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I Il Sud e l'unità d'Italia |
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Il Sud e l'Unità d'Italia.
Pubblicato su permesso degli autori:
Giuseppe Ressa e Alfonso Grasso.
Dalla storiografia ufficiale alla realtà dei fatti.
Nota degli autori
La voglia di saperne di più sulla storia del Sud d'Italia,
al momento della sua annessione al resto della Penisola, ci è venuta anni
fa sulla spinta di movimenti culturali che avevano cominciato a mettere
gli avvenimenti nella giusta luce. In realtà, probabilmente, il "tarlo"
c'era già nel nostro cervello fin da giovani quando ci chiedevamo: "Ma è
possibile che noi meridionali eravamo così arretrati e ci volle l'Unità
per salvarci dal baratro? la nostra storia si è fermata ai fasti della Magna
Grecia e poi il nulla?". La cosa curiosa è che, generalmente, sono proprio
gli uomini del Sud, specialmente quelli che si considerano parte attiva
delle élite culturali, che si oppongono ad una revisione sistematica della
storiografia nazionale; sono gli stessi che cancellano ogni traccia linguistica
della propria regione di origine, ne disprezzano gli usi e i costumi, ne
infangano la memoria, esaltando nel contempo tutto ciò che è "non meridionale".
Superando questi ostacoli, abbiamo preso in mano decine di testi impiegando
tutto il nostro tempo libero degli ultimi 5 anni, e sono venute fuori delle
belle sorprese. Abbiamo quindi fatto una sintesi delle migliaia di pagine
lette e ora lanciamo il nostro lavoro in INTERNET, un debito di riconoscenza
verso questa risorsa telematica che ci è servita a scambiarci preziose informazioni.
Tutti gli interessati possano attingervi, speriamo così di raggiungere il
maggior numero di appassionati del genere, superando gli angusti circuiti
commerciali librari.
Gli autori
Piano dell'Opera
Parte Prima
Premessa
1. La situazione
politica italiana preunitaria
2. I progetti
unitari e la loro caratteristica elitaria
3.Il fallimento
delle ipotesi federali e di quella centralistica repubblicana
4. La sfera
geopolitica e le Due Sicilie di Ferdinando II, le motivazioni concrete dell'Unità
5. L'esperimento
costituzionale del 1848 ed il ritorno all'assolutismo
6. La "Negazione
di Dio"
7. L'espansionismo
piemontese e la strumentalizzazione dell'ideale unitario
Parte Seconda
8. Il Sud prima dell'Unità
Industria metalmeccanica e siderurgica
Flotta Mercantile e Cantieristica Navale
Produzione tessile
Cartiere
Industria Estrattiva e Chimica
L’Industria conciaria
L’Industria del corallo
Saline
Vetri e Cristalli
Agricoltura ed allevamento
Il sistema monetario, il costo della vita, la tassazione
Opere pubbliche
Arte Cultura e Scienza
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Parte Seconda
Parte Terza
9. La Sicilia
10. L’invasione delle Due Sicilie
10.1 L'interregno di Garibaldi
10.2 La situazione militare
10.3 I Plebisciti
10.4 Il sigillo inglese
10.5 Le ultime battaglie, la fine delle Due Sicilie
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Terza
Parte Quarta
11. Le conseguenze dell'annessione
Prigionieri di guerra
Il "Regno rappezzato", la " piemontesizzazione " e la
fallimentare politica sabauda
La questione agraria: Il Demanio e gli Usi Civici
Il Sistema bancario ed il Bilancio iniziale del neo stato
italiano
La Politica Fiscale unitaria
La Spesa Pubblica
Trasporti
Spese amministrative
L'attacco dello Stato all'industria meridionale
Il ruolo dei parlamentari meridionali a Torino
12. La Resistenza nelle Due Sicilie
I briganti e i "reazionari"
La Repressione
L’emigrazione, la diaspora meridionale
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Parte Quarta
13. Brigantaggio, legittima difesa del Sud.
Di: Marina CarreseVai al brigantaggio
14. I Primati
nazionali, europei e mondiali del Sud
prima dell'unità d'Italia
vai ai primati
Parte Prima
Premessa
Le resistenze ad una revisione sistematica della nostra
storiografia sono curiosamente molto forti ancora oggi, nonostante oramai
si guardi al di la' dei confini del proprio paese e si aspiri a diventare
cittadini del mondo; spesso l'ostacolo è solo ideologico ma "la storia non
può essere studiata secondo le direttive del partito in cui si milita o
di cui si condivide l'ideologia e il programma politico. Dobbiamo liberamente
ricostruire il nostro passato anche se ciò significa porsi controcorrente
con il risultato di non essere congeniali né agli storici di destra che
di sinistra."
(1)
I primi storici liberali, servili adulatori del sovrano
Vittorio Emanuele II di Savoia, hanno costruito una storia del Risorgimento
distorta, sacrificando la verità all'esigenza di creare un supporto mitologico
all'ideale di unità nazionale. Dopo più di 140 anni, incredibilmente, nelle
scuole la storia viene insegnata allo stesso modo, non tenendo conto di
acquisizioni che dovrebbero farla modificare radicalmente. Risulta ancora
oggi comodo credere che l'unità d'Italia sia stata il risultato del "comune
sentire" dei padri della Patria e della popolazione tutta, ma una persona
intellettualmente onesta deve, a nostro avviso, essere disposta a guardare
con obiettività i fatti, anche se questo fa vacillare rassicuranti certezze;
del resto "il dominio dei luoghi comuni non è tanto la biblioteca dello
studioso di storia, quanto lo scrittoio dell'uomo di media
cultura"
(2).
Questo libro vuole contribuire ad una più meditata e
serena visione dei fatti risorgimentali, offrendo nuovi spunti di riflessione.
Gli autori
Note alla Premessa:
1. Tommaso Pedìo, massimo storico lucano,
nella sua lezione introduttiva al corso di Storia Moderna dell'Università
degli Studi di Bari, Facoltà di Giurisprudenza, anno accademico 1967-68
riportata in "Economia e società meridionale a metà dell'Ottocento" di Tommaso
Pedio, Capone Editore, 1999
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2. Alberto Consiglio, "La rivoluzione napoletana
del 1799", Rusconi, 1999, pag. 244
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1. La situazione politica italiana preunitaria
Il concetto di Stato e quello di Nazione vanno distinti
e, per farlo, trascriviamo le definizioni del Dizionario della Lingua Italiana
Zingarelli (ed. 2000): "Stato" è "persona giuridica territoriale sovrana,
costituita dalla organizzazione politica di un gruppo sociale stanziato
stabilmente su un territorio". "Nazione" è "il complesso di individui legati
da una stessa lingua, storia, civiltà, interessi, aspirazioni, specie
quando hanno coscienza di questo patrimonio comune"; da questo ne deriva
che possa esserci uno stato costituito da più nazioni, come possa anche
esistere una nazione senza stato (come esempi dei giorni nostri possiamo
pensare nel primo caso alla Gran Bretagna, nel secondo ai Curdi). Per quanto
riguarda l'Italia, bisogna risalire ai tempi dell'imperatore romano d'oriente
Giustiniano, per trovare uno Stato unitario; dopo l'invasione dei Longobardi
del 568 si ruppe l'unità politica e ci furono 1300 anni di divisioni che
generarono nazioni diverse, almeno nel comune sentire del popolo, ognuna
delle quali ebbe storia, cultura, usi e costumi propri; questo processo
si esaltò nel Mezzogiorno perché esso "rimase in parte estraneo alla
penetrazione longobarda sia per le persistenze bizantine sia per la costituzione
subito dopo l'anno Mille, grazie ai Normanni, del primo stato unitario
dell'Italia postromana (...) una nazione napoletana, ossia meridionale,
comprendente tutte le genti dal fiume Tronto allo stretto
di Messina"
(1).
A causa di questo processo storico plurisecolare, a metà
del 1800 l'idea di un unico Stato Italiano come Patria comune era assente
in Italia, tanto che, per esempio, la popolazione delle Due Sicilie chiamava
"forestieri" gli altri abitanti d'Italia, ed i Piemontesi, quando si spostavano
dal loro stato, affermavano che andavano "in Italia"; in altre parole il
popolo considerava "patria" il proprio stato italiano d'appartenenza (alla
fine del Settecento erano 12, ridotti a 9 dal Congresso di Vienna del 1815
e subito dopo a 7: regno di Sardegna, regno Lombardo Veneto; ducati di Parma
e Modena; granducato di Toscana, Stato della Chiesa e regno delle Due Sicilie).
Non esisteva una lingua comune, gli italiani italofoni nel 1861 erano solo
una sparuta minoranza, tra il 2.5%
(2)
ed il 9.5% (3),
di questi, i Toscani erano la massima parte. Tutti si esprimevano nel proprio
dialetto. In Piemonte si parlava, si scriveva e si pensava in francese;
i figli dei ricchi studiavano in Francia e, una volta adulti, leggevano
giornali francesi. Lo stesso Statuto Albertino fu scritto prima in francese
e poi tradotto in italiano
(4).
