoco italiano e l’Istituzione di
Collegi Militari quali la Nunziatella.
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Conquiste Sociali e Civili
Nelle Due Sicilie ci fu l’istituzione del primo sistema
pensionistico in Italia (con ritenute del 2 % sugli stipendi degli
impiegati). Vi era inoltre la più alta percentuale di medici per
abitanti in Italia ed il minor tasso di mortalità infantile
d'Italia. Il Regno possedeva i maggiori edifici per l'assistenza ai
poveri (a Napoli e Palermo) e il Cimitero delle 366 fosse, a
Poggioreale, creato per dare degna sepoltura ai poveri (invece delle fosse
comuni, vi erano grandi lapidi, una per ogni giorno dell’anno). Da ricordare
lo Statuto della seteria di S.Leucio, dettato personalmente da Ferdinando
I, rifinito dai suoi giuristi nel 1789, che risentiva fortemente delle idee
illuministe di Rosseau e che fu magnificato in tutta Europa- Lo statuto
prevedeva, con decenni di anticipo sulle prime normative inglesi del lavoro,
diritti e servizi per ogni membro della comunità: casa, attrezzi di lavoro,
assistenza medica, istruzione obbligatoria per tutti i bambini dopo i 6 anni,
pensione di invalidità e di vecchiaia, mezzi di sussistenza per la vedova e gli
orfani dei lavoratori, "nè resti esclusa la femmina dalla paterna eredità
ancorché vi siano i maschi". Per questi motivi San Leucio fu definita "
repubblica socialista". Degna di nota la Convenzione stipulata il 14
febbraio 1838 con l’Inghilterra e la Francia per la lotta contro la tratta degli
schiavi.
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Le Due Sicilie: da stato feudale a stato
centralistico
All’avvento dei Borbone Lo Stato era ancora feudale, pieno di
uomini chiamati "eccellenza" e "don" [riportati anche negli atti ufficiali]. Si
trattava di baroni e di alti prelati che possedevano gran parte delle terre,
nelle quali esercitavano addirittura una propria giurisdizione penale e civile.
"I feudatari del regno non avrebbero mai permesso la realizzazione pacifica di
una riforma che intaccava una prerogativa della quale essi erano particolarmente
gelosi (...) il potere del baronaggio si fondava specialmente sulla grande
potenza economica che i suoi rappresentanti avevano realizzato mediante vari
strumenti tra i quali il più efficace era certamente la
giurisdizione" (36).
Il Sud era inoltre considerato dal papa uno stato vassallo e Re
Carlo, coadiuvato nel governo dal Ministro Bernardo Tanucci
(1698-1782), cominciò un'opera di affrancamento da questa secolare sudditanza.
Realizzò un Catasto che permise la tassazione dei beni ecclesiastici
[cosa più unica che rara in Europa, non esistendo neanche in Francia]. Stipulò
il 2 giugno 1741 un Concordato col Papa in cui venivano ridotti alcuni
privilegi del clero, come il diritto di asilo e l'immunità penale. Nel 1767
estromise i gesuiti dal regno, confiscando i loro beni e trasformando in
pubbliche le loro scuole. Nel 1759, alla morte del fratello Ferdinando VI, Carlo
fu proclamato re di Spagna e abdicò in favore del figlio Ferdinando. Questi
continuò l’opera di separazione tra Stato e Chiesa. Nel 1776 soppresse l’omaggio
feudale della Chinea, "una cavalla bianca ingualdrappata, con sopra il
basto uno scrigno di denari e gioielli che, dai tempi di Carlo d’Angiò, il re di
Napoli ogni anno, il 29 giugno deve al papa in segno di
vassallaggio" (37). Venne limitato l’esorbitante numero
di ecclesiastici (che nel 1786 erano circa centomila, con un rapporto di 1 ogni
48 abitanti) che tra l'altro controllavano l’anagrafe (stato civile,
nascita, matrimonio, morte) nonché avevano la funzione di pubblica istruzione.