L'analisi compiuta su 40 frequenze geniche del DNA
(5)
mostra come ancora oggi il nostro paese sia un mosaico di gruppi, differenziati
dal punto di vista genetico e linguistico: nei vari dialetti della Penisola
si ritrovano "relitti" delle lingue preromaniche. Già in epoca romana, le
città d'Italia godevano di ampi diritti municipali, successivamente difesi
contro le pretese di re, papi ed imperatori: tale spirito municipale è sopravvissuto
fino ai nostri giorni, quale logica e orgogliosa conseguenza della storia.
Né esisteva, ai tempi dell'unità d'Italia, un'economia
integrata tanto che solo il 20% dei commerci degli stati preunitari erano
diretti verso le altre regioni della penisola. Le esportazioni delle Due
Sicilie (minerali, prodotti agricoli e manifatturieri) andavano per 85%
del totale verso Inghilterra Francia e Austria
(6),
paesi che erano in grado di acquistarli; nei confronti del regno di Sardegna
il Sud aveva un saldo molto attivo
(7).
La Penisola era insomma come un condominio, si viveva sotto uno stesso tetto
(le Alpi) ma ci si ignorava e spesso si litigava; ben diversa la realtà
degli altri stati europei che da tempo avevano raggiunto la loro unità politica
statale che spesso coincideva con quella nazionale.
Note al capitolo 1:
1. G. Fergola, L'Italia invertebrata,
Controcorrente editore, 1998
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2. T. De Mauro, Storia linguistica
dell'Italia unita, Laterza,1976
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3. A. Castellani, Quanti erano gl'italofoni
nel 1861?, in "Studi Linguistici Italiani", 1982
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4. N. Zitara, L'unità truffaldina,
pubblicata su "Fora", rivista telematica: http//www.duesicilie.org modif.
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5 " Le Scienze ", 278, 1991, pp.62-69
.
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6. A. Graziani, Il commercio estero
del Regno delle Due Sicilie dal 1832 al 1858, Ilte , Roma , 1965 citato
da A. Banti in "La nazione del Risorgimento" , Einaudi, 2000, pag.21.
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7. T.Pedio, op.cit. pag.82 (per le
province continentali del Regno, periodo 1838-1855: importazioni 19.441
ducati; esportazioni 33.541 ducati) .
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2. I progetti unitari e la loro caratteristica elitaria
Nella prima metà dell'800, a livello di ristrette e colte
élite italiane ed in stridente contrasto col "comune sentire" del popolo,
era presente e forte la convinzione dell'esistenza di un'unica Nazione Italiana
che si faceva ascendere da alcuni all'impero romano, da altri al Medioevo;
ad essa si facevano risalire i fasti del Rinascimento con il suo primato
culturale indiscusso (che coincideva, con apparente paradosso, col punto
più basso della rilevanza politica dell'Italia nel contesto europeo). Giovani
universitari, avvocati, medici, giornalisti, scrittori, avevano formato
il loro pensiero sulle opere di Foscolo, Berchet, Giusti, Giannone, Manzoni,
Poerio, Pellico, Cuoco, D'Azeglio, Balbo, Botta e Gioberti (solo per citarne
alcuni) e credettero fosse arrivato il momento di battersi per dare a questa
Nazione uno Stato unitario. Erano una piccolissima minoranza anche perché
solo pochissimi italiani sapevano leggere e scrivere (al momento dell'unità
il loro numero superava a malapena il 20%). Questa aspirazione ad un'unione
statale della Penisola divenne il loro ideale, ma si trovarono in conflitto
sul come realizzarla. Nacquero quattro progetti politici, molto diversi
e in palese contraddizione tra loro: quello repubblicano-centralistico
di Mazzini, quello repubblicano-federale di Cattaneo
(1),
quello monarchico-federale a guida papale di Gioberti e quello
monarchico-centralistico guidato dai Savoia che, per forza propria e
degli accadimenti storici succedutisi nel tempo, prevalse alla fine sugli
altri.
Scrive a questo proposito Alberto
Banti
(2)
: "Le fratture che correvano all'interno del movimento nazionale erano di
un tipo tale per cui chi avesse vinto la partita, avrebbe vinto tutto, e
chi avesse perso sarebbe rimasto con un pugno di mosche in mano, in posizione
politica (e spesso anche personale) del tutto marginale".
"D'altra parte, l'ingombrante presenza austriaca della
penisola (...) poneva due ordini di problemi. Innanzi tutto, creava uno
squilibrio permanente nei rapporti tra Stati italiani, dato che nessuno
di essi aveva il peso ed il prestigio militare sufficienti a bilanciare
l'influenza asburgica. In secondo luogo, catalizzava il problema italiano
intorno alla parola d'ordine della cacciata dello straniero, ricca di suggestioni
emotive (...) tali da far passare in secondo piano, come minimalista e inadeguato,
qualunque programma volto a ottenere riforme costituzionali o amministrative
nell'ambito degli ordinamenti esistenti (...) questa peculiarità' italiana
fece sì che la dimensione cospirativa di stampo settario (Mazzini) (...).
avesse un peso rilevante" (3)
anche perché i programmi federalisti del Gioberti e di Cattaneo, pur rispettosi
delle realtà secolari degli stati italiani, sostanzialmente fallivano nella
soluzione del "problema Austria" .
La corrente repubblicana centralista del Mazzini
si ridusse sempre più a perseguire solo il problema dell'unità nazionale
e della cacciata dello straniero senza elaborare progetti atti a risolvere
le esigenze pratiche del popolo italiano: così la questione contadina, la
depressione economica, l'analfabetismo; il divario tra le classi sociali,
rimasero in secondo piano.
Tutti questi progetti unitari "raccoglievano ostilità
e soprattutto indifferenza nel popolo italiano"
(4) nella prima metà dell'Ottocento, infatti,
l'idea di un'Italia unita e indipendente non si era formata, com'era del
tutto assente una coscienza nazionale; né sono da contrapporre a queste
asserzioni le "spontanee insurrezioni popolari unitarie" che si manifestarono
nei vari stati italiani: esse erano notoriamente organizzate da agenti sabaudi.
Né tanto meno i risultati dei "plebisciti" che nessuna mente intellettualmente
onesta può definire, guardando alle modalità del loro svolgimento, libera
espressione di volontà popolare.
Note al capitolo 2:
1. affermava che "gli italiani senza
federalismo saranno sempre discordi, invidiosi, infelici", riportato da
Alessandro Vitale nel Supplemento al n.10 di "Liberal", febbraio 2002 torna
al testo. L'affermazione è da valutarsi con riferimento alla situazione
italiana del 1840 (Penisola divisa in 7 stati).
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2. La nazione del Risorgimento",
Einaudi, 2000.
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3. Roberto Martucci, "L'invenzione
dell'Italia unita", Sansoni, 1999.
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4. Marcello Veneziani, Processo all'Occidente, ed. Sugarco,
1990, pag.225.
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3.Il fallimento delle ipotesi federali e di quella centralistica
repubblicana
Prima che naufragasse definitivamente il progetto federale,
Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie, era stato più volte sollecitato
ad accettare la presidenza di un'ipotetica Lega degli
Stati Italiani
(1). Il
re meridionale era il candidato ideale: come riferisce Angela
Pellicciari
(2) "il
primo ad avere l'idea di una Lega federativa fra gli stati italiani era
stato Ferdinando II di Borbone, che nel novembre del 1833, tramite il suo
ambasciatore a Roma, conte Ludorf, invitava il papa Gregorio XVI a farsi
promotore di una Lega difensiva e offensiva fra i vari governi della penisola"
ma l'invito non fu accolto. Nell'agosto 1847, fu papa Pio IX, sull'onda
delle idee federaliste espresse dal Gioberti nel libro " Il Primato morale
e civile degli italiani", a prendere l'iniziativa cominciando a sondare
l'adesione d'alcuni sovrani italiani al progetto di una "lega doganale",
sulla falsariga di quella realizzata l'11 maggio 1833 tra i venticinque
stati tedeschi (il cosiddetto Zollverein). A novembre fu firmata una bozza
d'intesa tra Roma, Firenze e Torino e ci furono contatti con Napoli e Modena
per un allargamento della stessa. Il 24 marzo 1848 il Piemonte dichiarò
guerra all'Austria (la cosiddetta prima guerra d'indipendenza). Il 26 marzo
il ministro degli Esteri delle Due Sicilie sollecitò la convocazione di
un Congresso a Roma, sotto l'egida del papa, in appoggio al progetto toscano
di una "lega politica " detta italica.
Il governo costituzionale delle Due Sicilie dichiarò
guerra all'Austria il 7 aprile 1848, inviando al nord un contingente di
ben 16mila uomini. Nell'occasione Ferdinando II emanò un proclama: "Noi
consideriamo com'esistente di fatto la Lega Italiana, dacché l'universale
consenso de' Principi e de' popoli della Penisola ce la fa riguardare come
già conchiusa, essendo prossimo a riunirsi in Roma il Congresso che Noi
fummo i primi a proporre; e siamo per essere i primi a mandarvi i rappresentanti
di questa parte della gran famiglia italiana" [il 4 aprile erano stati già
designati e l'11 si stabilì che essi aderissero comunque al progetto di
lega doganale], invitava poi ogni principe italiano ad unirsi alla causa
indipendentista ed esortava il suo popolo all'unità
(3).