Con il Concordato del 25 febbraio 1818, scomparve nelle Due Sicilie
qualsiasi forma di immunità ecclesiale, furono ridotte le diocesi del Regno e
solo 22 di esse erano direttamente soggette alla Santa Sede, nelle altre si
affermò il diritto reale di nominare i vescovi. Nonostante questi provvedimenti,
rimase intatta la comune azione tra le istituzioni e il clero nei riguardi del
mondo culturale, dell’istruzione e dell’assistenza. La religiosità del popolo
meridionale rimase fortissima e scandiva la vita quotidiana del Regno (con le
relative funzioni, la recita del rosario, le processioni come quella solenne
dell’otto dicembre, festa Nazionale, la tradizione natalizia del presepio).
Alcuni viaggiatori stranieri, di religione protestante, affermavano che si
trattasse una "cristianità senza Cristo" perché tutti si affidavano ad un
santo per intercedere presso Dio (San Gennaro e Sant'Antonio, solo per citare i due più prestigiosi)
(38). Nel 1798-99 ci fu la
prima invasione francese del regno con l’esperienza della Repubblica
Napoletana (liquidata dopo pochi mesi dall’insorgenza dei sanfedisti del
cardinale calabrese Fabrizio Ruffo) (39); Ferdinando I non ratificò l’abolizione della feudalità, che la
Repubblica aveva deliberato sulla carta, per non inimicarsi la Chiesa che tanta
parte aveva avuto nell’insorgenza sanfedista.
Seguì la seconda invasione con la decennale occupazione
francese ed i re Giuseppe Buonaparte (1806-1808) e Gioacchino Murat (1808-1815).
Terminata l'avventura napoleonica, negli stati tornarono i legittimi sovrani (la
Restaurazione). Nelle Due Sicilie re Ferdinando I e i suoi ministri
ebbero il merito di lasciare immodificate le innovazioni fatte dai Francesi
mentre, Piemonte in prima fila, gli altri Stati procedettero ad una politica
reazionaria. Persino Tito Manzi, che era stato un influente esponente del
governo del Murat, ebbe ad affermare che, nonostante la presenza nel regno delle
truppe austriache fino all’agosto del 1817, Napoli spiccava nel quadro a tinte
fosche [della Restaurazione] come la sola capitale italiana dove ci si
premurasse con successo di "accrescere la forza del governo" e di migliorare
insieme ad essa "la sorte del popolo" (…), di concentrare saldamente il potere
nelle mani sovrane e organizzare amministrazioni efficienti e funzionali, dare
forza allo Stato, sottrarne ai vecchi corpi privilegiati, la
nobiltà e il clero" (40). L’amministrazione dello Stato,
trasformata dai francesi da feudale (con i mille "poteri" periferici baronali ed
ecclesiastici) in una fortemente centralizzata, rimase intatta, con sette
ministeri a Napoli (Interni, Esteri, Grazia e Giustizia, Affari ecclesiastici,
Finanze, Guerra e Marina, Polizia) più un luogotenente generale per la Sicilia,
in Palermo, con altrettanti dipartimenti alle sue dipendenze. L'autorità
periferiche era composta da funzionari di nomina regia, che rispondevano
direttamente conto al ministro dell’Interno. A capo delle Province (che
avevano la dignità delle attuali regioni) vi erano gli Intendenti,
affiancati dal Consiglio Provinciale. I Distretti (corrispondenti
alle attuali province) erano guidati dai Vice Intendenti; e dai
Consigli Distrettuali. I Comuni erano amministrati da un
Consiglio, chiamato Decurionato (tre decurioni ogni 1000
abitanti), nominati dall’Intendente sulla base di liste di eleggibili
(che tenevano conto del censo e delle capacità personali). Il consiglio comunale
proponeva ogni tre anni una terna di candidati alla carica di sindaco. La scelta
veniva quindi eseguita dall’intendente. Il sindaco era a capo
dell’amministrazione comunale, ed aveva alle sue dipendenze gli impiegati
amministrativi, gli addetti ai vari pubblici servizi e il medico condotto. Quasi
tutti i burocrati si erano formati nel decennio di dominazione francese e furono
confermati ai loro posti (fu la cosiddetta politica "dell’amalgama") per
non disperdere le competenze. Si consolidò quindi l’avanzata di classi sociali
che non provenivano dalla nobiltà e che ne acquisirono una con le onorificenze
dispensate dal Re (come cavaliere o commendatore dell’Ordine di San Giorgio
della Riunione, istituito nel 1818). Nel 1819 Ferdinando I incaricò i suoi
giuristi di redigere un nuovo Codice Civile e Penale, che ricalcò quello
napoleonico (sopprimendo solo pochi articoli, tra cui quelli relativi al
divorzio). Il nuovo codice sancì l’abrogazione della legislazione penale feudale
(già effettuata nel 1806 da Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone e primo re
francese di Napoli). Le Due Sicilie furono il primo tra gli stati italiani
preunitari ad adottare un tale provvedimento (contro il quale le resistenze
baronali furono fortissime).
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Arte Cultura e Scienza
Dal Settecento, sotto l’impulso dei sovrani regnanti, si
assistette alla rinascita culturale e sociale delle Due Sicilie ed al rigoglioso
fiorire di studi filosofici, giuridici e scientifici. Le opere di illustri
personalità (solo per citarne alcuni ricordiamo: Della Porta, Giannone, Vico,
Filangieri, Pagano, Genovesi, Galiani, Cotugno) furono tradotte in diverse
lingue. Napoli era il più vivace centro di pensiero d’Italia e in Europa era
seconda solo a Parigi per la diffusione delle idee dell’Illuminismo. Lo
splendore della Corte e della società napoletana erano proverbiali, e divennero
poli di attrazione per le più importanti menti dell’epoca che spesso vi
soggiornavano a lungo. Geni assoluti come Goethe riconobbero nelle classi
elevate meridionali una preparazione non comune. Ebbe a dire Stendhal: "Napoli è
l’unica capitale d’Italia, tutte le altre grandi città sono delle Lione
rafforzate". Era di gran lunga la più grande d’Italia e tra le prime quattro
d’Europa, e fu definita come: "la città più allegra del mondo, scintillante di
carrozze, quasi non riesco a distinguerla da Broadway, la vera libertà consiste
nell’essere liberi dagli affanni ed il popolo pare veramente aver concluso un
armistizio con l’ansia e suoi derivati"
(41). Il Regno vantava
quattro università: quella di Napoli, fondata da Federico II nel
1224, quelle di Messina e Catania, rinnovate dai Borbone e la neonata università
di Palermo. A Milano la prima università, il Politecnico, fu fondata solo nel
1863 ed il primo ingegnere si laureò nel 1870. Al tempo della nascita dello
Stato italiano, il numero degli studenti napoletani era maggiore di quello di
tutte le università italiane messe assieme (che ne avevano un totale di
appena 6504). A Napoli furono istituite la prima cattedra universitaria al
mondo di Economia Politica con Antonio Genovesi (1754) e le cattedre di
psichiatria, ostetricia e osservazioni chirurgiche. Notevole importanza
scientifica godeva l’Orto Botanico che forniva le erbe mediche alla
Facoltà di Medicina. Nella facoltà di Giurisprudenza nacquero l‘Istituto
della Motivazione delle Sentenze (Gaetano Filangieri, 1774), il primo
Codice Marittimo Italiano ed il primo Codice Militare. I giornali milanesi
erano ancora fogli di provincia, mentre quelli napoletani facevano e disfacevano
i governi. Le case editrici napoletane pubblicavano il 55% di tutti libri
editi in Italia (42). L’Osservatorio Sismologico (1°
nel mondo) del Vesuvio, con annessa stazione meteorologica, fu fondato dal
fisico Macedonio Melloni e sviluppato da Luigi Palmieri.
Palermo vide l'illustre opera dell’astronomo Giuseppe Piazzi,
curatore dell’Osservatorio astronomico fondato nel 1801 e scopritore del
primo asteroide battezzato "Cerere Ferdinandea". La capitale siciliana ebbe
il suo splendido Orto Botanico, e "la real casa dei Matti", il primo
manicomio in Europa, per opera del Barone Pisani e sotto il patrocinio dei
Borbone, dove i malati venivano trattati umanamente e non più segregati come
bestie furiose.