Carlo Alberto, re del Piemonte, fece però fallire il
progetto di federazione politica italiana. Si limitò infatti a proporre
che si riunissero a Torino i delegati militari per discutere della guerra
contro l'Austria. Questo intendimento fu riferito dal cardinale Antonelli
agli inviati delle Due Sicilie giunti il 18 aprile a Roma per il Congresso;
essi rimasero di sasso perché il contingente militare meridionale era già
partito per il Nord e quindi l'adesione alla guerra era acquisita. Il 29
aprile il Papa si disimpegnò dall'adesione alla guerra rimarcando la preminenza
del suo magistero spirituale. Il 4 maggio, vista la sospensione delle trattative
per la lega politica, la delegazione meridionale si ritirava. Il re piemontese
aveva gettato la maschera, il progetto monarchico-federale doveva
essere sepolto perché egli aveva ambizioni diverse, voleva diventare
l'unico Re d'Italia fedele emulo di quello che aveva affermato il suo
antenato Emanuele Filiberto: "L’Italia? È un carciofo di cui i Savoia mangeranno
una foglia alla volta". In seguito al fallimento delle trattative per la
lega politica il contingente militare meridionale fu ritirato (in parte
pesarono anche le preoccupazioni per la rivolta indipendentista siciliana
allora in corso); seguirono le sconfitte di Custoza (23 luglio) e di Novara
(3 marzo 1849). Scrisse Gramsci nell'opera "Il Risorgimento": " La politica
incerta, ambigua, timida e nello stesso tempo avventata dei partiti di destra
piemontesi fu la cagione della sconfitta; essi furono di una astuzia meschina,
essi furono la causa del ritirarsi degli eserciti degli altri stati Italiani,
napoletani e romani, per aver troppo presto mostrato di volere l'espansione
piemontese e non una confederazione italiana; essi non favorirono ma osteggiarono
il movimento dei volontari (...) pensando di poter vincere gli Austriaci
con le sole forze regolari piemontesi [e non si capisce come potessero avere
una tale presunzione], o avrebbero voluti essere aiutati a titolo gratuito
[e anche qui non si capisce come potesse pretendere un
tale assurdo]"
(4).
Gli avvenimenti del 1848 causarono quindi il fallimento
dell'ipotesi monarchico-federalista del Gioberti, e del progetto
repubblicano-federalista del Cattaneo, irrealizzabile nel contesto
politico italiano ed europeo
(5).
Gli ultimi moti mazziniani non portarono a risultati concreti e con loro
fallì il progetto repubblicano-centralistico. Rimase in piedi
solo quello monarchico-centralista dei Savoia che ebbe in Cavour
un formidabile esecutore. A questo progetto, gioco forza, si convertirono
molti aderenti delle altre correnti di pensiero; il Risorgimento perse in
questo modo la gran parte della sua idealità e dello spirito democratico
avendo come misero risultato finale il mantenimento dell'istituto monarchico
e il progressivo "allargamento" del Piemonte con l'abbattimento delle frontiere
interne. "Anche un innamorato del Risorgimento come Giovanni Spadolini non
nascose che, accanto alle luminarie patriottiche si trovavano le ombre di
questioni rimaste insolute: "Quella dei Savoia - scrisse - era una dinastia
ambiziosa ed intraprendente all'estero, retrograda e conservatrice all'interno.
Più astuta che geniale. Più fortunata che gloriosa. Più abile che audace.
Una sola meta: estendere lo Stato sabaudo verso est e cioè verso le pingui
pianure lombarde. Il Risorgimento era stato troncato a mezzo delle sue aspirazioni
(...) i Savoia sono rimasti gli stessi, utilitari ed esclusivisti piemontesi
di prima e hanno tentato di piemontizzare l'Italia, appoggiandosi alla sua
ottusa e superba consorteria militare e accaparrandosi con concessioni e
compromessi i diversi ed eterogenei partiti politici,
espressioni più di clientele che di popolo"
(6).
Marcello Veneziani
(7)
osserva che il Risorgimento provocò, inoltre, per la sua preminente matrice
liberale ed anticlericale, anche "la frattura con l'anima religiosa del
popolo italiano, la frattura con il mondo rurale e con i valori tipici di
una civiltà contadina, la frattura con il Meridione"; interessanti, a quest'ultimo
proposito, le opinioni di Denis Mack Smith e Paolo Mieli
(8),
dice il primo: "Contrariamente alla versione raccontata sui libri della
storia ufficiale il popolo meridionale non partecipò al Risorgimento" e
aggiunge il secondo: "La stagione risorgimentale e post-risorgimentale è
fatta di migliaia di morti, lotte, spari, massacri. Abbiamo vissuto una
lunga guerra civile, di reietti contro buoni. Il popolo, soprattutto dell'Italia
meridionale, è stato all'opposizione; lo era dai tempi delle invasioni napoleoniche.
C'erano stati moti molto forti, per diciannove anni, sino al 1815 [le cosiddette
"insorgenze" contro i francesi che causarono decine di migliaia di vittime].
Il popolo rimase sordamente ostile, perché legato all'autorità borbonica
non percepita come nemica e alla Chiesa cattolica, che era una delle fonti
istituzionali alle quali abbeverarsi. Il fenomeno ricordato nei nostri manuali
come brigantaggio in realtà fu una guerra civile che sconvolse l'intero
Sud, gli sconfitti lasciarono le loro terre e alimentarono la gigantesca
emigrazione verso l'America".
Note al capitolo 3:
(1) anche Giuseppe Verdi rese omaggio
a Ferdinando, componendo "La Patria. Inno nazionale a Ferdinando II di Borbone
", spartito e testo pubblicati dall'editore Giraud nel 1848, entrambi
disponibili negli archivi del Conservatorio San Pietro a Maiella di Napoli.
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(2) L'altro Risorgimento ", Piemme,
2000
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(3) Harold Acton, " Gli ultimi Borboni
di Napoli ", pag. 258, Giunti editore, 1997
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(4) Francesco Maria Agnoli, " L'epoca
delle rivoluzioni ", Il Cerchio iniziative editoriali, 1999, pag.58
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(5) coerentemente con le sue idee Cattaneo,
pur eletto per tre volte al Parlamento del regno d'Italia, rifiuto' l'incarico
per non giurare fedeltà ai Savoia.
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(6) Lorenzo Del Boca, " Indietro Savoia",
Piemme, 2003
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(7) citato da Lorenzo Del Boca, " Indietro
Savoia", Piemme, 2003
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(8) dal quotidiano " La Stampa " del
19 maggio 2001, pag. 23. torna
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4. La sfera geopolitica e le Due Sicilie di Ferdinando
II, le motivazioni concrete dell'Unità
Lo scenario politico europeo di quegli anni era dominato
dalle superpotenze: Inghilterra, Francia, Austria, Russia e la emergente
Prussia, tutte in lotta tra loro per la supremazia. Uscita vittoriosa dalla
prima guerra con il Piemonte del 1848-49, l'Austria continuava a tenere
saldamente in mano la Penisola, sia con domini diretti sia con stati alleati.
L'avvento al potere in Francia di Napoleone III segnava intanto la ripresa
della politica espansionistica francese. L'imperatore intendeva favorire
le mire espansionistiche del Piemonte, considerato come uno stato vassallo,
per stabilire una sfera di influenza e controllo su tutta l'Italia. Napoleone
III incarnava l'antico disegno di fare del Mediterraneo un lago francese,
e l'occupazione dell'Algeria rappresentò il primo passo verso tale obiettivo.
Anche l'Inghilterra, perse da tempo le colonie americane, mirava al controllo
del commercio marittimo nel Mediterraneo e pertanto temeva le mire espansionistiche
di Napoleone III. Era inoltre in corso di realizzazione, da parte di un'impresa
francese, il canale di Suez, che per l'Inghilterra rappresentava una via
di comunicazione di sommo interesse per l'accesso rapido al suo impero in
India. La Russia intanto si impadroniva del Mar Nero, mirando a portare
l'Impero Ottomano alla dissoluzione, con conseguente destabilizzazione di
tutta l'area. La chiave di volta del Mediterraneo era, per la
sua posizione geografica, il Regno delle Due Sicilie.
Il Regno era tornato formalmente indipendente nel 1734,
ma "la gerarchia internazionale di grandi e piccoli stati era cosa fatta,
e il Regno, pur autonomo, continuava ad essere dentro un gioco internazionale
e commerciale che controllava molto parzialmente, poteva soltanto subirlo,
adattandosi alla sponda spagnola o austriaca o inglese"
(1).