Furono aperte: Biblioteche, Accademie Culturali
(la più famosa l’Ercolanense, fondata nel 1755), il Gabinetto di Fisica del
Re ed erano organizzati frequenti Congressi Scientifici. Per quanto
riguarda la musica "Fino al settecento l’Italia era vista da tutti i
musicisti europei con un particolare atteggiamento di rispetto, in Italia, nel
Seicento, era nata l’opera che nel corso degli anni aveva conquistato tutti i
più grandi teatri; operisti italiani componevano presso tutte le corti d’Europa
e gli stessi musicisti stranieri scrivevano opere in lingua italiana, tanto si
identificava allora il melodramma col paese che ne era stato la culla. Non molto
diversa era la situazione per la musica strumentale, i conservatori e le
accademie italiane erano i più celebri in assoluto e un musicista non poteva
affermare di possedere una preparazione completa senza aver compiuto un viaggio
d’istruzione in Italia (…) La penisola era considerata quasi una terra promessa
per ogni compositore"
(43) e Napoli era
considerata la Regina mondiale dell’Opera. Basta ricordare che il Teatro di
San Carlo è il più antico teatro lirico d'Europa: fu inaugurato il
4.novembre 1737 dopo soli 8 mesi dall'inizio della sua costruzione (ben 41 anni
prima del teatro della Scala di Milano e 51 anni prima della Fenice di Venezia).
Non ha mai sospeso le sue stagioni, tranne che nel biennio 1874-76, a causa
della grave recessione economica di quegli anni. Subì un grave incendio nel 1816
e fu ricostruito in dieci mesi. Re Ferdinando I lo volle "com'era e dov'era"
(proviamo a fare il confronto con le storie dei nostri giorni: gli incendi del
Petruzzelli di Bari e della Fenice di Venezia....). Anche se non tutti i Borbone
amavano la lirica, furono senz’altro dei grandi mecenati tanto che il teatro San
Carlo attrasse l'attenzione di tutta la società colta europea, colpita dalla
creatività della Scuola musicale napoletana, sia nel campo dell'opera buffa che
di quella seria: basti ricordare i nomi di Porpora, Piccinni, Jommelli,
Cimarosa, Paisiello (autore quest’ultimo, nel 1787, su commissione di Ferdinando
IV, dell’Inno Nazionale delle Due Sicilie). A Napoli guardavano come culmine
della loro carriera musicisti del livello di Bach e Gluck. Tra i grandi
compositori italiani ricordiamo la triade Rossini-Bellini-Donizetti, che fiorì
tra il Conservatorio di Napoli ed il teatro San Carlo. Quest'ultimo divide con
la Scala di Milano il primato della più antica scuola di ballo italiana,
mentre è nel 1816 che vi nasce la Scuola di Scenografia diretta da
Antonio Niccolini. "Vuoi tu sapere se qualche scintilla di vero fuoco brucia in
te? Corri, vola a Napoli ad ascoltare i capolavori di Leo, Durante, Jommelli,
Pergolese. Se i tuoi occhi si inumidiranno di lacrime, se sentirai soffocarti
dall'emozione, non frenare i palpiti del tuo cuore: prendi il Metastasio e
mettiti al lavoro il suo genio illuminerà il tuo" (44). I Conservatori musicali (quello di San Pietro a
Majella era considerato il più prestigioso del mondo), l’Accademia
Filarmonica e la Scuola Musicale Napoletana erano i massimi riferimenti per gli
artisti dell’epoca ; la Canzone Napoletana a Piedigrotta ("Te voglio bene
assaje", "Luisella", "Santa Lucia", "Tarantella") si diffuse in tutto il mondo.
A Napoli, ogni sera, erano aperti una quindicina di teatri, mentre a Milano
non tutte le sere c’era un teatro aperto (45). Per le belle arti ricordiamo: la Scuola pittorica di
Posillipo (Gigante, Smargiassi, Vianelli, Fergola, Palizzi), le formidabili
testimonianze architettoniche come i Palazzi reali (Reggia di
Napoli, Portici e Caserta; Palazzina Cinese e Ficuzza a Palermo), il
Casino del Fusaro, l’acquedotto Carolino, la masseria il Carditello, San Leucio.