Negli anni seguenti alla bufera napoleonica ed al Congresso di Vienna continuò
a soggiacere all'influenza sia dell'Austria sia dell'Inghilterra, ma dal
1830, sotto la ferma guida di Ferdinando II, era diventato uno stato veramente
indipendente e capace di uno sviluppo economico rilevante, "un terzo incomodo"
quindi per la Francia e l'Inghilterra le quali usarono la diplomazia e la
forza per annientarlo. Succeduto appena ventenne al padre Francesco I, Ferdinando
II aveva subito mostrato le grandi doti che avrebbero segnato i suoi
30 anni di regno: nel giro di pochi mesi diede seguito al programma
di risanamento finanziario, già avviato dal precedente primo ministro Medici,
abolì i cumuli di più retribuzioni, diminuì drasticamente il suo appannaggio,
restituì al pubblico le riserve di caccia dei sui avi, ridusse le imposte
(quella sul macinato addirittura della metà), concesse un'amnistia. Diede
un forte impulso all'economia, costruì strade, ponti e ferrovie, stipulò
numerosi accordi commerciali, stipendiò i parroci nei comuni dove non c'erano
le scuole elementari per fornire una istruzione di base al popolo, proibì
l'accattonaggio avviando i mendicanti in istituti nei quali era insegnato
loro un mestiere; potenziò esercito e marina con l'intento di affermare
in via definitiva l'indipendenza del Sud d'Italia dalle potenze straniere.
Furono proprio le dimostrazioni di forza della flotta militare davanti alle
coste africane a convincere nel 1833 i tunisini e nel 1834 i marocchini
a non intralciare più, come avevano fatto per secoli, i commerci della flotta
mercantile meridionale [erano i temutissimi "pirati barbareschi" che si
cercava di avvistare dalle quasi 400 "torri saracene" costruite sulle coste
meridionali]. I primi cinque anni del regno di Ferdinando II furono così
proficui che persino il ministro inglese Robert Peel ne fece le lodi in
pieno parlamento.
Dopo le piccole potenze, furono le grandi a dover saggiare
la caparbietà di Ferdinando II che cominciò a "dare fastidio" nel 1836,
quando aveva detto di no alle pretese avanzate dall'Inghilterra sulle miniere
di zolfo in Sicilia (la regione deteneva il 90% delle riserve mondiali di
quel minerale, indispensabile per l'industria chimica dell'epoca, in particolare
quella degli esplodenti). "La questione degli zolfi, per chi non la conoscesse,
è presto detta. Fin dal 1816 vigeva tra Londra e Napoli un trattato di commercio,
dove l'una nazione accordava all'altra la formula della "nazione più favorita".
Subito ne approfittarono i mercanti inglesi per accaparrarsi l'intera, o
quasi, produzione degli zolfi, allora fiorente in Sicilia. Compravano a
poco e rivendevano a prezzi altissimi. Di questo traffico poco o nulla si
avvantaggiava il reame e meno ancora i minatori e i lavoranti dello zolfo.
Ferdinando II volle reagire a questo sfruttamento, tanto più che, avendo
sollevato la popolazione dalla tassa sul macinato, aveva bisogno di ristorare
le casse dello Stato in altro modo. Fece perciò un passo forse audace: diede
in concessione il commercio degli zolfi ad una società francese che lo avrebbe
pagato almeno il doppio di quanto sborsavano gli
inglesi."
(2). I Britannici,
poiché non avevano ricevuto soddisfazione dai tribunali, fecero ricorso
alla forza: "Palmerston mandò la flotta nel golfo di Napoli, minacciando
bombardamenti, sbarchi e peggio. Ferdinando II non si smarrì, ordinò a sua
volta lo stato d'allarme nei forti della costa e tenne pronto l'esercito
nei luoghi di sbarco. Pareva dovesse scoppiare la scintilla da un momento
all'altro. Ci si mise fortunatamente di mezzo Luigi Filippo e la Francia
prese su di sé la mediazione. Il risultato fu che lo Stato napoletano dovette
annullare il contratto con la società francese e pagare gli inglesi per
quel che dicevano d'aver perduto e i francesi per il guadagno mancato. È
il destino delle pentole di terracotta costrette a viaggiar tra vasi di
ferro. Chi ci rimise fu il povero regno napoletano; ma l'Inghilterra se
la legò al dito come oltraggio supremo."
(2)
(1) Paolo Macry, "I giochi dell'incertezza",
L'ancora del Mediterraneo, 2002
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(2) Carlo Alianello, La conquista
del sud, Rusconi, 1982
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5. L'esperimento costituzionale del 1848 ed il ritorno
all'assolutismo
Ferdinando II fu il primo sovrano italiano a concedere
la Costituzione, che venne promulgata il 10 febbraio 1848. Il re intendeva
in tal modo togliere motivazioni agli indipendentisti siciliani, in rivolta
dal 1847, e corrispondere alle pressanti istanze dei liberali napoletani
(sempre nel 1847 Luigi Settembrini aveva scritto la "Protesta del popolo
delle Due Sicilie"). Sull'esempio di Ferdinando II, anche gli altri regnanti
italiani intrapresero la via costituzionale (Carlo Alberto in un primo tempo
dichiarò che "mica sono come quel Borbone che ha accettato il diktat degli
insorti, facendo la cosa più deleteria che si possa
immaginare
(1)").
Con la costituzione, il "suddito" acquisiva sia la dignità
di "cittadinanza civile" (libertà personale, di stampa, di associazione,
di proprietà), sia quella di "cittadinanza politica" (al Re si affiancava
il Parlamento composto da due Camere, una di 164 deputati eletti dal popolo,
l'altra di 50 "Pari" nominati dal sovrano). Le elezioni si svolsero il 18
aprile, ma il 15 maggio 1848, in coincidenza con l'apertura dei lavori parlamentari,
una parte di deputati attuarono un tentativo di rovesciare la monarchia.
Utilizzando agenti provocatori e facinorosi, vennero erette barricate nelle
strade e ci furono scontri con molte vittime. In effetti, da circa un secolo
l'intellighenzia meridionale, conformatasi ai principi illuministici che
nel Sud avevano trovato la massima diffusione, era stata su posizioni antimonarchiche.
A seguito della rivolta furono sciolte le Camere ed indette nuove elezioni
per il 15 giugno 1848. Il 1° luglio il Parlamento aprì i lavori con la relazione
programmatica del Re, che fu approvata il 1° agosto dalla Camera dei Deputati
ed il 5 agosto da quella dei Pari. "Le due camere svolsero una modesta attività
(...) non formularono alcun progetto di legge (...), il 5 settembre i lavori
furono rinviati di due mesi (...), il 6 febbraio 1849 il Ministro delle
Finanze fece un discorso sul bilancio dello Stato con le relative tasse,
i deputati si opposero affermando che per esigere imposte occorreva un voto
del parlamento e che il governo in carica (nominato dal Re) non riscuoteva
la loro fiducia, inoltre si censurò la politica interna del sovrano; i contrasti
non si appianarono e il conflitto governo-Re da una parte e deputati dall'altra
fu risolto il 12 marzo da Ferdinando II il quale sciolse la Camera stabilendo
nuove elezioni che mai si tennero
(2)".
Il 7 agosto 1849 fu nominato presidente del Consiglio e delle Finanze il
lucano Giustino Fortunato, già aderente alla Repubblica Napoletana e al
governo di Murat. La costituzione fu sospesa e il Re, restaurando la monarchia
assoluta, assunse verso i liberali un atteggiamento sprezzante, chiamandoli
"pennaruli"
(3). Iniziò
una ferma politica repressiva con le liste degli "attendibili" (cioè dei
sospetti) compilate da un corpo speciale di polizia i cui membri erano chiamati
"i feroci". Di contro i liberali continuarono ad affibbiargli gli appellativi
infamanti che si aggiungevano a quello di "Re Bomba" acquisito dopo il
bombardamento di Messina del settembre 1848 da parte della flotta da
guerra (all'epoca la terza del mondo), nell'ambito della repressione del
movimento indipendentista siciliano. Nessun liberale diede del "re bomba"
a Vittorio Emanuele II che fece cannoneggiare, causando migliaia di morti,
Genova, Ancona, Gaeta e Palermo e che invece conservò l'appellativo di "re
galantuomo". I liberali continuarono a ricorrere anche a sanguinosi
atti di violenza per rovesciare il sovrano, compreso un tentativo di regicidio.
La frattura del 15 maggio 1848 non si ricompose più e così fallì il primo
esperimento costituzionale d'Italia. In realtà nessuno sa con certezza cosa
pensasse Ferdinando, all'inizio del 1848, della Costituzione. Molti storici
affermano che nel suo intimo la avversasse (come del resto tutti i sovrani
dell'epoca), ma non c'è dubbio che l'esperimento costituzionale fallì anche
per l'atteggiamento massimalistico dei liberali. Successivamente, con l'Unità,
essi accettarono lo Statuto Albertino, che s'ispirava agli stessi principi
della Costituzione Napoletana del 1848 che avevano avversato con la violenza.