Ricordiamo l’interesse per l’archeologia con l’avvio degli Scavi di
Ercolano e Pompei, iniziati nel 1738 per volere del primo re Borbone Carlo
III, dopo un ritrovamento durante i lavori di restauro di una cisterna di un
casale. Da allora, intorno al nome di Ercolano e Pompei (scoperta nel 1748) è
prosperato un mito che continua a sedurre coloro che si spingono all’ombra dello
"sterminator Vesuvio". "Si può ben dire che la scoperta di Ercolano e Pompei non
si limitò a rivoluzionare l’archeologia e la storia del mondo antico, ma segnò
in modo indelebile anche la civiltà europea. Non ci fu intellettuale, erudito,
scrittore o artista che non sentisse il fascino di quel che stava rendendo al
mondo il ventre del Vesuvio (…) De Brosses, Goethe, Melville, Mark Twain (…) fu
una vera e propria frenesia (…) da quel fuoco nacque nell’Europa dei Lumi quella
che si indica come civiltà neoclassica: così come la scoperta dalla Domus
Aurea era nato il Rinascimento (…) le vestigia che venivano alla luce
vennero sistemate temporaneamente nella nuova Villa Reale di Portici e più tardi
trasferite, in solenne corteo, a Napoli nel Museo
Archeologico"(46) (oggi Museo Nazionale). Fu istituita
l’Officina dei Papiri, un laboratorio che si occupava del recupero e
restauro dei reperti provenienti dagli scavi d’Ercolano "Re Carlo III già nel
1755 aveva emanato un bando in cui si prescriveva la tutela del patrimonio
artistico delle Due Sicilie che prevedeva anche pene detentive per chi esportava
o vendeva materiale d’epoca; esso fu rinnovato da Ferdinando I nel 1766, nel
1769 e nel 1822. Nel 1839 Ferdinando II nominava una "Commissione di Antichità e
Belle Arti" per la tutela e la conservazione dei beni
(47).
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Note al capitolo 8:
1. circa 1.600.000 addetti su circa
3.131.000 complessivi torna al testo
2. i primi re furono, dunque, i Normanni
d'Altavilla (1130-1194), seguiti dagli Svevi (1194-1266), dagli Angioini
(1266-1442) e dagli Aragona (1442-1503); a loro subentrarono gli Spagnoli
(1503-1707) e poi gli Austriaci per solo 27 anni (1707-1734); i più importanti
sovrani delle varie casate furono nell'ordine: Ruggero II d'Altavilla , Federico
II di Svevia, Carlo I d'Angiò, Alfonso I d'Aragona e il vicerè spagnolo Pedro de
Toledo. Nel 1734 la Spagna rioccupò il Regno strappandolo agli Asburgo e iniziò
quindi l'era borbonica con i suoi re (Carlo, Ferdinando I, Francesco I,
Ferdinando II e Francesco II) che durò fino all'annessione al Piemonte 1861, con
l'intermezzo dei Napoleonidi Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat (1806 -1815).
torna al
testo
3. A Saitta, Gli scritti sulla questione
meridionale, Laterza, 1958 torna al testo
4. Ricordiamo, oltre a Pedio, autore di
questa affermazione (da op.cit., modif.) alcuni nomi degli storici
controcorrente: Rispoli, Nitti, Salvemini, Coniglio, Bianchini, Luzzato, Lepre,
Villani, Demarco, Petrocchi, Mangone, Vocino, Capecelatro e Aianello.
torna al
testo
5. Tommaso Pedio, op. cit., pagg.1-4, modif.
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6. Tommaso Pedio, op. cit. pag.92
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7. Tommaso Pedio, op. cit., pag. 82
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8. "perché il braccio straniero \ a
fabbricare le macchine mosse dal vapore \ il Regno delle Due Sicilie più non
abbisognasse", così dichiarò Ferdinando II. torna al
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9. Cfr. Il centenario delle ferrovie