La maggior parte del popolo meridionale, viceversa, non desiderava evoluzioni
politiche, anzi le osteggiava considerandole una lesione alle prerogative
assolute del sovrano; il monarca era amatissimo, come dimostrato dalle manifestazioni
di affetto esternate dai sudditi nel corso delle suo visite nelle province
nel regno. Veniva considerato "il padre", cioè il garante dei diritti del
popolo contro le pretese dei baroni. Le masse, insieme ai loro sovrani,
consideravano i loquacissimi intellettuali liberali come degli inutili demagoghi.
La popolazione, tutte le volte che poté scegliere, si schierò sempre con
il proprio sovrano, come ben dimostrano i fatti del 1799, del 1820, del
1848 e infine la reazione postunitaria. L'affetto del popolo per Ferdinando
II era anche dovuto al carattere squisitamente meridionale del monarca che
egli, pur nella consapevolezza della propria regalità, manifestava in tutti
i suoi atti: dal senso della famiglia alla religiosità, dall'uso abituale
del dialetto ai gusti alimentari, fino ad arrivare ai panni stesi ad asciugare
nelle sale della reggia di Caserta. Nel Sud l'ideale monarchico era talmente
radicato da sopravvivere agli stessi Borboni, e finì per esternarsi persino
nei confronti dei Savoia, i nuovi sovrani, nonostante la loro sciagurata
condotta nei confronti del Sud. Nel suo esilio, Francesco II (ultimo re
delle Due Sicilie) così rispose amaramente a chi gli ricordava il perdurante
affetto del popolo meridionale: "Sì, è vero i Napolitani sono fedeli al
Re, ma a qualunque Re del tempo, non alla mia persona". Ricordiamo al riguardo
che nel Referendum repubblica-monarchia del giugno 1946 il Sud votò massicciamente
per quest'ultima. Scrisse il ministro degli Interni Romita: "Nella notte
tra il 3 e il 4 giunsero, pero', improvvisamente i dati di un nutrito gruppo
di sezioni meridionali e la Monarchia passò in vantaggio. Fu la notte più
terribile: intorno alle ventiquattro sembrò che ogni speranza fosse perduta
(...) mi accasciai sulla poltrona, gli occhi fissi verso l'alto soffitto
in ombra (...) il telefono squillò più volte (...) proprio a me, repubblicano
da sempre, sarebbe spettato dire ai lavoratori che l'ultimo rappresentante
della più inetta casa regnante d'Europa sarebbe restato al proprio posto
ed enormemente rafforzato dalla riconferma popolare? E che cosa avrei detto
a Nenni, a Togliatti, a tutti gli altri, che non volevano l'avventura del
referendum?"; quando Umberto II, ultimo re sabaudo, si imbarcò all'aeroporto
di Campino di Roma per l'esilio in Portogallo "un vicebrigadiere dei carabinieri
lo saluta, egli si ferma a stringergli la mano: " Vi aspetteremo per sempre,
Maestà!", dice il giovane con accento napoletano".
(4)
Il convinto appoggio popolare convinse ancora di più
Ferdinando II dell'inopportunità di una monarchia costituzionale e sulla
giustezza della sua politica paternalistico-totalitaria. Nella sua concezione,
Stato Nazione e Popolo si identificavano in un unico "totale", che trovava
espressione, guida e garanzia nella sua stessa persona. Fu un autocrate
con ministri ridotti al ruolo di semplici esecutori della sua politica.
Voleva essere costantemente al corrente di tutto quello che succedeva nel
regno e questo lo costrinse ad un impegno massacrante, diviso tra lavoro
a tavolino e lunghe udienze nelle quali ascoltava pazientemente interlocutori
che potevano arrivare anche a più di cento in una sola giornata. Il resto
del tempo era dedicato alle funzioni religiose ed alla famiglia (ebbe numerosi
figli: dall'unione con la prima moglie Maria Cristina di Savoia, nacque
l'erede al trono Francesco; tutti gli altri dall'austriaca Maria Teresa,
"Tetella", sposata dopo la morte di Maria Cristina. Le cerimonie ufficiali
lo annoiavano. Amava assistere alle parate militari, ed i suoi svaghi erano
limitati a qualche passeggiata in carrozza, che amava condurre personalmente.
Nemmeno i più accessi oppositori riuscirono a muovere critiche riguardo
la sua integrità morale, virtù non molto diffusa nei sovrani del suo tempo:
basti pensare a Vittorio Emanuele II, che dilapidò somme enormi per le sue
innumerevoli relazioni extraconiugali, e che generò uno stuolo di figli
illegittimi. È pur vero che la difesa dell'istituto monarchico assoluto
da parte di Ferdinando II, a metà del 1800, fu una scelta anacronistica:
essa mirava a contrastare l'avanzata del movimento rivoluzionario liberale
(spesso asservito ad interessi economici stranieri), ma risultò alla fine
insoddisfacente anche a quei ceti medi che, rafforzatisi grazie alla politica
di sviluppo economico del Re, reclamavano partecipazione alla politica.
Note al capitolo 5:
(1) Lorenzo Del Boca, "Indietro Savoia", Piemme, 2003
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(2) Giuseppe Coniglio, " I Borboni
di Napoli", Corbaccio, 1999, modif.
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(3) cioè demagoghi, grafomani e
simili
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(4) Falcone Lucifero, L’ultimo re,
Mondadori, 2002, pag. 556
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6. La "Negazione di Dio"
La politica inglese di destabilizzazione della situazione
italiana continuò con William Gladstone, deputato e già ministro delle Colonie
del governo Peel. Fu incaricato di seguire i processi svolti nelle Due Sicilie
a carico degli aderenti alla "Società dell'Unità d'Italia", protagonisti
della rivolta del 15 maggio 1848. "Qualsiasi governo avrebbe perseguitato
una setta segreta che minacciava la sua stessa esistenza e propugnava l'assassinio
politico con proclami come questo: "Voi soli, o fratelli, voi soli rimanete
indietro. È vero che voi avete cotesta tigre Borbonica, che vi lacera le
membra e vi beve il sangue, cotesto ipocrita, cotesto furbo, cotesto scelleratissimo
Ferdinando. Ma non siete italiani voi? Non avete un pugnale? Nessuno di
voi darà la sua vita per 24 milioni di fratelli? Un uomo solo, una sola
punta darebbe libertà all'Italia, farebbe mutar faccia all'Europa. E nessuno
vorrà questa bella gloria?
(1)
". Il processo iniziò il 1° giugno 1850 e si concluse il 1° febbraio del
1851; tra gli imputati, in tutto 42, ricordiamo i nomi di Agresti, Faucitano,
Settembrini, Poerio, Pironti, Romeo. I primi tre furono condannati alla
pena capitale, ma subito graziati da Ferdinando; altri due subirono la condanna
dell'ergastolo, altri ancora ebbero pene detentive varie, otto furono assolti.
In seguito molti condannati, dopo pochi anni di carcere, furono liberati
ed avviati all'esilio.
Tornato a Londra nel 1851, d'intesa con il primo ministro
Lord Palmerston, Gladstone fece diffondere alcuni lettere da lui inviate
al ministro degli esteri, lord Aberdeen, nelle quali si etichettava il regno
delle Due Sicilie come la "negazione di Dio"; nella prima (del 7 aprile,
pubblicata l'11 luglio), Gladstone riferiva di una visita, che oggi si sa
mai avvenuta, alle carceri napoletane e così concludeva: "II governo borbonico
rappresenta l'incessante, deliberata violazione di ogni diritto; l'assoluta
persecuzione delle virtù congiunta all'intelligenza, fatta in guisa da colpire
intere classi di cittadini, la perfetta prostituzione della magistratura,
come udii spessissimo volte ripetere; la negazione di Dio, la sovversione
d'ogni idea morale e sociale eretta a sistema di governo
(2)".
L'Inghilterra gridò così al mondo intero il proprio sdegno per le asserite
disumane condizioni in cui erano tenuti i detenuti politici. Queste notizie
rimbalzarono da una cancelleria all'altra, trovando ampie casse di risonanza
sui giornali di Torino e nella stessa Napoli, negli esterofili ambienti
degli oppositori. A nulla servirono le smentite del governo borbonico che
invitò anche commissioni di giornalisti a verificare de visu. A giochi
fatti, cioè dopo l'annessione piemontese, sarà lo stesso deputato inglese
ad ammettere candidamente la menzogna: "Gladstone, tornato a Napoli nell'anno
1888-1889, fu ossequiato e festeggiato dai maggiorenti del così detto Partito
Liberale, i quali non mancarono di glorificarlo per le sue famose lettere
con la negazione di Dio, che tanto aiutarono la loro rivoluzione; ma a questo
punto il Gladstone versò una vera secchia d'acqua gelata sui suoi glorificatori.
Confessò che aveva scritto per incarico di lord Palmerston, che egli non
era stato in nessun carcere, in nessun ergastolo, che aveva dato per veduto
da lui quello che gli avevano detto i nostri rivoluzionari
(2)".
La situazione nelle carceri napoletane non era peggiore
di quella del resto d'Europa (ricordiamo, per rendere l'idea della mentalità
punitiva dell'epoca, ben diversa da quella riabilitativa dei giorni nostri,
che l'obbligo della catena al piede per i condannati ai lavori forzati fu
abolito nel nuovo regno d'Italia solo il 2 agosto 1902). In quegli stessi
anni la Francia inviava oltre 10 mila prigionieri politici in Algeria e
alla Cayenna; l' Inghilterra reprimeva spietatamente le rivolte in Irlanda
ed in India. Negli U.S.A. c'era ancora la schiavitù. Tutto questo non scandalizzò
Gladstone ed i liberali. Di contro il sistema giudiziario delle Due Sicilie,
come è stato riconosciuto da eminenti giuristi, era il più avanzato dell'Italia
preunitaria, in linea con la prestigiosa scuola meridionale di diritto,
e vantava il moderno Codice Penale del 1819. I magistrati erano reclutati
per concorso (e non per nomina regia come in altre parti d'Italia); quelli
che componevano le Gran Corti Criminali, presenti nei 21 capoluoghi, erano
in numero pari affinché in caso di equilibrio nel giudizio "l'opinione è
per il reo". Paolo Mencacci
(3),
a proposito del sistema giudiziario in vigore nelle Due Sicilie, riporta
che: "A giudicare coi criteri odierni che ritengono la pena di morte una
barbarie, il Regno delle Due Sicilie, nel decennio che precede l'unificazione,
è senz'ombra di dubbio uno stato modello". Ferdinando II aveva inoltre abolito,
il 25 febbraio 1836, la pena dei lavori forzati perpetui che invece decenni
più tardi fu comminata, in gran copia, dal governo "unitario" piemontese
ai cosiddetti "briganti " meridionali. Viceversa "Nel Regno di Sardegna
la realtà è molto diversa. Se assumiamo la pena di morte come indice della
violenza di un regime, il Regno Sardo fu uno stato brutale. Dal 1851 al
1855, con i liberali al potere, le esecuzioni capitali furono ben 113. Stato
violento, indebitato, con un alto tasso di criminalità, il Regno Sardo,
tramite il suo Presidente del Consiglio, i suoi ministri, la sua stampa,
prosegue nella calunnia sistematica degli altri Stati della Penisola, su
cui proietta la propria realtà e, contemporaneamente mitizza le condizioni
di vita dei paesi liberali
(4)".
Va però osservato che "Il governo borbonico non fu certo esente da colpe,
come dimostra la sua assoluta insensibilità nel comprendere la necessità
della battaglia culturale per contrastare attivamente con libri o pubblicazioni
(che non mancavano ed erano qualificatissimi) la calunniosa propaganda massonica
e liberale che invece dilagò presso le classi colte e conferì una giustificazione
intellettuale alla loro brama di potere
(5)".
Note al capitolo 6:
(1) Harold Acton, "Gli ultimi Borboni
di Napoli", Giunti Editore
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(2) Carlo Alianello, La conquista del
sud, Rusconi Editore
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(3) "Memorie Documentate", citate
da Angela Pelliciari in "L'altro Risorgimento", Piemme, 2000, pag.188
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(4) Angela Pellicciari, " L'altro Risorgimento
", op. cit.
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(5) Eduardo Spagnolo, Manifestazioni
antisabaude in Irpinia, ed. Nazione Napoletana, 1999
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7. L'espansionismo piemontese e la strumentalizzazione
dell'ideale unitario
L'evoluzione italiana verso l'unità politica è da inquadrarsi
nel contesto geopolitico europeo di quegli anni. Essa non sarebbe avvenuta,
almeno nei tempi e modalità in cui si è concretizzata, senza il benestare
di Francia e Inghilterra, le due superpotenze che avevano rispettivamente
l'esercito e la marina più potenti del mondo (l'Inghilterra con il
suo impero controllava addirittura un quinto delle terre emerse).
Camillo Benso, conte di Cavour, "uocchie 'e cane e
vocca 'e lupo
(1)" andò
al potere nel 1852 e cominciò l'opera di "grande tessitore" per rompere
l'isolamento internazionale del piccolo Piemonte. Cercò l'alleanza di Francia
ed Inghilterra, alle quali si riavvicinò con la partecipazione alla guerra
di Crimea del 1855, scatenata per porre freno alla politica espansionistica
dello Zar verso l'Impero Ottomano. All'opposto, Ferdinando II dichiarò la
neutralità nel conflitto in corso e rifiutò di concedere alle flotte francese
ed inglese l'uso dei porti delle Due Sicilie. Con tale atteggiamento si
attirò ulteriori ire delle due superpotenze, che reagirono con azioni diplomatiche
e fomentando la stampa "liberale" contro il re meridionale. Cavour uscì
invece rafforzato dalla campagna di Crimea, anche se l'apporto bellico del
suo esercito fu molto modesto. In breve lo statista piemontese divenne punto
di riferimento per il movimento liberale italiano: il regno di Sardegna,
contrariamente che altrove, aveva mantenuto in vigore lo Statuto anche dopo
gli sconvolgimenti del 1848-49. Lo Stato sabaudo divenne polo d'attrazione
per tutti i fuoriusciti politici d'Italia: essi furono "cooptati dalla classe
dirigente subalpina, arrivando ad occupare posti di rilievo nell'Università,
nell'editoria, nel giornalismo, nel parlamento, senza risparmiare l'esercito
(...) un quarto dell'organico complessivo
(2)".
Il prezzo da pagare per queste "attenzioni" fu però altissimo: abbandono
degli ideali repubblicani o federalisti e adesione al processo unitario
monarchico-centralista sotto la guida dei Savoia. Del resto Cavour non
poteva ostentare altre "supremazie" visto che il livello economico e culturale
del regno sabaudo non era certo tra i primi d'Italia. Con lo Statuto Albertino
era stato introdotto il sistema costituzionale, ma la gran parte dei poteri
rimase del re (articolo 5 :"Al Re solo appartiene il potere esecutivo";
articolo 65 "Il Re nomina e revoca i ministri"), l'estensione dei diritti
politici ai cittadini era limitatissima (gli aventi diritto al voto erano
un'esigua minoranza), scarsissima la centralità legislativa del parlamento
tanto è vero che dall'ascesa al potere di Cavour (4 novembre 1852) all'apertura
del primo parlamento unitario (18 febbraio 1861), su 3000 giorni disponibili
per il dibattimento la Camera fu chiusa per ben 2145
(3).
La trama piemontese di espansione territoriale sfruttava
a proprio esclusivo vantaggio l'ideale unitario. La strategia continuò a
svilupparsi al Congresso di Parigi, convocato nel 1856 alla fine della guerra
di Crimea. In tale occasione Cavour disse al rappresentante inglese Lord
Clarendon: "Milord, Ella vede che non vi è nulla da sperare dalla diplomazia;
sarebbe tempo di ricorrere ad altri mezzi, almeno per quanto riguarda il
re di Napoli"; e l'inglese, di rimando: " Bisogna occuparsi di Napoli".
"Verrò a trovarvi e ne parleremo insieme"
rispose Cavour
(4) che
nella stessa sede sondava, con il primo ministro inglese Palmerston, la
possibilità di acquisire la Sicilia. Nella seduta del Congresso l'8 aprile,
i rappresentanti di Francia ed Inghilterra sollevarono la questione dell'unificazione
italiana, e puntarono l'indice contro il Papa e Ferdinando II. Quest'ultimo
fu minacciato di serie conseguenze se non avesse accordato un'ampia amnistia
politica: il 19 e 21 maggio furono presentate delle note ufficiali dai rappresentanti
diplomatici in Napoli. Ferdinando interpretò queste comunicazioni come una
lesione alle sue prerogative di sovrano di uno stato indipendente e le respinse.
Come ritorsione, nell'ottobre del 1856 Francia ed Inghilterra ruppero
le relazioni diplomatiche, e minacciarono l'invio di una spedizione
navale punitiva, che però non ebbe luogo. Sul fronte interno, i rivoluzionari
liberali continuavano intanto a tramare: l'8 dicembre 1856 Agesilao Milano
tentò di uccidere il re nel corso di una parata, riuscendo solo a ferirlo
(fu catturato e giustiziato dopo breve processo). Il 17 dicembre, per un
altro attentato, saltò in aria un deposito di munizioni nei pressi della
reggia. Il 4 gennaio 1857 esplose la fregata a vapore "Carlo III", carica
di armi e munizioni dirette a Palermo. In entrambi i casi ci furono numerose
vittime. Il 25 giugno parte da Genova la spedizione di Pisacane, che finirà
in un bagno di sangue a Sapri (Provincia di Salerno).