italiane 1839-1939 (Pubblicazione celebrativa delle FF.SS.), Roma 1940,
pp.106,137 e 139 torna al testo
10. E. Spagnolo in "Due Sicilie"
settembre-ottobre 2001 torna al testo
11. Lamberto Radogna, " Storia della Marina
Mercantile delle Due Sicilie", Mursia torna al testo
12. L'istruzione nautica in Italia, pagg.
10/15, anno 1931, a cura del Ministero dell'Educazione Nazionale torna al
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13. Michele Vocino, op. cit. torna al
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14. F.M. Di Giovine, Atti del primo convegno
Lions sul Regno delle Due Sicilie, pag.22 torna al
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15. In quell’anno si giunse a produrre
circa 1.200.000 libbre (pari a 480.000 Kg.) di seta grezza torna al
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16. V. Demarco, Il crollo del Regno delle
Due Sicilie, Napoli 1960, che parla di 2.000 operai nelle nove cartiere del
Liri. Sul carattere avanzato delle cartiere meridionali v. Barbagallo C., Le
origini della grande industria contemporanea (Firenze 1951), p. 436 (a p. 422 si
nota il carattere arretrato delle cartiere lombarde), Luzzatto G., L’economia
italiana dal 1861 al 1894 (Torino 1968). torna al
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17. dalla rivista "Il gommone", Koster
publisher, gennaio-febbraio 2003, pag.107 torna al
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18. Annuario Statistico Italiano 1864 di
Maestri-Correnti riportato in Svimez, "Cento anni di vita nazionale attraverso
la statistica delle regioni", Roma, 1961; ISTAT, Annuario Statistico
Italiano, 1938 torna al testo
19. l’unità di misura di superficie della terra
era il moggio, chiamato anche tomolo, equivalente a 4.115 metri quadri
(Lucania). L’unità di peso per i prodotti della terra era la libbra che
equivaleva a 480 grammi torna al testo
20-22. Nicola Zitara, op. cit.
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21. diversamente dai Savoia ai quali fu
dedicato il piatto nazionale tipico del Sud battezzando con il nome della regina
Margherita una variante della pizza in cui erano presenti i "colori
nazionali ". torna al testo
23. La moltiplicazione fu
permessa dalle leggi sabaude, che permettevano di mantenere riverve in oro 3
volte inferiori alla moneta circolante torna al testo
24. l’unità di peso era il cantaro o cantaio ed
equivaleva a 89,10 chili; il rotolo era la centesima parte del cantaro
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25. Boeri, Crociati, Fiorentino; "
L’esercito borbonico dal 1830 al 1861 ", Stato Maggiore dell’Esercito, Roma,
1998 torna al
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26. Vincenzo Gulì, "Il saccheggio del Sud",
Campania Bella editore torna al testo
27. Decreto del 10 agosto 1815 torna al
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28-29 Le finanze napoletane e le finanze
piemontesi dal 1848 al 1860 - Giacomo Savarese - Cardamone - 1862 torna al
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30-31. Michele Vocino, "Primati del regno di
Napoli", Mele editore torna al testo
32. Basti pensare agli 866 km realizzati dal
rissoso Piemonte fino al 1860, la cui costruzione contribuí non poco alla
bancarotta di quello Stato torna al testo
33. Tratto dagli " Annali Civili del Regno
delle Due Sicilie ", vol. XX,fasc.XLI, pag.37 torna al
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34. Michele Vocino, I primati del regno di
Napoli, Mele editore, pag. 149 torna al testo
35. il Piemonte aveva approntato 866 km di
ferrovie, il Lombardo Veneto 240 km, la Toscana 324 km, i ducati emiliani 180
km; le Due Sicilie 104 km operativi e 150 in via di completamento o in
costruzione torna
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36. ibidem torna al testo.
37. Enzo Striano, Il resto di niente,
Avagliano editore, 2002, pag. 52 torna al testo.
38. A. Mozzillo, "Passaggio a Mezzogiorno",
Leonardo editore, 1993, pag. 382, modif. torna al
testo.
39. seguì la reazione del restaurato Re che
considerava i sudditi ribelli (principalmente intellettuali e aristocratici),
dei semplici traditori. Di essi 99 furono giustiziati nel tripudio popolare.
Come ha fatto dire a un suo personaggio Enzo Striano (op.cit.), "A Napoli la
rivoluzione pochi la capiscono, pochissimi l’approvano, quasi nessuno la
desidera" torna al
testo.
40. Marco Meriggi "Gli stati italiani prima
dell’Unità ", Il Mulino, 2002 torna al testo.
41. Hermann Melville, Napoli al tempo di re Bomba, Princeton,
1855 torna al
testo.
42. Nicola Zitara, Fora, rivista elettronica pubblicata nel
sito www.duesicilie.org torna al testo.
43. Giovanni Caruselli, "Mozart in Italia",
Diakronia, 1991 torna al testo.
44. J. J. Rousseau: Dictionnaire de Musique.
Voce: génie. torna
al testo.
45. Nicola Zitara, cit. torna al
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46. Cesare de Seta in AD, giugno 2003, ed.
Condè Nast torna
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47. da una lezione di Salvatore Settis,
direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, all'Università di Cosenza;
riportata da "Il Sole 24 Ore" del 19 gennaio 2003, pag. 25 torna al
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