Cavour invece giocò spregiudicatamente su due tavoli,
sfruttando a suo vantaggio l'appoggio sia della Francia che dell'Inghilterra:
si alleò in tutta segretezza con la prima, nel 1858 a Plombiers, ponendo
le basi per una seconda guerra contro l'Austria, e si tenne amica la seconda
con intensi contatti diplomatici. Il suo obiettivo immediato era l'unificazione
dell'Italia settentrionale e centrale sotto i Savoia. Il parlamento di Torino
approvò la legge per la sottoscrizione di un prestito di cinquanta milioni
di lire "per difendersi dalle mire espansionistiche dell'Austria". Nella
discussione avvenuta il 9 febbraio 1859, il marchese Costa di Beauregard
denunciò: "Il Conte di Cavour vuole la guerra e farà gli estremi sforzi
per provocarla. Nella pericolosa condizione in cui ci ha collocati la sua
politica, la guerra si presenta al suo pensiero come l'unico mezzo per liberarsi
onorevolmente dal debito spaventoso che ci schiaccia, e di rispondere agli
impegni che ha preso (5)
". Il bilancio del regno di Sardegna di quell'anno ebbe un deficit di 24
milioni di lire che portò il debito pubblico ad un totale di 750
milioni di lire. Cavour aveva portato pertanto il Piemonte
sull'orlo della bancarotta e la bilancia commerciale era da anni in passivo.
In tale situazione l'unica possibilità per evitare il tracollo finanziario
era la conquista di nuovi territori: l'influente deputato sabaudo Boggio
disse alla vigilia del conflitto del 1859: "Ecco a dunque il bivio: o la
guerra o la bancarotta". Nel marzo del 1859, Cavour era oramai divenuto
a pieno titolo "dittatore parlamentare", visto che assommava le cariche
di presidente del Consiglio, ministro degli Interni, ministro degli Esteri
e, dopo l'inizio delle ostilità, anche ministro della Guerra.
La così detta seconda guerra d'indipendenza iniziò il
29 aprile e si svolse tra l'avversione dei Piemontesi stessi, i cui giovani
figli erano nuovamente chiamati a sacrificarsi in battaglia. Il popolo fu
oppresso fiscalmente per sostenere l'onerosa politica governativa. I Lombardi
(protagonisti nel marzo del 1848 delle Cinque giornate di Milano, durante
le quali si liberarono da soli degli Austriaci) mantennero un atteggiamento
indifferente. I Veneti si batterono con convinzione nelle fila dell'esercito
austriaco. Ferdinando II comunicò il 1° maggio 1859, con una nota inviata
alle cancellerie europee, la sua "perfetta neutralità", fedele alla sua
massima "amici di tutti, nemici con nessuno". A tale proposito c'è però
da rilevare la validità dell'altro aforisma: "tanti amici, nessun amico":
mentre infatti Cavour manteneva una diplomazia agguerrita, "l'atteggiamento
di Ferdinando lo isolava sempre più: Francia e Inghilterra gli erano ostili,
il Piemonte non gli era amico, l'Austria era contrariata dalla sua ritrosia
ad assumere impegni. L'indipendenza, la neutralità sostenute da Ferdinando
finivano infatti col coincidere con un atteggiamento passivo, rinunciatario,
che poteva lasciarlo in balia dei nemici se fosse stato
assalito
(6)". L'isolazionismo aveva motivazioni
economiche e politiche. Ferdinando II si sentiva inoltre illusoriamente
al sicuro perché il regno "era difeso per tre quarti dall'acqua salata e
per un quarto dall'acqua santa [lo Stato del Vaticano, considerato un antemurale
inviolabile]". Di lui Metternich ebbe a scrivere: "egli non sopporta intrusioni,
è convinto che il suo regno, per posizione geografica, non ha bisogno dell'Europa".
Per questi motivi erano rimaste amiche del regno delle Due Sicilie solo
la Spagna e la Russia, l'una militarmente insignificante, l'altra lontanissima
geograficamente.
Il 22 maggio del 1859, dopo trent'anni di regno, moriva
Ferdinando II, e gli succedeva il figlio Francesco II. Lo storico risorgimentale
Alfredo Panzini, a proposito della strategia di Cavour per la conquista
del Sud, osservava: "Col Bomba egli capiva che non c'era nulla da tentare;
ma il Bomba, vivaddio, è spacciato. Rimane il figlio,
come sarà?
(7)". Francesco
"è giovane, senza esperienza, non è un idiota, come ne hanno spesso detto,
parla molto bene di tutto con un certo possesso e con molto buon senso;
talvolta ha l'aria di capire l'epoca, è imbevuto dei più esagerati principi
del sanfedismo: di carattere molto debole e molto timido, costantemente
circondato da una camarilla furiosamente retrograda e reazionaria, la quale
impedisce che la verità arrivi fino a lui
(8)".
Da notare che facevano parte di questa Corte così disprezzata ("camarilla")
uomini collusi col governo piemontese, compresi alcuni membri della famiglia
reale come Leopoldo, conte di Siracusa, e Luigi, conte d'Aquila, entrambi
fratelli del defunto Ferdinando. Al suo padre era stato affibbiato il soprannome
di "Re bomba", a lui quello di "Franceschiello" ma "la ridicolizzazione
attraverso cui la storiografia postrisorgimentale ha consegnato ai posteri
un'immagine storpiata di quel sovrano, è nient'altro che un'ennesima manifestazione
di infierimento su un vinto
(9)".
Furono riallacciati i rapporti diplomatici con Francia ed Inghilterra e
decretata un'amnistia politica con il conseguente ritorno nelle Due Sicilie
di circa 200 tra i più accaniti oppositori, costretti in precedenza all'esilio;
fu abolita la lista poliziesca degli "attendibili", cioè dei sospetti.
Francesco II diede un vigoroso impulso alla progettazione
di nuove opere pubbliche, concernenti soprattutto l’ampliamento delle
linee ferroviarie e dei porti; i liberali, da parte loro, ricominciavano
a battersi per il ripristino della Costituzione, caldeggiato anche
dalla giovane regina Maria Sofia, e per un’alleanza con il Piemonte nella
guerra in corso contro l’Austria, sollecitata anche dal Conte Salmour
inviato, in giugno, da Cavour a Napoli per negoziarla; entrambe le istanze
furono però respinte dal nuovo monarca; il plenipotenziario piemontese
così scriveva al suo primo ministro: "Almeno per il momento l’alleanza con
Napoli è impossibile, poiché, vista la situazione esterna e lo stato dei
partiti all’interno, il Re e il governo si sentono perfettamente rassicurati.
Il solo e unico modo di arrivare al nostro scopo è di agire qui come
nelle altre parti d’Italia, ossia di provocare la caduta della
dinastia e l’acclamazione di Vittorio Emanuele "
(9a).
Nella primavera del 1859, infatti, in coincidenza con la guerra francopiemontese-austriaca,
erano state scatenate in alcuni stati preunitari delle "spontanee insurrezioni
unitarie" da parte d’agenti sabaudi infiltrati; queste avevano provocato
la fuga dei sovrani regnanti (il 27 aprile del Granduca di Toscana, il 9
giugno la duchessa di Parma, come pure il duca di Modena; tutti e tre si
rifugiarono nelle braccia dell’Austria) e la costituzione di governi provvisori
a guida piemontese.
Secondo alcuni storici questa era l’ultima occasione
offerta dalla Storia alla dinastia borbonica per salvare se stessa e soprattutto
il popolo meridionale da una annessione forzata; essi, infatti, sono
convinti che ripristinando subito la Costituzione ed alleandosi col Piemonte
si sarebbe tolto a quest’ultimo ogni "pretesto" per l’invasione del Sud
del 1860; questo punto di vista è tutto da dimostrare viste le trame delle
superpotenze e di Cavour, nondimeno c’è da dire che i liberali meridionali
pretendevano che il giovane Francesco ribaltasse immediatamente, e di 180
gradi, la politica seguita dal padre dalla cui personalità egli era stato
sempre schiacciato e che era defunto solo da un mese, un po’ troppo per
un personaggio del suo calibro. La politica estera isolazionistica
di Ferdinando II rimase, pertanto, immutata; Francesco II era immobile proprio
quando in Europa erano in pieno svolgimento le manovre delle potenze grandi
e piccole: la cosiddetta seconda guerra d’indipendenza (in realtà,
principalmente, una vera e propria guerra franco-austriaca) ebbe due principali
e cruentissime battaglie svoltesi entrambe nel giugno 1859: quella
di Magenta del 4 e quella di Solferino del 24; in esse l’esercito piemontese
dette pessima prova di se’: nella prima si presentò allo scontro quando
era concluso, nella seconda l’episodio "vittorioso" di S. Martino fu determinato
dal fatto che il generale austriaco Benedek, che in giornata aveva respinto
più volte gli attacchi dei sabaudi pur avendo a disposizione la meta’ dei
loro effettivi, ricevette verso sera l’ordine di ritirata dall’imperatore
Francesco Giuseppe; il conflitto si concluse con l’armistizio franco-austriaco
di Villafranca, firmato l’11 luglio 1859 senza nemmeno informare Cavour
il quale, dopo una isterica sfuriata davanti al sovrano in cui dichiaro’
"Il vero Re sono io!", si dimise; fu concordata la cessione della Lombardia
alla Francia che la "girò" al Piemonte senza che ci fosse un plebiscito
per verificare il consenso dei lombardi.
Il 10 novembre 1859 fu firmata la pace di Zurigo che
non differiva sostanzialmente da quella di Villafranca e prevedeva la nascita
di una confederazione italiana da discutere al Congresso Europeo di Parigi
che si doveva tenere il 5 gennaio del 1860; questa proposta era stata fatta
da Napoleone III il quale cominciava a sospettare che il Piemonte non si
accontentasse più di fagocitare l’Italia settentrionale ma che volesse annettersi
tutta la Penisola, al piccolo stato che, nei suoi disegni, sarebbe dovuto
diventare un vassallo della Francia poteva subentrare un grande stato più
difficilmente malleabile.
Per motivi opposti l’Inghilterra aveva interesse che
si creasse uno stato italiano più grande in modo da limitare l’influenza
francese su di esso, così , a dicembre, l’ambasciatore inglese a Torino,
Sir James Hudson, a nome del suo governo, chiede all’aiutante di campo del
re Vittorio Emanuele II di far nominare Cavour inviato ufficiale piemontese
all’assise internazionale, il Conte ottenne immediatamente l’incarico ma
questo congresso non si tenne e il 14 gennaio 1860 l’Inghilterra
inviava una nota, che aveva il sapore di un ultimatum, alle cancellerie
europee diffidando la Francia e l’Austria ad interferire ulteriormente nella
questione italiana, ufficialmente in nome del principio di "non intervento";
era il via libera definitivo per l’espansione territoriale del governo sabaudo
che si sentì coperto alle spalle dalla più forte superpotenza mondiale;
il 24 giugno la regina Vittoria rimarcò gli intenti inglesi affermando in
un discorso al Parlamento "Mi sforzerò di ottenere per i popoli d’Italia
la libertà di decidere da loro stessi delle proprie sorti senza intervento
straniero" [fatta esclusione per il suo, ovviamente]. Era il definitivo
via libera per l'espansione territoriale dello Stato sabaudo, che ebbe le
spalle coperte dalla più forte superpotenza mondiale. Cavour ritornò a capo
del governo a fine gennaio del 1860 tenendo per sé, oltre alla carica di
presidente del Consiglio quella di ministro della Marina (a maggio se ne
chiarì il significato con la spedizione dei Mille e gli sbarchi successivi
dei rinforzi piemontesi). Riallacciò i rapporti con Napoleone III e il 23
marzo cedette alla Francia la città di Nizza e la Savoia (regione d'origine
della casata regnante), impegnandosi a rimborsare le spese di guerra francesi
del 1859 per circa 50 milioni di franchi. Ricevette in cambio il consenso
dell'imperatore all'annessione piemontese della Toscana, dei ducati padani
e delle legazioni papali, territori nei quali, nella primavera del 1859,
in coincidenza con la guerra francopiemontese-austriaca, erano avvenute
delle "spontanee" insurrezioni unitarie che avevano provocato la fuga dei
sovrani regnanti (il 27 aprile del Granduca di Toscana, il 9 giugno la duchessa
di Parma, come pure il duca di Modena; tutti e tre si rifugiarono in dell'Austria).
Mancavano solo le Due Sicilie a completare il quadro di sei stati,
di tradizioni plurisecolari, che in complessivi venti mesi furono cancellati
dalle carte politiche. La popolazione che li componeva assommava a 19 milioni
di persone contro i 5 del Piemonte.
A fine gennaio, tramite l'ambasciatore Marchese di Villamarina,
Cavour aveva fatto pervenire a Francesco II un messaggio di Vittorio Emanuele
II: "La Casa Savoia non è mossa da fini ambiziosi o da brama di signoreggiare
l'Italia (...) lungi dal volere e dal desiderare che sia turbato
alla reale casa di Napoli il pacifico possesso degli Stati che le appartengono
(...) non sarebbe migliore salvaguardia dell'indipendenza d'Italia
che il buon accordo fra i due maggiori potentati di essa", un'analoga
proposta di alleanza venne reiterata in aprile senza ottenere risposta affermativa
dal Francesco. Contemporaneamente però il Piemonte inviava emissari per
prendere contatto con i rivoluzionari siciliani che stavano per insorgere
di nuovo contro il governo di Napoli. Ad essi si prometteva l'appoggio piemontese
per una futura autonomia dell'isola, pur se inserita nel costituendo regno
d'Italia che sarebbe nato dopo la cacciata dei Borbone. Il 3 aprile, un
mese prima che gli avvenimenti precipitassero, il fratello del defunto Ferdinando
II, Leopoldo Borbone, Conte di Siracusa, sposato con Filiberta di Savoia
(sorella di Vittorio Emanuele), inviava una lettera al nipote Francesco
sollecitandolo ad intraprendere una politica adeguata ai tempi: "Il principio
della nazionalità italiana, rimasto per secoli nel campo dell'idea, oggi
è disceso vigorosamente in quello dell'azione. Sconoscere noi soli questo
fatto sarebbe di una cecità delirante, quando vediamo in Europa altri aiutarlo
potentemente, altri accettarlo, altri subirlo come suprema necessità dei
tempi. Il Piemonte (...) facendosi iniziatore del novello principio (...)
oggi usufrutta di questo politico concetto, e respinge le sue frontiere
fino alla bassa valle del Po (...) la Francia (...) sarà sempre mai sollecita
a crescer d'influenza in Italia (...) l'Inghilterra, che pure accettando
lo sviluppo nazionale d'Italia, dee però contrapporsi all'influenza francese
(...) nel Mediterraneo (...) l'Austria, dopo le sorti della guerra (...)
sente ad ogni ora vacillare il mal fermo potere (...) né occorre che io
qui dica a V.M. dell'interesse che le potenze settentrionali prendono in
questo momento (...) giovando in fine più che avversando loro la creazione
di un forte Stato nel cuore d'Europa, guarentigia contro possibili coalizioni
occidentali. In tanto conflitto di politica influenza, qual è l'interesse
vero del popolo di V.M. e di quello della sua dinastia? Sire! La Francia
e l'Inghilterra, per neutralizzarsi a vicenda, riuscirebbero (...) da scuoter
fortemente la quiete del paese ed i diritti del trono, l'Austria cui manca
il potere di riafferrare la perdute preponderanza e che vorrebbe rendere
solidale il governo di V.M. col suo, più dell'Inghilterra stessa e della
Francia tornerebbe a noi fatale, avendo a fronte l'avversità nazionale,
gli eserciti di Napoleone III e del Piemonte, la indifferenza britannica.
Quale via dunque rimane a salvare il paese e la dinastia minacciata da così
gravi pericoli? Una sola. La politica nazionale che riposando sopra i veri
interessi dello Stato, porta naturalmente il Reame del Mezzogiorno a collegarsi
con quello dell'Italia superiore (...) operandosi tra due parti del medesimo
paese, egualmente libere ed indipendenti tra loro. Anteporremo noi alla
politica nazionale uno sconsigliato isolamento municipale?
(10)".
Queste parole (secondo alcuni profetiche, per altri dettate da opportunismo)
rimasero al momento inascoltate. Del resto la famiglia Borbone non stava
certo aiutando Francesco: durante l'agonia di Ferdinando, la matrigna Maria
Teresa aveva complottato per escluderlo dalla successione. Gli zii tentavano
di ingraziarsi il Piemonte in vista di un'improbabile successione al vacillante
trono di Francesco. Il potere era nelle mani dell'anziano primo ministro
Carlo Filangieri (responsabile della repressione militare dell'insurrezione
siciliana del 1849), che abbandonerà il re al suo destino alle prime avvisaglie
di pericolo. I Piemontesi fomentavano rivolte tramite agenti e circoli massonici,
e prospettavano colloqui solo per salvare la facciata (quando Francesco
aderirà alla proposta, i Piemontesi si ritireranno come avevano fatto nel
1847 per l'unione doganale, e getteranno la maschera, invadendo il Regno).
Le sorti del regno erano dunque segnate da decenni di spinte rivoluzionarie,
cui non aveva saputo contrapporre un'adeguata risposta intellettuale.
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Note al capitolo 7:
(1) "occhio di cane e bocca di lupo":
sarcastica definizione coniata da Ferdinando II
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(2) (3) Roberto Martucci, " L'invenzione
dell'Italia unita ", Sansoni 1999
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(4) Dalla lettera di Cavour a
Rattazzi del 9 aprile 1856 [ Lettres dè Cavour à U.Rattazzi, Paris, 1862,
p.247; riportata da Ò. Clery " La Rivoluzione italiana ", Ares, 2000]
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(5) Antonio Pagano "Due Sicilie
1830/1880" Capone editore, 2002
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(6) Giuseppe Coniglio, " I Borboni
di Napoli ", Corbaccio, 1999
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(7) Giuseppe Campolieti, op.
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(8) dal dispaccio dell'ambasciatore
piemontese a Napoli diretto a Cavour il 30 gennaio 1860 (originale in
francese) in "Carteggi di Cavour", vol.1, pag. 12; riportato da Umberto
Pontone in "Due Sicilie", luglio 2003
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(9) Paolo Mieli in "La Stampa", domenica
9 luglio 2000, pag. 19
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(9a) citato da Antonio Pagano,
"Due Sicilie, 1830-1880", Capone editore, 2002, pag.86
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(10) riportata da Umberto Pontone
in "Due Sicilie", luglio-agosto 2003.
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